Spesso e volentieri sono travolto dalle varie ondate di esterofilia che la stampa sportiva ci riserva periodicamente. Mi sembra una tendenza piuttosto diffusa e lo vedo, da Toscano, forzando un po’ il termine di paragone, quando parlo con persone di altre cittadine. Mentre io tendo a evidenziare i lati negativi della mia lodando quelle altrui, i miei interlocutori fanno lo stesso ma con le città invertite. Ciò che è esterno a noi spesso ci spaventa ma, almeno io, avverto un’attrazione di fondo che al primo pretesto mi fa esaltare in maniera quantomeno esagerata le realtà esterne alla mia, in qualsiasi ambito.

Di favole sportive il calcio ne ha regalate diverse, sempre riallacciandomi al discorso di poc’anzi basta pensare al Leicester di Ranieri, oppure alla più recente storia dell’AFC Wimbledon. Non dobbiamo per questo evitare di dar risalto alle storie italiane, quelle che avvengono sui nostri campi e sulla pelle di persone che sono molto più simili e vicine a noi rispetto agli abitanti della Terra d’Albione o di qualsiasi altro angolo del globo.

L’Arezzo di quest’anno, per esempio, ha una storia sportiva e umana che per quanto mi riguarda è a dir poco emozionante. La faccio breve anche perché ne abbiamo parlato in diverse riprese anche nel passato. L’Arezzo ha avuto una vita societaria molto travagliata durante il corso dell’ultima stagione. I sedicenti proprietari della squadra non hanno pagato diversi stipendi, dai calciatori ai magazzinieri, mettendo più volte a rischio il proseguimento del campionato e la stessa sopravvivenza del club, sembrato in certi frangenti molto prossimo al fallimento. Il rischio è stato poi sventato dalla gente di Arezzo, dai suoi esercizi commerciali e da un investitore che sembra interessato all’acquisizione della società in toto alla prossima asta. Se il tutto non bastasse, i tribunali sportivi hanno dato agli amaranto 15 punti di penalizzazione totali, incuranti dello sforzo della città intera, ma sappiamo bene che le regole non lasciano spazi a sentimentalismi di sorta e in fondo è anche giusto così.

All’ultima partita della stagione la squadra toscana si ritrova dunque a rischio concreto di retrocessione, quart’ultima, con i Play Out minacciosi sullo sfondo. Al 44esimo minuto del secondo tempo però, fermi ancora sullo 0 a 0, Cellini segna, il settore ospiti va in visibilio e l’Arezzo raggiunge la salvezza diretta. Non me ne vogliano le squadre retrocesse e le loro tifoserie, ma è così che doveva finire.

Questa situazione precaria che ha attanagliato gli amaranto per tutta la stagione ha fatto sì che si creasse un’alchimia unica tra mister, giocatori e tifosi. Come simbolo di unione mi è saltato all’occhio lo scudetto della squadra. Il cavallo della città adornato con l’alloro, molto in voga nella simbologia ultras italiana e aretina in particolare, come a suggello di questo legame. I ragazzi della Minghelli hanno seguito la squadra con buoni numeri in tutte le trasferte, sostenendola anche economicamente con svariate migliaia di euro raccolti. Dopo la partita i festeggiamenti di rito e le foto di squadra, completamente denudata, e tifosi, come a rinsaldare il patto che hanno stretto nel corso dell’annata. Si chiude così il cerchio: era esattamente così che doveva andare a finire.

Foto di Sauro Subbiani