Se non fosse per un contesto diverso, alcune immagini del funerale di Ciro Esposito sembravano, per certi versi, simili a quelle in funeraliCirooccasione della cerimonia funebre di Gabriele Sandri. Solo quando qualcuno di noi ci lascia, purtroppo, riusciamo ancora a sentirci una comunità coesa. Con ideali sentiti e comuni. C’è magari chi si lascia andare ad un esibizionismo fuori luogo, per esempio postando le proprie foto con gran fretta sui social per dire “io c’ero”. C’è chi, sul posto, invece di rendere omaggio anonimamente fa di tutto per farsi notare da capi ultras di tifoserie “toste”. Ma, nel complesso, una morte che ci riguarda da vicino dà vita ad un omaggio sentito e che, nel più dei casi, parte dal cuore.

Chi ha partecipato al funerale di Ciro da ogni angolo dello Stivale, ma anche chi ha guardato le immagini dei video del funerale, sentito i cori, visto tutta quella muraglia umana e nello stesso tempo composta, di sicuro qualche brivido l’ha avuto. Qualche lacrima sarà uscita, ne sono certo. E senza dubbio, in quella piazza di Scampia accompagnata dal sole, Ciro viveva ed era presente.

Ma c’è anche il day-after. Il momento in cui, passata l’emozione capace di abbattere muri e pregiudizi tra di noi, si ricrea quella barriera fatta di proprie verità, di steccati ideologici e di diffidenza. Finisce il funerale e finisce la fratellanza in nome di uno stile di vita comune, di un sentire che va ben oltre radicate rivalità. In attesa del prossimo funerale, della prossima vita spezzata troppo in fretta da piangere.

Ma Ciro, come gli altri sfortunati ragazzi che l’hanno preceduto, può ancora continuare a vivere, e non solo nei cuori dei familiari, degli amici, e di chi gli ha voluto bene. Ciro vivrà per tutti gli ultras se la sua morte sarà l’ultima; vivrà se si accetterà, finalmente, che delle regole esistono e non vanno mai trasgredite né derogate; vivrà nel momento in cui l’ultras, se mai accadrà, tornerà allo stadio mettendo al centro di tutto la propria squadra; vivrà se, pur affrontando il rivale, lo rispetterà; vivrà se, finalmente, saremo capaci di superare troppe divisioni interne per creare, chissà, è un sogno, un qualcosa di duraturo che legittimi ed organizzi gli ultras. Perché se l’unità esiste nel giorno del dolore, allora essa deve esistere anche in un giorno qualunque. In un Palermo-Milan come in un Gallipoli-Casarano.

Dopo la morte di Spagna gli ultras si erano uniti nel nome di un “Basta lame, basta infame” rivelatosi effimero, retorico, se non ipocrita. Oggi non ci possiamo più voltare dall’altra parte, né coprirci con slogan di facciata e, anche se quanto accaduto a Ciro non è circoscrivibile esclusivamente all’interno delle dinamiche ultras, vicende tragiche come questa sono tutte legate ad un modo sbagliato di vivere lo stadio. Dove non si sono perse solo le regole, ma i valori di base che dovrebbero esistere sempre. Così come le motivazioni. Perché se il quindicenne esaltato va allo stadio col mito di qualche pistolero o accoltellatore non sbaglia lui, ma chi ha solcato quella strada. Se il quindicenne, come lo siamo stati noi, tornerà, invece, ad avvicinarsi allo stadio pensando a cori che abbattono i muri e ad un mare di bandiere, qualcosa sarà cambiato.

E allora, in questo articolo, non voglio assolutamente spendere parole al miele dette e ridette. Vorrei solo che ci fosse una riflessione che vada al di là del momento di dolore. Vorrei che scorressero i nomi di tutti coloro che hanno perso la vita per una partita di calcio, e ci si chieda perché sono morti. In nome di che? Di chi? Non c’è stata una sola morte sensata. E nessuno venga a dirci che ci sono più morti per le risse in discoteca o per le stragi del Sabato sera, perché questo è il nostro mondo, che a me piace ancora guardare con gli occhi di un bambino. E negli occhi di un bambino non ci deve essere spazio alcuno per la morte. Mai.

Stefano Severi.