Gigi Marulla era nato a Stilo. In provincia di Reggio Calabria. In uno di quelli che oggi è considerato tra i borghi più belli d’Italia e che conserva nel suo territorio l’antica storia della sua terra. Le fragranze della Magna Grecia e l’antropico miscuglio dei popoli che ne hanno calpestato il suolo sa ben raccontare il corso millenario di una terra – quella di Calabria – che da sempre fa storia a sé.
Io sono nato a Roma. Nel 1987. E Gigi Marulla me lo ricordo, sebbene in maniera sfocata. Era la stagione 1996/1997, la sua ultima con la maglia del Cosenza. L’album Panini aveva una copertina verde con l’immancabile Carlo Parola al centro e le figurine si incastravano in una cornice gialla. Per i silani quella fu un’annata maledetta, culminata con la retrocessione all’ultima giornata, in quel di Padova, e la sorprendente salvezza della matricola Castel di Sangro.
Gigi Marulla giocò la sua ultima gara in maglia rossoblu all’Euganeo. Lontano dal San Vito e dalla sua Calabria. Ma non fu un addio, tutt’altro: rimase in società per altri anni e con altri ruoli.
Nel 2015 Gigi Marulla ha lasciato questo mondo in maniera improvvisa. Gettando nello sconforto l’intero mondo del calcio: allenatori, tifosi ed ex compagni. A lui è stato intitolato lo stadio San Vito e per lui ogni domenica riecheggiano cori e sventolano vessilli ovunque il Cosenza giochi.
Non è un caso che anche a Pescara, dopo il triplice fischio, uno dei primi cori sia stato proprio per lui. Marulla all’Adriatico ha scritto una delle pagine più celebri della storia cosentina. Era il 26 giugno 1991 quando un suo gol condannò la Salernitana alla Serie C e regalò ai calabresi la permanenza in cadetteria.
Ecco perché sin da subito la sede designata per questa finale ha suscitato vecchi ricordi e antiche sensazioni tra i supporter rossoblu. Ecco perché l’inaspettata cavalcata dei ragazzi di Braglia a molti è parsa un segno del destino. Quasi un voler rinverdire i fasti di un’epoca calcisticamente felice e ricca di emozioni. Soprattutto se si pensa agli ultimi, tribolati, quindici anni trascorsi dall’ultima apparizione in B.
Quella del Cosenza è una storia simile a tanti altri club del suo rango. Sodalizi gloriosi, dal passato intriso di tradizione calcistica, che or ora faticano a trovare la retta via, annaspando spesso in categorie infime e prive di un qualsiasi confronto calcistico/curvaiolo degno di nota.
Certo, lo dico subito, tanto per essere chiaro e ribadire quanto già detto in occasione della gara di San Benedetto del Tronto: gli ultras del Cosenza in questi ultimi tre lustri hanno troppo spesso peccato di discontinuità, apatia e indolenza. Al cospetto di un potenziale stratosferico (basti vedere queste ultime partite) ci si è spesso trovati di fronte a settore ospiti con poche unità di persone e presenze casalinghe ben al di sotto della media. Per carità, non è un’accusa ma un onesto viatico laddove poi si vogliono sottolineare i meriti e la bellezza degli spettacoli offerti in casa e trasferta negli ultimi tempi.
Dall’altra parte della “barricata” c’è il Siena. Club che da fine anni ’90 ha trovato una sua dimensione continuativa nel calcio che conta, con diversi anni (e ottimi campionato) di Serie A, fino al recente fallimento che ha costretto i toscani a ricominciare dalla Serie D.
Facendo mente locale sui bianconeri, il fermo immagine non può che cadere sul vecchio e storico striscione degli Ultras Fighters. Ho una loro sciarpa a casa, forse una delle prima comprate su Supertifo. È in panno rigido ed ha la scritta ricamata. A guardarla mi rivengono in mente quelle prime foto sbirciate sui giornalini e le partite mandate in onda da Raisport, dove si cercava in tutti i modi di individuare striscioni e composizioni delle curve.
Non corre buon sangue tra le due tifoserie, pesano ancora gli incidenti avvenuti durante il ritiro di Norcia, nel 2008.
Quando mancano un paio d’ore al fischio d’inizio, davanti alla Curva Nord i senesi arrivano alla spicciolata. Siamo a ridosso del settore tradizionalmente occupato dagli ultras pescaresi, che per l’occasione hanno diffuso un comunicato dai toni aspri, in cui hanno esternato tutto il proprio disappunto per l’occupazione del proprio settore da parte di un’altra tifoseria, minacciando “interventi” in caso di situazioni critiche.
A onor del vero nell’area succitata è tangibile la presenza di diversi ultras abruzzesi, con diversi focolai che si accendono di tanto, quando passano tifosi calabresi con sciarpe e bandiere, sebbene non si tratti di gruppi organizzati. A mezz’ora dal fischio d’inizio qualche tensione si registra anche con i senesi protagonisti, i quali sembrano non gradire l’ingente numero di supporter cosentini di passaggio sotto al settore loro assegnato.
La prima emozione “pallonara” della serata è quella di poter rimettere piede sul manto verde dell’Adriatico. Uno degli stadi più famosi del calcio provinciale, che nella sua storia può vantare diverse presenze di lusso. Scarpini pregiati come quelli di Baggio, Totti, Del Piero, Batistuta, Mancini e via dicendo.
Le squadre stanno ultimando il proprio riscaldamento, mentre la quasi totalità degli spettatori ha ormai preso posto. I numeri sono vistosamente impari, con il contingente calabrese che si attesta attorno alle 8.000 unità e quello toscano che sia aggira sulle 1.000 presenze.
So bene che i numeri contano in maniera limitata e anzi, come detto in precedenza, nel caso dei calabresi sono un vero e proprio specchio dove comprendere ciò che va migliorato in termini di continuità. Tuttavia, sempre parlando con schiettezza, dal pubblico senese c’era da aspettarsi qualcosina di più. È vero che Siena è una città piccola, è vero che forse il calcio non è mai stato lo sport più seguito ed è vero che non si potevano pretendere le cifre dei dirimpettai. Però è altrettanto vero che parliamo di una finale secca, per giunta in una località non proibitiva da raggiungere.
Non so se questa “mancanza” sia dovuta davvero allo scarso appeal che il calcio ha in città o a un crollo dell’umore dovuto alla repentina caduta dalla Serie A alle categorie inferiori, però a memoria ricordo parecchi centri della stessa grandezza e con lo stesso bacino di Siena portare numeri ben più alti in occasioni simili.
Così come un appunto nei loro confronti mi sento di farlo per la coreografia iniziale, composta da un semplice striscione “ABBattiamoli” e da una sciarpata di contorno. Per carità, anche qua non voglio fare il pignolo, però un qualcosa di più elaborato sarebbe stato forse più consono all’evento. La Robur si giocava il ritorno in cadetteria che, conoscendo il modus operandi che contraddistingue quelle parti, avrebbe di certo potuto coincidere con un importante rilancio calcistico.
Per farla breve: mi aspettavo più entusiasmo generale.
Sul loro tifo non mi sento complessivamente di giudicarli in negativo. I presenti fanno quello che possono, soprattutto nel primo tempo, quando il risultato lascia ancora qualche speranza ai bianconeri. Nella ripresa l’intensità cala un po’ per riaccendersi al rigore del momentaneo 1-2, spento poco dopo dal definitivo 1-3 di Baclet.
Ora, io sono sempre scettico quando una tifoseria arriva in massa a un appuntamento. Un po’ perché massa – da che mondo è mondo – non fa rima con qualità, e un po’ perché so bene quanto sia difficile coordinare tante gente in un settore lungo e dispersivo come la curva dell’Adriatico. Inoltre i cosentini hanno due difficoltà oggettive in più: le divisioni interne che li hanno contraddistinti negli ultimi anni e i tantissimi tifosi dell’ultima ora che, giocoforza, si ritroveranno sulle gradinate. E abbattere questi paletti spetta solo e soltanto a lanciacori e tamburisti.
Cominciamo col dire che per l’occasione la tifoseria silana sarà tutta insieme. Curva e Tribuna A, con il solo intento di tifare Cosenza e spingerlo alla vittoria. Una scelta che ha raccolto il consenso di tutto l’ambiente e che sicuramente ha delineato una grande presa di coscienza da parte di tutti ad appannaggio della causa comune. Potrà sembrare scontato, ma non lo è per niente. In passato ho visto tifoserie rovinare letteralmente questi momenti, mettendo avanti a tutto le proprie motivazioni.
La Sud interamente ricoperta di striscioni è un bel vedere, anche grazie all’ottima fattura degli stessi. Del resto è da sempre un marchio di fabbrica per i rossoblu. L’entusiasmo e la tensione si tagliano a fette. Già in fase di riscaldamento diversi cori vengono intonati, riuscendo a coinvolgere anche i presenti nelle tribune.
Da segnalare la presenza di diverse tifoserie gemellate, tra cui spiccano le pezze di casertani, anconetani, lancianesi e casaranesi (in tribuna). Mentre alcuni cori vengono scanditi in favore dei genoani. A occhio non ho visto altre insegne, quindi se mi sfugge qualcosa, chiedo preventivamente venia.
Alle 20:45 il momento atteso da giorni è arrivato, la Sud si colora con numerosi cartoncini, sovrastati da due aste che formano la scritta “We can B heroes”. Le danze sono ufficialmente aperte.
Vedo il popolo rossoblu soffrire ma al contempo cantare, essere compatto. Oggi sta offrendo il suo volto migliore. Sta dando un calcio alla suo essere troppo spesso lunatico. Troppo facile, dite? Può darsi, ma mi viene in mente un articolo che scrissi sui tifosi della Spal mesi fa. Mi sorprendeva come, sebbene i risultati sportivi avessero portato tanti “occasionali” allo stadio, questi non fossero semplici figuranti, ma partecipassero attivamente al tifo.
Anche in questo caso si intuisce – e pure molto – che c’è una base storicamente importante a Cosenza. Uno scrigno che conserva calcio e tifo e che è pronto ad emergere facendo luce quando tutti lo vogliono.
Sì, è vero, forse spesso i canti risultano un po’ scoordinati, ma complessivamente alcune manate e alcuni cori sono eseguiti veramente in maniera magistrale. Così come perfetta è la sciarpata che va in scena nel secondo tempo, quando con i calabresi avanti 2-0 il settore comincia a sentire profumo di Serie B.
C’è un alone di incredulità che ammanta il pubblico del Cosenza. Se glielo avessero detto qualche mese fa, quando si storceva il naso per un punto perso in chiave salvezza, forse non ci avrebbero mai creduto. E infatti sono in tanti a pensare che il rigore trasformato dal senese Marotta, a 20′ dal termine, sia solo l’inizio della fine di un sogno.
Ma la squadra di Braglia sembra avere qualcosa in più. Sembra camminare sul velluto sapendo di essere prossima al tesoro. E sa che può arrivarci, che ormai l’inerzia è dalla sua parte e che non c’è tempo per distrarsi o rammaricarsi.
Ci pensa Baclet. All’88’. Fa esplodere i suoi tifosi, correndo fin sotto la vetrata. Per qualche secondo le maglie bianche si fondono con gli striscioni appesi e la gente esultante.
Ora si aspetta solo il triplice fischio. Per alzare le mani al cielo come quel 21 giugno di 27 anni fa. E per tornare ufficialmente in quella categoria malamente abbandonata 15 stagioni or sono.
Forse in tanti neanche sentono l’incedere dei fischi del direttore di gara. Perché vedo qualcuno piangere e altri restare con le mani nei capelli, quasi avessero perso. Strano il calcio, che spesso ti lascia davanti agli occhi questi fenomeni di isteria, gioia e tristezza collettiva.
Il Cosenza festeggia e lo fa senza freni con chiunque questa sera abbia deciso di metter piede in terra d’Abruzzo. I giocatori baciano le proprie donne e si abbracciano increduli. La coppa dei Playoff viene alzata al cielo stellato di Pescara.
So come vanno certe cose al Sud. È solo l’inizio di un festeggiamento continuo, che probabilmente occuperà serate e strade di tutta l’estate cosentina. Anche perché per celebrare al meglio la promozione, in tanti debbono smaltire la sbornia di questa nottata.
Raccolgo le mie cose e me ne vado mentre qualcuno ancora saltella e grida alle mie spalle.
La Serie C di quest’anno ci ha restituito quattro grandi piazze, andando a creare le basi per un tipo di cadetteria che forse mancava dagli anni ’90. Anche per questo gli ultras rossoblu dovranno farsi trovare pronti, per fronteggiare piazze storicamente avverse e vogliose di mettere in mostra tutto il proprio prestigio.
Simone Meloni