Oggi, 19 agosto, squadre quali Celtic Glasgow e Stella Rossa di Belgrado sono già scese in campo a giocarsi la qualificazione ai gironi di Champions League. Tradotto: compagini che hanno vinto il campionato nella propria nazione, iniziano il percorso nella massima competizione continentale previsto dalla UEFA senza che il titolo di campione d’Europa dell’anno precedente sia stato ancora assegnato. Un ritorno alla normalità insomma, dal momento che ogni anno assistiamo a questa discutibile farsa ma stavolta con questa piccola discrepanza temporale fra inizio e fine che s’accavallano.

Non voglio qui addentrarmi nei meccanismi delle fasi di qualificazione o negli stadi che sono in alcuni pesi agibili, entro un certo limite di persone, mentre in altri è proibito che sia presente pubblico ad amichevoli di seconda categoria, ma ragionare sul recente passato. I dati sugli ascolti della serie A di inizio luglio mostrano un calo del 40%, condizionati forse anche dalla pochezza espressa dal gioco in campo; con ciò non vado ad ipotizzare una presa di coscienza di massa contro le pay-tv e gli stadi vuoti, ma la consapevolezza abbastanza diffusa che quello non era calcio. E questo chi il calcio lo vende, lo sa, e per riparare al calo di livello del calcio italiano degli ultimi anni anche chi, come SKY, mette sul mercato il prodotto serie A, ha alimentato il discorso ideologico dello storytelling.

L’ideologia, si sa, è un misto tra elementi reali ed immaginari, in questo caso favoriti dal fatto che la serie A di anni ’90 e 2000 la guardavano molti di noi, in un connubio di due elementi: il calcio come sport ancora praticato dalla stragrande maggioranza dei bambini, adolescenti e preadolescenti, e l’assenza di concorrenza nei mezzi di comunicazione, una assenza di pluralismo d’informazione a causa dello sviluppo ancora da avvenire del mondo legato a cellulari e web in primis. Tele + e Novantesimo Minuto erano gli unici luoghi del ristretto mondo televisivo dove reperire video e telecronache, formando così un blocco monolitico che si imponeva. Zero siti, canali YouTube o pagine Facebook su ogni tematica inerente il pallone.

Il presente si autogiustifica alimentandosi col passato, mitizzandolo e rendendo romanticamente rimpiangibili, con tutto il rispetto, anche le figuracce dell’Ancona in A nel 2003/04. Oggi siamo giunti al culmine di questa pantomima. L’unica soluzione per il calcio è spiegarlo non come una favola imbellettata, ma come fenomeno collettivo, e solo gli ultras sono parte di ciò, o non si spiegherebbe la quasi totale scomparsa di calcio club nei settori distinti degli stadi italiani, eccezion fatta per qualche grande di serie A. La voglia di stare assieme è la stessa che ha animato ciascuno di noi durante i mesi di lockdown, pur essendo noi in perenne contatto con conoscenti, famigliari e amici grazie ai vari social, in comode case con servizi e sfamati da supermercati aperti. Le reti formali esistono, sono quelle la struttura della vita, dei rapporti umani, divani e tv sono solo palliativi, questo va ricordato nei momenti in cui il mondo del tifo e delle curve viene ciclicamente criminalizzato.

Amedeo Zoller