Istanbul a fine luglio. Un concentrato di gente, suoni, rumori e odori che difficilmente passano inosservati. Uno spaccato di vita e vitalità in cui ti vien voglia di tuffarti per sentirti parte integrante di qualcosa. Qua sono passati imperatori, sultani, califfi, re e culture. Qua puoi guardare da una sponda all’altra sapendo di vedere due Continenti. Mentre centinaia di navi cargo, traghetti e imbarcazioni da crociera spaccano in due il Bosforo. Sorvegliate a vista dallo stuolo di bandiere turche disseminate praticamente in ogni angolo della città. Su ogni collina, in ogni molo e in qualsiasi spazio scarno. Dovrei dedicare un articolo solo ed esclusivamente alla visita di un luogo che è stato Capitale di tre imperi e che ancora oggi rappresenta una delle megalopoli più grandi e cosmopolite del Mondo. Mi dovrò soffermare sull’aspetto calcistico, ugualmente variegato e specchio della storia cittadina. Anche perché a Istanbul il calcio è quotidianità, vita, socialità e ovviamente rivalità. Me ne accorgo quando attraversando la prima volta il Ponte di Galata mi dirigo verso l’omonima e celebre Torre, rimanendo sempre più irretito tra bandierine, festoni e vessilli giallorossi. La scritta 23 campeggia ovunque, per festeggiare i titoli del Galatasaray, fresco Campione di Turchia. Su Istiklal Caddesi – il corso che finisce in Piazza Taksim – è un susseguirsi di richiami alla squadra di quartiere, nonché la più titolata di Turchia. Mentre locals e turisti percorrono le strade ignari o con indosso le maglie degli Aslanlar (Leoni).

Pur essendo in vacanza non ho rinunciato al mio classico spirito selvaggio nel viaggiare, raggiungendo Istanbul via terra, con il pullman che da Sofia impiega circa dieci ore e permette sin da subito di entrare in contatto con gente del luogo e situazioni borderline (vedi mezzo sequestrato alla frontiera per oltre tre ore e gente che importava/esportava Kitekat e barrette della Nestlé!). Del resto se si fanno le cose semplici e lineari poi si ha ben poco da raccontare, questa resta la mia filosofia. Non sono nuovo da queste parti, nel 2013 infatti avevo avuto modo di visitare per la prima volta la megalopoli turca, anche se per pochi giorni. Stavolta me ne sono concessi otto pieni, affinché potessi perlustrarla in lungo e largo, uscendo dai classici circuiti turistici e immergendomi appieno nella città più autentica e verace. Anche perché le sue dimensioni (attualmente sono circa 16 milioni gli abitanti stimati) quasi costringono a prolungare il proprio soggiorno. Istanbul è Europa, Asia, Islam, Cristianesimo, Ebraismo, impero romano, ottomano e bizantino. Istanbul sono rivolte di piazza, storture politiche, passaggi epocali per la storia europea e mondiale. Istanbul è tutto e molto più di ciò. Istanbul è la Nuova Roma, come è stata ribattezzata per lunghi tratti della sua esistenza. Cosa che, per ovvie ragioni, mi ha sempre affascinato e che sin da piccolo ha creato un legame – seppur solo mentale – con questa città. Non è un posto per superficiali o turisti da Ibiza e Mykonos, ma è una visione introspettiva che ti accresce e ti fa vedere diversamente anche tanti aspetti della vita quotidiana. E quindi come mancare l’appuntamento con il calcio? Quale anfratto può mostrarmi un altro lato puro della sua gente? Certo, il Galatasaray è forse la squadra più commerciale ma, come avrò modo di dire, rappresenta pur sempre un punto cardine per lo sport nazionale. E quindi vale assolutamente la pena spenderci qualche ora. Anche solo per la fatica fatta di ottenere l’accredito (sic!).

Cominciamo con l’ovvio: le tre squadre più importanti di quella che è stata Capitale della Turchia fino al 1923 (quando per ragioni di sicurezza venne proclamata Ankara, posta più all’interno e non attaccabile via mare) sono Fenerbahçe, Beşiktaş e, per l’appunto, Galatasaray. Tutte e tre fanno capo agli omonimi quartieri. Il primo situato nella parte asiatica della città, il secondo più vicino alla zona centrale di Sultanamhet/Fatih – nonché dirimpetto al magnifico Palazzo Dolmabahçe – e il terzo posto nella Istanbul medievale, quella che per lunghi tratti fu sotto l’egida dei genovesi e che per secoli si caratterizzò per il miscuglio tra questi ultimi, marinai pisani e turchi. Poi esistono anche altri sodalizi cittadini, che tuttavia non hanno mai riscontrato un massiccio seguito popolare. Da questo discorso escludo a piè pari l’İstanbul Başakşehir, squadra che da qualche anno – grazie all’appoggio del governo di Erdoğan – spicca in vetta al campionato e partecipa regolarmente alle kermesse internazionali. In questo caso parliamo di un mero club fantoccio, che davvero poco ha a che vedere con tutti gli altri. Peraltro il suo stadio è la prima cosa che mi salta agli occhi una volta addentrato nella periferia con il pullman.

La rivalità tra questi tre mostri sacri del football è arcinota, così come le numerose turbolenze che negli anni si sono registrate durante i derby. Ormai da diverse stagioni, purtroppo, divieti e restrizioni sono diventati parte integrante del calcio turco e difficilmente si può assistere a una stracittadina con ambo le tifoserie. Ne parleremo più avanti, ma è palese che a queste latitudini le numerose intemperanze anti governative supportate dalle tifoserie organizzate (in particolar modo gli incidenti con la polizia per la difesa di Gezi Park, nel 2013) hanno prodotto una repressione tra le più pesanti d’Europa. La Turchia, peraltro, resta un’antesignana della tessera del tifoso (che qui si chiama Passolig) e assieme all’Italia è l’unica Nazione del Vecchio Continente (sportivamente parlando) a rilasciare biglietti nominativi per le partite di calcio. Primato condiviso di cui ovviamente c’è ben poco di cui vantarsi!

Ma andiamo con ordine. Il caldo attanaglia il Bosforo e il vento che spira sul Ponte di Galata, dove decine di improvvisati pescatori si ingegnano a raccogliere pesce accompagnati dall’immancabile samovar da cui bere tè malgrado l’alta temperatura, asciuga il sudore permettendo di godere appieno la vista maestosa della Basilica di Santa Sofia e della Moschea Blu in lontananza. Le barchette “parcheggiate” a Eminönü fanno a gara nel vendere Balik Ermek (panini col pesce) mentre i più disparati carretti vendono börek, pannocchie e simit, la ciambella più famosa della città. Il cibo da strada è un marchio di fabbrica di Istanbul, così come il continuo mangiare dei suoi abitanti. Sempre accompagnato da una tazza di çay. Anche da questo si può entrare in contatto con la cultura autoctona, me ne accorgerò passeggiando attorno allo stadio, dove numerosi quanto novelli “grigliatori” si dilettano nel cuocere kofte – la tipica polpetta turca – e comprimerle in panini imbottiti anche di varie verdure. Malgrado la Lira abbia avuto un crollo verticale e l’inflazione stia letteralmente divorando la Turchia, per un italiano i prezzi rimangono ancora relativamente stracciati e la voglia di provare tutto supera quella di preservare un minimo contegno per la salute e per la propria linea. Si dice che il cibo sia parte integrante della sua bellezza ed effettivamente è difficile provare il contrario. Come si può rinunciare a sgranocchiare o sorseggiare un qualcosa di tipico quando si sale in cima alle colline di Istanbul e di fronte si staglia cotanta magnificenza? Dalla vista magnifica sul Corno d’Oro (il canale che proprio al Ponte di Galata confluisce nel Bosforo) dalla zona di Eyüp, alla terrazza sul Bosforo dalla Collina Camlica. Dal distretto economico di Levent ai numerosi skyline osservabili dal traghetto. Gli occhi danzano meravigliati dalla Tracia all’Anatolia, mentre magari qualcuno prova a venderti un succo di melograno o un kokoreç per poche Lire. A Ortakoy, così come a Uskudar, puoi rinfrescarti con un bicchierone di ayran espresso e guardare il mare, magari incappando in un gabbiano che segue la scia di un traghetto in attesa che qualche turista gli regali un pezzo di ciambella o una mollica di pane.

Perché Istanbul – che tanti occidentali credono città pericolosa, incivile e sudicia – rende normale tutto ciò che per noi europei, spesso sofisticati e con la puzza sotto al naso, sembra lontano anni luce. Una corda unita col passato ma in grado di allungarsi, di progredire. Del resto, nel bene o nel male, la vecchia Bisanzio è in continuo divenire, con opere pubbliche che spuntano come funghi e che se da una parte rappresentano un importante indotto economico, dall’altra vengono ferocemente contestate per il danno ambientale e storico che talvolta comportano. Le rivolte per difendere lo smantellamento di Gezi Park (un piccolo parco situato nei pressi di Piazza Taksim) in luogo di una moschea e di un polo commerciale menzionate prima, sono il fulgido esempio di quanto la politica di Erdoğan non sia ben vista presso larga fetta della popolazione, ma riesca a far breccia nello strato più povero e meno istruito permettendogli il mantenimento della leadership. Una leadership che, a seconda della prospettiva da cui si guarda, non ha favorito lo sviluppo e l’apertura del Paese verso l’occidente. Basti pensare alle aspre critiche piovute nei confronti del capo del governo (ormai quindicennale) da più parti sul suo agire in modo avverso al pensiero e alla volontà di quello che è per tutti il padre della Turchia moderna: Mustafa Kemal Atatürk.

Inevitabile, dunque, parlare di Turchia, del suo popolo e del calcio senza fare un minimo cenno alla politica o al percorso sociale di questo Paese. Anche perché, come spesso accade, pure la fondazione e la vita di un club nascono con una volontà e un’identità ben chiara. Se parliamo di Galatasaray, ad esempio, ci stiamo occupando di un club nato nel 1905 – ancora sotto l’Impero Ottomano -, con il motto “Per giocare insieme come inglesi, per avere un colore e un nome, per battere squadre non turche“. Un periodo pionieristico per il calcio locale, con le squadre esistenti composte da pochissimi turchi. Non è un caso che i giallorossi nascano all’interno del Liceo Galatasaray, il più antico e uno dei più prestigiosi del Paese, per volontà di una masnada di studenti turchi, a cui poi successivamente si aggiungeranno anche alcuni serbi e bulgari (ancora una volta da notare l’ecumenismo di Istanbul!). Ovviamente tra questi studenti c’è anche un certo Ali Sami Yen Frashëri, che sarà poi presidente, giocatore e allenatore (nonché primo tecnico della Nazionale) e a cui verrà intitolato lo stadio. Una delle figure più iconiche per il calcio nazionale. Curiosità: Ali Sami Yen era figlio di Sami Frashëri, celebre poeta e drammaturgo albanese, e nacque a Üsküdar (Scutari), nella parte asiatica della città, al confine con Kadıköy, dove i giallorossi fanno ufficiosamente il proprio esordio sconfiggendo una squadra composta da giocatori greci, il Kadıköy Faure Mektebi. L’estrazione ellenica dei calciatori è presto spiegata: siamo in una zona che all’epoca era popolata perlopiù da greci ed ebrei, i quali saranno costretti a spostarsi nei decenni successivi a causa di leggi ad hoc ma di cui tuttavia restano chiese ortodosse e sinagoghe in eredità, all’interno di un quartiere che assieme a Moda ha assunto oggi dei contorni dinamici, vitali e molto apprezzati dai più giovani (anzi, consiglio vivamente di visitarla!). Per la cronaca: la partita finì 2-0 per una squadra che fino ad allora non aveva nome, sebbene alcuni soci avessero provato a proporre Gloria o Audace. Ma è il pubblico a scegliere: dapprima vengono ribattezzati i Galata Sarayı efendileri – maestri di Galata Sarayı – e infine proprio Galatasaray.

Partiamo dal presupposto che la Turchia è grande due volte e mezzo l’Italia ed ha un composizione geopolitica da sempre molto variegata e difficoltosa, per giunta con la maggior parte del territorio che si estende in continente asiatico, assimilandone gran parte di usi e costumi. Logico che il calcio si sia sviluppato inizialmente soprattutto nella parte europea e, ovviamente, a Istanbul. Questa egemonia sportiva è facilmente riscontrabile anche nella composizione dei primi tornei ufficiali. Prima di sentir parlare di campionato turco a tutti gli effetti (1957) esistevano tante kermesse regionali, con quella più importante che era ovviamente costituita dal Campionato di Calcio di Istanbul (İstanbul Lig), disputato per ben 55 anni e inizialmente suddiviso ulteriormente in Campionato della Domenica e Campionato del Venerdì. Il football, in fondo, è spesso e volentieri una cartina al tornasole anche dell’economia e dello sviluppo di un Paese. Pensiamo all’Italia: i primi incontri, le prime squadre, le prime organizzazioni nacquero proprio nel triangolo Milano-Torino-Genova, non certo casualmente. Immaginiamo quanto questo divario possa esser ampio da queste parti; del resto sono i numeri a parlare: in quasi settant’anni di torneo nazionale, sono state solo sei squadre a vincere il titolo. Le tre di Istanbul più il Başakşehir, il Trabzospor e il Bursaspor. La centralità di Costantinopoli resta ineluttabile. Aspetto che ovviamente si riversa sovente nello scontro sociale: basterebbe seguire le polemiche ormai vive da diversi anni circa l’arrivo di rifugiati siriani o di connazionali meno abbienti da parti più povere della popolazione anatolica. Eppure sarebbe sufficiente guardare indietro, un po’ come avviene a Roma, e comprendere che centri di simili dimensioni saranno sempre luoghi di transito e stanziamento per le più disparate etnie. Di contro è anche grazie a ciò che le idee più progressiste, i movimenti più aperti al cambiamento e all’evoluzione partano da metropoli e grandi città. Poi è chiaro, bisogna non fare di tutta l’erba un fascio, soprattutto quando si analizzano parti del Mondo così complesse e complicate da capire persino per chi le vive tutti i giorni, figuriamoci per noi che geograficamente e mentalmente siamo distanti anni luce.

Tornando al Galatasaray – che va ricordato essere una vera e propria polisportiva, con il ramo cestistico che gode probabilmente della stessa fama di quello calcistico -, il club negli ultimi anni si è prodigato in importanti investimenti per rinforzare la rosa e rendere le proprie strutture sempre più avveniristiche. Gli amanti del calcio giocato avranno seguito sicuramente con un certo stupore l’avvento in riva al Bosforo di nomi del calibro di Icardi e Mertens (ma anche di Prandelli e Mancini in panchina in un passato non troppo remoto) e tutta un’altra serie di giocatori di un certo valore in campo internazionale. Benché attualmente il campionato turco somigli spesso a un cimitero per vecchi elefanti più che a un trampolino di lancio, è innegabile che possegga un importante potere economico e si stia ponendo l’obiettivo di colmare un gap che da sempre esiste col resto d’Europa. I Cimbon (soprannome che sembra derivi dall’adattamento di una canzoncina ascoltata da alcuni studenti del liceo in gita in Svizzera, il cui ritornello sarebbe stato “Jim Bom Bom”) attualmente sono l’unica squadra del Paese ad aver vinto in campo internazionale: la Coppa Uefa conquistata nel 2000 al Parken di Copenaghen contro l’Arsenal e la successiva Supercoppa ottenuta battendo il Real Madrid a Montecarlo rappresentano il punto più alto del sodalizio, che allora annoverava sulla panchina quel Fatih Terim che in giallorosso ha scritto pagine memorabili prima da calciatore (407 presenze totali) e poi da tecnico. Una vera e propria leggenda da queste parti, quasi al pari di Hakan Şükür, l’eroe che condusse al terzo posto la Nazionale ai Mondiali del 2002 e che da anni è stato letteralmente costretto all’esilio a causa della sua attività politica al fianco di Fethullah Gülen (ex braccio destro di Erdoğan, epurato in seguito a un’indagine per corruzione che nel 2013 ha riguardato diversi collaboratori del Presidente). Cosa che nel 2015 gli è costata l’apertura di un procedimento penale per insulti a Erdoğan e per aver appoggiato un presunto colpo di stato ordito nel 2016 dal movimento gülenista. Di fatto l’ex centravanti vive da quasi dieci anni in California, dove attualmente risulta essere tassista per Uber. Una storia da cui traspare l’ennesima sfumatura – inquietante – della “normale” vita politica di questo Paese.

Ma esattamente, come sarà andare allo stadio in Turchia? Mi sono fatto spesso questa domanda nei giorni precedenti alla partita. Non nego che la novità di vedere un nuovo impianto e un nuovo modo di frequentare le gradinate mi ha stimolato e non poco. Non sono mai stato un grande fan delle tifoserie turche, che mi hanno sempre dato l’idea di essere una via di mezzo tra ciò che storicamente sono gli italiani o al massimo i balcanici e un palese e folkloristico spontaneismo che non li rende tifoserie organizzate a tuttotondo, almeno per come le intendiamo noi. Causa fuso orario, il match si giocherà alle 21:30 ora locale (siamo un’ora avanti rispetto all’Italia) e siccome immagino che malgrado la conferma del mio accredito non sarà proprio una passeggiata entrare in campo, mi avvio quando l’orologio segna le 18.

Per raggiungere la Türk Telekom Arena occorre prendere la linea metro M2 – che ferma nella caratteristica fermata di Halič, una stazione sospesa scenicamente su un ponte che sovrasta il Corno d’Oro e unisce Fatih e Beyoğlu – e poi cambiare con un convoglio che percorre una diramazione dove è presente la fermata di Seyrantepe, posta praticamente di fronte allo stadio. Malgrado il trasporto pubblico di Istanbul sia a dir poco funzionale (oltre che economico) il viaggio viene effettuato senza aria condizionata e compresso tra decine di tifosi in maglia giallorossa. Fortunatamente non soffro di agorafobia, altrimenti sarei già morto. Seguendo la chiassosa folla cambio convoglio e infine sbuco di fronte a una grande insegna dove campeggia la scritta Ali Sami Yen Spor Kompleksi, vera e propria porta d’ingresso per il complesso sportivo inaugurato nel 2011 al posto del vecchio e glorioso stadio Ali Sami Yen. Un passaggio epocale – che ha riguardato tutti gli stadi della città a dire il vero -, dove credo si sia persa molta di quell’identità ruvida e infernale con cui tutti guardavano al tifo del Galatasaray. Al posto del Cehennem (l’inferno, per l’appunto) oggi sorgono tre grattacieli, simbolo dei tempi che cambiano e di un passato ormai destinato agli archivi della memoria e fotografici.

Curiosità: il primo stadio cittadino – utilizzato da tutte e tre le squadre – sorgeva proprio in Piazza Taksim. Venne demolito nel 1939 per far luogo alla piazza e al “celebre” Gezi Park. Per diversi anni i giallorossi utilizzarono il campo dei cugini del Fenerbahçe, per poi trasferirsi nel nuovo stadio solo nel 1964. Una struttura che nel corso degli anni ha registrato vari problemi, tra tribune poco affidabili (nel 2005 una di esse venne completamente abbattuta e rifatta) e un terreno spesso soggetto a fenomeni tellurici. Personalmente resta la grande invidia per chi ha potuto vederlo all’opera, con la Kapalı (il settore occupato dagli ultras) a trainare il tifo. Da un punto di vista prettamente italiano restano memorabili le presenze di romanisti e juventini tra la metà degli anni novanta e i primi duemila. Racconti di un ambiente tutt’altro che amichevole da parte di chiunque abbia effettuato quelle trasferte. Oggi le cose sono un po’ diverse, anche perché – come detto – la morsa repressiva non ha risparmiato le tifoserie turche, con particolare attenzione per quelle istanbuliane. Le pesanti sanzioni per l’utilizzo della pirotecnica, i divieti di trasferta e soprattutto la Passolig rappresentano uno spartiacque assai gravoso. E l’idea che mi faccio guardando il modus operandi della polizia è che non si tratti di gente a cui va tanto di andare per il sottile o ragionare. Del resto il governo ha dato loro molta libertà, con tutto ciò che questo comporta.

Una delle prime scene in cui mi imbatto è la fila per acquistare i biglietti. Sebbene la vendita sia andata a gonfie vele, qualche tagliando è rimasto invenduto, permettendo ai ritardatari di approfittarne. Questa operazione – che nel Mondo “normale” richiede pochi istanti – in Turchia è subordinata alla presentazione di un documento e, per l’appunto, della tessera del tifoso locale. Ma come si è arrivati a queste restrizioni? Le turbolenze di Gezi Park del 2013 hanno dato il la al governo centrale per creare un vero e proprio sistema di controllo e schedatura dei tifosi, fedelmente appoggiato dalla Lega Calcio turca. Che esattamente come in Italia – se non di più – si è rimessa al volere dei potenti di turno fregandosene ampiamente della grande base popolare del tifo. L’imposizione della Passolig ha provocato boicottaggi (addirittura nei primi tempi, a causa di stadi vuoti e silenti, diversi sponsor hanno revocato il proprio finanziamento al campionato e ad alcuni club) sostenuti da associazioni (in particolar modo da Taraf-Der, “Unione di solidarietà per i diritti dei tifosi”) che si occupavano di convogliare circa quaranta tifoserie provenienti da ogni angolo della Turchia e scontri di piazza contro la polizia. Come ben spiegato in un vecchio articolo di East Journal: “L’opposizione alla Passolig percorre anche la via giudiziaria. Molti tifosi, sotto l’egida di alcune associazioni si rivolgono alla magistratura contestando in particolare uno dei profili più controversi della tessera, e cioè l’abbinamento obbligatorio a un circuito bancario riconducibile all’allora misconosciuta Aktif Bank, di recente creazione e di proprietà del genero di Erdoğan. Aktif Bank diviene infatti detentrice dei dati personali e bancari di tutti coloro che intendano accedere agli stadi di Turchia: li condivide con la polizia e le autorità calcistiche e ne può fare uso per finalità commerciali. Non solo: l’acquisto della carta comporta l’attivazione di un conto presso la stessa Aktif Bank”. A chi all’epoca, anche nel nostro Paese, cercò di contrastare questo strumento non può che ricordare fedelmente il modus operandi delle nostre istituzioni, dei nostri “personaggetti” da quattro soldi che sponsorizzavano e “spingevano” la card e di tutti quelli che vennero coinvolti con la speranza di fare due soldi e violentare ancor più privacy e libertà dei tifosi.

Una battaglia legale che, tuttavia, non ha avuto buon esito e che negli anni si è affievolita, anche a causa delle crepe all’interno delle tifoserie in lotta. Un percorso che, anche in questo, ricalca molto il modus operandi italiano. Dal picco minimo di circa 10.000 presenze di media nella stagione 2014/2015, gli stadi turchi hanno ricominciato lentamente a riempirsi. Questa sera saranno circa 42.000 i presenti, a fronte di una capienza di 52.223 spettatori.

Dopo aver realizzato i primi scatti e saggiato l’ambiente, chiedo a uno steward dove poter ritirare il mio accredito. Ed è qua che inizia la mia personale Via Crucis (termine forse inappropriato considerato dove mi trovo!). Il simpatico personaggio in pettorina gialla mi indica l’altro lato dello stadio, che io raggiungo passando letteralmente su un pezzo di strada a scorrimento veloce e sotto a un ponte che mi ricorda il viadotto di Corso Francia, che a Roma sovrasta lo Stadio Flaminio. Con la sola differenza che qua sono appostati tre ragazzetti armati di griglia e polpette. La preoccupazione di ritirare l’accredito per una volta calma la mia voglia di street food. Arrivo nei pressi di quella che sembra essere una sorta di porta carraia e neanche faccio in tempo a chiedere informazioni che un poliziotto prima mi chiede il documento, poi, non proferendo una sola parola di inglese, legge la mia mail di conferma, la fotografa con il suo cellulare (mah!) e mi indica a chi teoricamente rivolgermi. D’uopo utilizzare questo avverbio, considerato che una volta giunto al gabbiotto dove ci sono tutta una serie di accrediti per televisioni e broadcast, del mio non c’è traccia. Cerco di mostrare la conferma sul mio cellulare, nessuno sa darmi una spiegazione e per quasi un’ora faccio avanti e indietro – sbattuto come un pacco postale – tra inservienti del Galatasaray che sembrano a dir poco spaesati. Quando comincio a perdere la pazienza e sono quasi al punto di mandare tutti a quel paese e tornarmene a casa, mi viene in mente la cosa più logica e semplice da fare: tradurre ciò che voglio dire (ovvero che sono regolarmente accreditato, come da loro stesso comunicatomi, e che ci dev’essere un ingresso stampa e fotografi sicuramente) in turco, grazie a Google Traslate. E infatti dopo un secondo mi portano al vero e proprio ingresso media, tra i miei mille improperi in italiano!

Sinceramente penso di aver trovato un popolo più paranoico, disordinato e ipocondriaco di noi nell’organizzare eventi sportivi. Tra tessere, divieti, repressione, accrediti che non si trovano, addetti ai lavori che pur rappresentando il club più grande del Paese non spiccicano una parola di inglese e controlli fin troppo meticolosi (macchine fotografiche addirittura passate al vaglio con il metal detector!), mancava solo di leggere “Follia ultrà” su qualche giornale. E menomale che sono stato a Istanbul otto giorni e quindi ho potuto farmi un’idea totalmente positiva dei turchi, altrimenti se mi fossi dovuto basare su questa esperienza davvero sarebbe stato difficile apprezzarli!

Comunque quando mancano quaranta minuti al fischio d’inizio sono sul terreno di gioco. Ed è come sempre emozionante. Lo stadio è il classico impianto moderno, senza particolari segni distintivi ma funzionale e perfetto per vedere una partita di calcio. Le gradinate sono già ampiamente gremite e il pubblico cerca di motivare i giocatori intenti nella fase di riscaldamento. A un primo sguardo riconosco subito due recenti conoscenze del nostro campionato: Dries Mertens e Sergio Oliveira. Dire che faccia caldo è un eufemismo. A causa della copertura praticamente non si respira e vedo persino qualche autoctono gettarsi dell’acqua addosso, mentre alla mia destra la zona occupata dal tifo più caldo del Galatasaray roda i motori con cori e bandiere, dietro la pezza UA, che è ovviamente acronimo di UltrAslan (non so perché lo striscione più lungo venga invece posizionato nell’altra curva). A parte un certo stupore nel vedere uno dei lanciacori indossare la maglia della Roma (e avere, peraltro, una neanche tanto lontana somiglianza con Aldair) comincio a studiare minuziosamente il modo di vivere lo stadio della tifoseria di casa.

Gli UltrAslan nascono a fine anni novanta, sulla scia dei successi del club in Europa e con l’intento di unire tutte le componenti del tifo allora esistenti. Il nome è un’ovvia crasi tra le parole Ultras e Aslan (Leone, il simbolo della società). Diciamo che cercando un po’ in giro, vedendo la loro attività e percorrendo velocemente una storia ormai ultraventennale, si notano importanti differenze con ciò che noi definiamo tifo organizzato sia nella forma – vedi innanzitutto i conclamati rapporti con la società e un vero e proprio negozio online, consultabile su tutti i riferimenti social del gruppo – che nella sostanza, ma a questo ci arriverò tra poco. Quello che mi colpisce in positivo sono senza dubbio la masnada di ragazzini arrampicati sulle reti senza che nessuno steward o nessun agente di polizia gli dica qualcosa. Ovviamente non c’è neanche nessun genitore apprensivo, forse da queste parti fanno ancora valere il vecchio adagio di mia madre: “Se ti fai male ti do il resto!” (si fa per scherzare eh!).

Quando mancano pochi minuti al fischio d’inizio fanno il loro ingresso anche gli ultras ospiti. Una dozzina giunti in Turchia solo per onorare la presenza. Del resto oltre a non essere una trasferta agevole, la Lituania non vanta certo una grande tradizione in materia ultras. Quindi va sicuramente dato loro atto di non aver “bucato”, cosa che francamente mi sarei aspettato. Da segnalare qualche battimani e una bandiera dell’Ucraina fatta rimuovere dalla polizia dopo neanche dieci minuti di gioco.

Tornando al pubblico di casa: decido di passare il primo tempo con la curva degli UltrAslan di fronte, sebbene anche il settore alle mie spalle rumoreggi grazie a qualche tamburo e un paio di ragazzi armati di megafono. Più in generale va detto che quasi tutto lo stadio seguirà la partita rigorosamente in piedi, indossando la maglia del club e producendo un bell’effetto visivo. In un passaggio di questo racconto sottolineavo come probabilmente quella del Galatasaray sia la tifoseria più commerciale, essendo al seguito del sodalizio più vittorioso e celebre del Paese. Sia chiaro: questo non vuol dire che non ci sia passione o che l’amore per il club sia annacquato, ma sicuramente si avverte chiaramente il maggior appeal che i giallorossi esercitano anche nei confronti di chi magari non sarebbe un accanito tifoso di calcio. Addentrandosi maggiormente in questioni di tifo e militanza, invece: se devo dire di aver assistito alla partita più bella ed emozionante della mia vita da un punto di vista del sostegno e del frastuono sarei bugiardo. La parte centrale della curva non smette mai di incitare, ma francamente si tratta di uno zoccolo duro minoritario rispetto al resto del settore stesso. Vero è, di contro, che i presenti rumoreggiano molto. Spesso sono le tribune e far partire i cori o infastidire i giocatori avversari. Il 2-2 dell’andata impone ai turchi di fare la partita e vincere, onde evitare spiacevoli sorprese. Mertens mette subito le cose in chiaro dopo una manciata di minuti, realizzato un grandissimo gol che si rivelerà decisivo.

Nella ripresa passo sotto la curva di casa, osservando da più vicino l’organizzazione del tifo. I cori, anziché dal palchetto centrale situato in basso, vengono lanciati da un balconcino posto a metà curva, dove una decina di ragazzi sono impegnati a suonare i tamburi. Qualche corista è disseminato qua e là nel settore, tentando di coinvolgere tutti. Quando la cosa riesce – soprattutto con cori a rispondere – l’effetto devo dire che è davvero notevole e d’impatto. Malgrado una fama tutt’altro che amichevole noto, conquistando centimetro dopo centimetro, che nessuno sembra essere infastidito dai miei scatti ravvicinati. Addirittura un poliziotto, seduto a bordo campo, mi chiede da dove venga e mi confida di essere un grande tifoso del Galatasaray, tanto da soffrire il fatto di dover dare le spalle alla partita e non poter seguire le azioni. Ripeto: non rimango stregato dal tifo, ma è davvero emozionante stare a due passi da dove questo nasce e poter vedere e fotografare tutti i particolari. Ecco, in questo settore si ha una percezione più popolare e identitaria rispetto alle tribune. Tutto molto diverso dall’Italia (che personalmente ritengo ancora superiore e meglio organizzata nella fattispecie) ma meritevole d’esser visto e vissuto.

Osservo con piacere che sugli spalti sono presenti davvero ogni genere di persone: uomini, donne, ragazzi, ragazze e bambini. Anche famiglie intere. Questo per rispondere ad alcuni disinformati connazionali ai quali ho sentito dire che in Turchia gli stadi e alcuni luoghi pubblici non sarebbero accessibili alle donne, se non accompagnate. Peraltro, siccome parliamo di un Paese che ha fondato la sua modernità sul laicismo, va anche ricordato che non è obbligatorio portare nessun genere di velo per il gentil sesso. E pur essendo tutto fuorché credente, inviterei ogni tanto ad aprire un libro o fare una ricerca anche su Google per comprendere che non sempre questo strumento significa sottomissione, ma in taluni casi è semplice osservanza della fede professata.

Dopo ben sette minuti di recupero l’arbitro decreta la fine del match, sancendo il passaggio dei padroni di casa e permettendo al pubblico di lasciarsi andare all’esultanza. Le bandiere (che durante il match non sono mai state sventolate) riprendono a volteggiare, mentre i giocatori vanno a prendersi gli applausi. Meritati anche quelli che la squadra ospite dedica al manipolo di tifosi giunti sin qua. Voglio immortalare gli ultimi momenti di questa serata, che per me rappresenta comunque l’ennesima esperienza e un nuovo spaccato da poter raccontare e analizzare. Lo stadio va velocemente svuotandosi ed essendo quasi mezzanotte è il momento di far ritorno in albergo. La metro non è vicina e peraltro la fame comincia anche a farsi sentire, infatti stavolta i “mastri grigliatori” non mi sfuggiranno e anche io potrò addentare un succulento panino per poche Lire turche!

L’ultimo sforzo è per raggiungere la stazione. Compresso tra i tifosi e controcorrente rispetto al loro flusso. L’intera giornata passata a camminare e il suo culmine trascorso allo stadio cominciano a farsi sentire. Ma si tratta di quella stanchezza bella, che ti appaga e ti fa essere soddisfatto per come hai impiegato il tempo. Stavolta l’aria condizionata è a dir poco potente e finisce quasi per congelarmi. Quando risalgo in superficie la zona di Fatih – operosa e caotica durante il giorno – mi restituisce silenzio e pace. Gli scaffali delle bancarelle e i numerosi negozi chiusi che si dipanano fino al Grand Bazar sembrano ricordarmi di quanto Istanbul trasudi vita ed entusiasmo h24, pure quanto tutti dormono e stanno aspettando l’alba per tornare alle proprie mansioni. Imbocco la discesa che conduce fino al mio albergo e in lontananza vedo uno stralcio di Mare di Marmara, percorso ancora da immense navi che chissà dove saranno dirette.

In questo crocevia di persone e storie ho potuto anche assaporare il calcio e tutte le sue contraddizioni. Ho capito ancor più (ma certo non definitivamente o in maniera esauriente) alcune sfaccettature di questo complicato Paese e ciò mi darà modo di vedere con occhi diversi – magari più magnanimi a volte? – situazioni critiche che durante l’anno incombono e serpeggiano tra le nostre tifoserie. Viaggiare, conoscere e curiosare resta l’unico modo di aprire la propria mente e far crescere il proprio sapere. L’ultimo ragazzo con la maglia del Galatasaray mi passa davanti, prima di salire in stanza. Non so se è stato allo stadio anche lui o se, come in molti, abbia tatuato sulla propria pelle il simbolo della propria squadra. So che però una megalopoli del genere riesce a essere affascinante e unica anche nel modo che ha di vivere questo sport. E sì, magari il modo di tifare non riscontrerà il mio gusto, ma va detto che ogni tanto pure assaporare e vivere una serata differente fa bene. Nella Nuova Roma l’evoluzione è sempre in corso, con la speranza che anche i ragazzi di stadio riescano a ritagliarsi uno spazio di libertà e autodeterminazione all’interno di un contesto tutt’altro che favorevole al dialogo e alla comprensione. Che nelle loro vene scorra sangue ottomano è forse l’aspetto più affascinante per chi ricerca un legame o un appartenenza storica in ogni anfratto della vita. Grazie Istanbul, anche con una semplice partita di calcio mi hai insegnato qualcosa!

Simone Meloni