Pur essendo, per prossimità geografica, uno dei miei campi di riferimento, mancavo da un po’ dal “Dino Manuzzi” di Cesena; ci ritorno con una certa dose di curiosità per l’arrivo di una tifoseria, quella del Latina, che conosco da lunga data, che ho anche affrontato da avversario ai tempi della mia militanza e che trovo parecchio cresciuta in seguito alla sua ascesa in cadetteria. Non una crescita abnorme al pari di un tumore che può portare alla morte nel giro della prossima involuzione in termini di risultati, ma una evoluzione – tanto per restare su questi termini di paragone – graduale, commisurata e connaturata alla propria realtà di riferimento. Mentre il calcio delle metropolitane, il calcio dei grandi (veri o presunti tali) continua a immolare agnelli sacrificali sull’altare del dio denaro, guardandosi allo specchio delle pay-tv e annegandoci dentro come Narciso, ancora una volta è il calcio di provincia a risultare la vera forza, la vera spina dorsale del nostro paese pallonaro, per quanto i Lotito dei piani alti non siano d’accordo. Gioca al loro tavolo e ti brucerai, per cui l’unico modo di crescere è restando sé stessi, non dimenticando mai il legame con la propria terra e la propria gente. Beninteso ci si può anche crogiolare sognando scudetti e coppe con i turbocapitali di qualche magnate straniero, che usa la società come ennesima pedina tra le sue scatole cinesi con sede in qualche paradiso fiscale, ma poi toccherà tornare a piangere dai tifosi consorziati in Trust per salvarsi dal fallimento come un Portsmouth qualunque.

Tornando a oggi, l’impatto è sempre positivo al “Manuzzi”, con la Curva Mare bella piena e giusto qualche vuoto in più nelle zone laterali. I dati ufficiali diranno 11.693 spettatori, magari non sarà presente l’intera quota di 10.116 abbonati, ma è fuori da ogni dubbio che Cesena sia in netta controtendenza rispetto al deserto medio degli stadi italiani, ancor più agli stadi della seconda categoria nazionale proprio per – come dicevo poc’anzi – la maggior radicazione che questa compagine ha sul suo territorio. A centro del settore campeggia lo striscione “Mister ti siamo vicini” data la recente morte del papà del tecnico dei bianconeri Massimo Drago. È ben visibile, tra la folla, una macchia rossa riconducibile ai gemellati di Stoccarda che marcano ufficialmente la loro presenza anche con lo striscione “CC 07” (Commando Cannstatter), inizialmente coperto da quello di vicinanza al mister. Al mio ingresso trovo subito disposto in maniera molto quadrata il contingente ospite. Non sono mai stato bravo in matematica, perciò non mi sbilancio in stime numeriche, però posso dire che l’impressione che mi fanno, da un punto di vista appunto puramente numerico, è buona e non mi delude affatto.

La contesa è molto interessante sin dai primissimi minuti, i latinensi si propongono in maniera molto decisa, con bei battimani, compatti e rumorosi, a sostegno di un tifo molto asciutto, fatto di cori secchi e ripetuti che conferiscono molta qualità alla loro prestazione. I dirimpettai locali fanno il loro dovere, esercitando la minima supremazia territoriale richiesta, ma senza strafare e senza raggiungere picchi particolarmente potenti. In questa fase iniziale mi piacciono forse di più gli ospiti che poi ricevono un’iniezione di entusiasmo ulteriore grazie al subitaneo goal della propria squadra a firma dell’ex (nonché ex Rimini ed ex Bologna) Paponi. Cesena, pur come detto non eccellendo, ha il merito di tenere bene senza sfaldarsi e quando la propria squadra trova il goal del pareggio, non molti minuti più tardi, si attesta finalmente su una potenza molto più elevata, portando avanti un tifo poderoso e partecipato per un bel po’ di tempo. A proposito del goal, con tutto il rispetto per Cesena come piazza e come ultras, che giuro essere tanto, mi fa però una certa tristezza sentire tutto lo stadio, aizzato dalla speaker, ripetere come tante scimmiette ammaestrate il nome di Camillo Ciano, autore del bellissimo pareggio direttamente da calcio di punizione: ormai è una consuetudine in ogni stadio del globo terracqueo, ma non mi ci abituerò davvero mai a queste americanate da calcio moderno.

Dopo questa parte di match in cui le due fazioni si sono alternativamente distinte, dando vita ad un confronto molto interessante (e senza nessuna offesa reciproca, per la cronaca), si imbocca una parabola di stanca in cui i padroni di casa riescono a segnalarsi per una bella sciarpata, anche questa chiazzata in maniera lampante di rosso (davvero ingente dunque la rappresentanza di amici tedeschi), mentre gli ospiti fanno susseguire battimani su battimani, sempre compatti e belli a vedersi. Il loro apporto sonoro calerà pure, ma la malizia di tenere sempre alte le mani, ritmandole in vari modi, li fa risultare sempre efficaci.

Quando il primo tempo finisce, i pontini continuano a rimanere compatti e farsi sentire con battimani e cori secchi a ripetizione, tanto da sembrare intenzionati a tifare per tutti i 15 minuti di intervallo. Vengono fermati solo dopo una buona manciata di minuti dagli altoparlanti dello stadio, che a tutto volume lanciano un sottofondo musicale dai toni epici: entra sul terreno di gioco il Cesena che quarant’anni fa, nel 1976, conquistò la prima e unica qualificazione in Coppa Uefa dei bianconeri. Inizialmente e inconsapevole del tutto, l’interruzione al tifo ospite mi irrita un po’, ma poi devo dire che trovo senza dubbio piacevole il tributo ed è bello vedere uno di quegli ex giocatori asciugarsi le lacrime che scendono copiose: si rischia sempre il “nostalgismo retorico” in certi frangenti, ma che quattro decenni non siano bastati a cancellare quelle emozioni è pur sempre bello, in tempi come questi dove l’attaccamento alla maglia è un valore ormai inflazionato e per veder piangere un giocatore, bisogna aspettare che gli si guasti l’ultimo taglio alla moda dopo uno scontro di gioco. Per i curiosi, il sogno durò poco: nella successiva competizione europea il Cesena vinse 3-1 a “La Fiorita”, come si chiamava allora lo stadio, ma in virtù del 3-0 subito a Magdeburgo furono i tedeschi dell’Est a qualificarsi al turno seguente.

Il secondo tempo riprende forse con qualche energia in meno, per entrambe le fazioni, che comunque faranno sentire sempre e costantemente il loro rumore di fondo. Alza il volume la Curva Mare con un ripetuto, lo farà ancora con uno di quei ritmi argentini tanto in voga ultimamente, per poi rientrare nella media. Durante l’intervallo avevano messo al centro uno striscione, “Davide tieni duro”, per esprimere vicinanza ad un proprio compagno di curva colpito da un lutto famigliare, mentre i latinensi, qualche minuto dopo l’inizio della ripresa, si segnalano per uno striscione dal tema apparentemente comune, “Ciao Angelo ribelle”, seguito da quello che ha tutta l’aria di essere un minuto di raccoglimento.

In campo, una gara che stava trascinandosi stancamente verso il suo epilogo, a un quarto d’ora dalla fine viene improvvisamente cambiata nel suo abbrivio da una bel diagonale di Djuric. Sembra finita qua, sembrano dirlo anche l’ennesima sciarpata a festa dei cesenati e il tambureggiare degli attaccanti in maglia bianca che più volte sfiorano il 3-1. Eppure, come il più beffardo dei destini, proprio a tempo scaduto tutti quegli errori sotto porta si trasformano in una crudele beffa, con il Latina che trova l’ormai insperato 2-2 grazie al destro di Rolando che chiuderà l’incontro, premiando forse oltre i propri meriti la squadra nerazzurra in campo, ma mai abbastanza i suoi tifosi per il grande impegno profuso sugli spalti.

Il calcio, in fondo lo abbiamo imparato tutti, è così: un eterno ciclo in cui il karma a esagoni neri, o quella che Gianni Brera chiamava la dea Eupalla, un giorno ti restituisce ciò che ti ha tolto per poi magari toglierti successivamente quel che ti aveva dato in sovrappiù precedentemente. Forse il Cesena e i suoi tifosi erano in credito con la fortuna e avranno di che pretendere in futuro dalla sorte, allo stesso modo in cui forse oggi i pontini raccolgono qualcosa di maltolto in passato. Non so nel mio caso cosa ho fatto di male nella mia precedente vita o se devo aspettarmi un risarcimento in futuro, per cui mi accontento di questa metafora per sublimare la voglia di bestemmiare: tornando a casa scopro di aver perso la mia tessera dell’Ordine dei Giornalisti (fortunatamente ritrovata e riconsegnatami dall’addetto stampa dell’AC Cesena), ed in più che la scheda di memoria ha deciso di smettere di vivere restituendo, ad ogni scatto, un messaggio di errore; detto questo, mi scuso per la scarsissima qualità e quantità degli scatti, sperando altresì di aver compensato almeno in minima parte con il racconto orale di quella che per me è stata una bellissima giornata di tifo, grazie sia ai padroni di casa che agli ospiti.

Matteo Falcone.