Due anni fa i ragazzi della rivista tedesca “Blickfang Ultra” ci chiesero di tradurre e ripubblicare la lunga intervista rilasciataci dai Boys Parma. Nello scambio di mail che seguì, il discorso ben presto deragliò su esperienze personali allo stadio. Una delle prime domande, «Ma quale squadra tifi?», spostò la discussione nel campo del surreale, con un ultras dello Zwickau che al mio tentennante «Una piccola squadra che molto probabilmente non conosci, il Manfredonia», mi smentì citando diversi particolari del mio gruppo di allora. Fra tutti, a colpire il suo immaginario fu una foto di una nostra trasferta a Ferrandina che vide su “Supertifo”. Merito anche del singolare settore ospiti lucano, una collinetta brulla di terra rossa in cui spiccavano vividi i colori degli striscioni. Da lì a breve la proposta di un’ulteriore doppia intervista sull’attività di Sport People e soprattutto sul mio vecchio gruppo, le Teste Matte Manfredonia. Chiaramente, come sottolineato già nel titolo, con quel “sulle” (al posto di un più istituzionale “alle”…), i punti di vista sono da intendersi del tutto soggettivi. Inoltre, l’iniziale destinazione ad un target estero, mi aveva portato a sbottonarmi anche più del solito, ma tutto sommato sono risposte che pur nella loro sincerità, non si avvitano su inutili polemiche e avevano il solo fine di snocciolare ricordi e concedersi alcune riflessioni di più ampio respiro. A distanza di due anni come detto, in questo periodo di curve chiuse e penuria di materiale, ho deciso di ripubblicarla anche in italiano. Si tenga inoltre conto che la “situazione attuale ultras a Manfredonia” descritta a quel tempo, è nuovamente cambiata, ma il senso principale del discorso non si sposta di molto. Il titolo scelto, infine, trae spunto da un albo di Corto Maltese, La laguna dei bei sogni.
Per chi vorrà concedersela, buona lettura.
Grazie ancora ad Arne Lorenz per l’intervista.
MF

La poc’anzi citata trasferta di Ferrandina

Non puoi capire il presente senza conoscere il passato. Quindi, prima di soffermarci sugli anni delle Teste Matte dal 1991 al 2006, raccontaci prima la storia della tifoseria del Manfredonia. Come sono arrivati gli ultras sugli spalti dello stadio Miramare?

In senso ortodosso, gli ultras sono arrivati a Manfredonia nel 1991 con le Teste Matte, il primo vero gruppo organizzato nel puro significato del termine, costantemente presente in casa e fuori e che sia durato più delle solite meteore del passato.
Volendo essere meno rigidi con le definizioni, anche in virtù della buona tradizione e del buon pubblico della squadra locale, già dagli anni ’70 c’erano state alcune esperienze che possono ritenersi a loro modo le prime forme di tifo organizzato. Seppur rimasero limitate nel tempo, dai modi di fare molto folkloristici e con poco o nulla in comune con la mentalità degli ultras. Erano insomma più club di tifosi che ultras, tra i quali sicuramente vanno ricordati i “Fedelissimi” nati nel 1979 e poi i “Sipontini” che nacquero a cavallo tra i campionati 1983/84 e 1986-87 in cui il Manfredonia sfiorò per tre volte la promozione in Serie C. Serie C in cui aveva già militato dal 1936-37 al 1939-40.
La parentesi forse più vicina agli ultras, per modo di fare e di vivere lo stadio, fu invece quella degli “Indians” che nacquero nel 1987/88 e che si componeva interamente di ragazzi molto giovani, che frequentavano o avevano simpatie per altre curve di città più grandi e che da esse traevano ispirazione. Come i più classici gruppi ultras, seguivano tutta la partita in piedi, cantando per tutti i novanta minuti o quasi, sventolando bandiere, effettuando le prime coreografie con coriandoli, fumogeni, ecc. Nacquero come detto in un buon periodo del calcio locale, ma sparirono dopo poco, a causa della crisi che investì poi la squadra biancazzurra.

Qual era la realtà della vostra città nei primi anni ’90 in cui sono nate le TM?

All’epoca della nascita delle TM, Manfredonia era una città appena entrata in una pesante crisi economica e sociale che dura ancora oggi. Nel 1971 venne aperta una fabbrica petrolchimica, l’Anic, di proprietà dello Stato (in quegli anni, molti settori economici e produttivi erano nazionalizzati) e la città passò in pochissimo tempo da 30.000 a quasi 60.000 abitanti. Ma chiusa la fabbrica, il tessuto economico s’è trovato fortemente indebolito e sempre più persone – come succede in tantissime città del Sud Italia – hanno cominciato ad emigrare verso il Nord dell’Italia e dell’Europa in cerca di lavoro e di un futuro migliore.
La generazione di ragazzi cresciuti fra fine anni ’80, primi anni ’90, quella che diede vita alle TM, probabilmente è stata l’ultima a credere nell’illusione che un cambiamento, un’inversione o un ritorno al passato fosse possibile.

Quali erano le motivazioni che vi spinsero a fondare le TM? Quali sono stati i vostri sogni, gli ideali che vi hanno animato sin dai vostri primi passi?

La fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90 furono anche il periodo migliore per il movimento ultras italiano. Sembrava quasi scoppiata un’epidemia e non c’era una sola città, dal Nord al Sud, dalla Serie A alle categorie inferiori ad essere rimasta immune a questa febbre del tifo. Anche a Manfredonia il movimento ultras arrivò così, quasi per imitazione. Proprio nel periodo in cui la vicina Foggia viveva il suo massimo splendore calcistico con la promozione in Serie A, in questa città della costa ci si è voluti stringere ancor di più alla propria squadra, che invece stava conoscendo uno dei suoi momenti peggiori, per difendere una storia di tutto rispetto, considerando la fondazione risalente al 1932 e una partecipazione di spettatori sempre numerosa e calorosa. La passione del pubblico locale, assieme al particolare stadio costruito all’interno di una vecchia cava di pietra, gli valsero il nome di “Fossa dei Leoni” e nonostante gli ultras arrivarono molto dopo, non è mai stata una passeggiata di piacere per le tifoserie avversarie venire a Manfredonia in quegli anni.

Proprio a differenza di quegli anni, in cui tutto veniva vissuto in maniera molto spontanea, il “sogno” che aveva animato i primi ragazzi delle TM fu quello appunto di portare qualcosa di diverso e forse mai visto prima, che fosse non solo tifo ma anche aggregazione sociale in una città in cui ogni spazio sociale era annullato o inesistente. Era occupazione e recupero creativo degli spazi e delle nostre vite, voler vivere la nostra gioventù a pieno slancio, sfuggendo l’omologazione e il controllo della società degli adulti. In un contesto urbano e sociale, come molti altri del Sud Italia, fortemente depressi se non del tutto decadenti. Usando uno slogan che andava di moda in quegli anni, eravamo una goccia di vita in un mare di morti.  

Quali furono le persone che fondarono le TM? Come successe? In un bar o altrove? C’è qualche documento ufficiale ancora disponibile?

Le TM furono fondate da una comitiva di amici. Una comitiva di ragazzi molto giovani che si incontravano in una piazzetta cittadina condividendo, come facevano tutti i ragazzi della stessa età, tempo, esperienze, emozioni. Fu in questa piazzetta che nacque il gruppo, per la comune passione per il calcio e per il mondo ultras in particolar modo. All’inizio il gruppo nacque quasi per scherzo, per imitazione dei gruppi ultras maggiori. Lo stesso nome riprendeva quello delle più famose Teste Matte di Napoli, che in quegli anni facevano parlare tutti per il loro approccio molto estremo allo stadio. Il nostro modo di vivere la Curva non era molto originale, ma crescendo e maturando abbiamo smesso di cercare di voler essere come qualcun altro per cercare invece di essere soprattutto noi stessi. All’inizio avevamo un’impostazione molto goliardica, tanto che – cosa che in pochi sanno – nascemmo come gruppo a supporto della locale squadra di pallavolo femminile, ma durammo pochi mesi perché creavamo troppi problemi al palazzetto e ci vietarono l’ingresso. Così decidemmo di trasferirci al “Miramare”, al seguito del calcio dove il pubblico era molto più sanguigno e il nostro modo di tifare, anche sopra le righe, non veniva visto come un problema ma come un’arma in più per vincere le partite.
Non esistono documenti ufficiali della nostra fondazione, non scrivemmo un atto fondativo anche perché, tradizionalmente, gli ultras italiani si ritengono un movimento clandestino e informale. Diversi anni dopo ci costituimmo in associazione culturale con tanto di Statuto per aprire legalmente una nostra sede, visto che eravamo diventati molti di più rispetto ai nostri primi anni e non bastava più un garage o un bar per farci star tutti, e comunque sentivamo anche bisogno della nostra autonomia.

Cosa significava veramente essere una “testa matta”? Qual era il vostro modo di vivere? Quali erano i vostri valori?

La prima pagina dell’intervista

Te la racconto da un punto di vista molto soggettivo, in prima persona: essere una “testa matta” ha significato tanto per me. Lo porto sulla mia pelle, lo porto nel cuore e nella mente e condiziona ancora oggi la mia vita di “normale cittadino” in cui ogni scelta che faccio risente ancora moltissimo degli ideali con cui sono cresciuto. Per quanto io sia nato e mi sia avvicinato al gruppo per amore del calcio, il gruppo ha poi assunto un valore enorme, diventando per assurdo più importante della squadra stessa. Non a caso quando il gruppo si è sciolto ho smesso del tutto la militanza, tornando a vedere il Manfredonia solo da “fotoreporter” e senza più mettere piede in curva, proprio perché ho vissuto lo scioglimento come un lutto, come una fine che non poteva avere un nuovo inizio.
Ho cominciato a 14 anni scattando e vendendo le foto per alimentare il fondocassa, poi crescendo ho cominciato ad avere più responsabilità con particolari attenzioni alla comunicazione: relazioni esterne, comunicati, fanzine poi il sito internet. Divenni anche il presidente della nostra associazione, ero insomma un po’ il rappresentante istituzionale del gruppo, anche se raramente ho fatto il lanciacori e mai mi sono sentito a mio agio o rappresentato dalla parola “capo-ultrà”, come un po’ quasi tutti del nostro nucleo storico. Questo perché abbiamo sempre odiato il culto della persona e della personalità e coltivavamo la convinzione che fossimo un collettivo fra pari, dove la forza risiedeva nel gruppo stesso: se pensavano di eliminarci colpendo qualcuno di noi, ci sarebbe sempre stato qualcun altro a prendersi sulle spalle tutto e portarlo avanti. Questo almeno in teoria, poi nella pratica non tutto e non sempre ha funzionato così.

Le TM sono state fondate nel 1991 e sciolte nel 2006. Quindi stiamo parlando di un periodo di 15 anni. Quali sono state le principali epoche nel “regno” delle TM?

Quindici anni possono essere tanti per un gruppo del Sud Italia, un’eternità se si pensa ad una città come Manfredonia. Durante questi anni, il gruppo ha avuto solo due cambi nel direttivo: al terzo campionato l’entusiasmo iniziale si era già scaricato, mentre il nucleo di fondatori, quelli più grandi d’età, hanno cominciato a partire per studio o per lavoro, lasciando una città che, da quel punto di vista, offriva davvero poche opportunità. Così la responsabilità del gruppo rimase totalmente sulle spalle di noi giovanissimi che dal campionato 1994-95 abbiamo realizzato un cambio generazionale che ha rappresentato anche una piccola rivoluzione. Da lì in poi, con una sola macchina o con file interminabili di pullman, non abbiamo più saltato una trasferta, trasformando le “Teste Matte” dalla brutta copia di altri gruppi ultras, fino a diventare un esperimento creativo e sociale davvero molto particolare e unico nel suo genere. 

Quali sono i tuoi migliori ricordi personali di questo periodo e quali le maggiori delusioni?

Di ricordi belli ce ne sono tanti, ma l’emozione più forte è forse quella legata alla partita Matera-Manfredonia del 2002/03 giocata in campo neutro a Fasano, subito dopo la morte di Pasquale Cotugno, uno dei ragazzi del nostro gruppo a cui poi intitolammo la Curva Sud. Morto di tumore a soli 24 anni, in una città dove il Petrolchimico, pur chiuso da tanti anni, continua a mietere vittime a causa di un inquinamento mostruoso dell’aria, delle falde acquifere e della terra. Per diversi anni abbiamo combattuto al suo fianco contro questa infame malattia, raccogliendo anche fondi per le sue cure. Abbiamo combattuto per lui sugli spalti, portando ovunque le “pezze” che ci disegnava durante i suoi lunghi ricoveri in Francia e a Torino. Quella partita fu il nostro funerale laico, il nostro saluto ad un amico nel modo in cui a lui sarebbe piaciuto di più, tifando a squarciagola nella speranza che le urla potessero arrivargli fino al cielo.

Il ricordo più brutto è legato a Manfredonia-Cagliari, Coppa Italia 2005/06 per ironia della sorte giocata sempre sul campo neutro dei nostri allora gemellati di Fasano. Ci fu un contatto con gli “Sconvolts” all’esterno, una cosa da poco onestamente, ma fu da poco proprio perché il gruppo era davvero organizzato male in quell’occasione. Non fu tanto il rimpianto per non esserci presi il nostro momento di gloria e aver spazzato via un gruppo avversario che, mito a parte, in quella situazione e in quel periodo era davvero ai minimi storici: da sempre eravamo stati un gruppo non particolarmente incline allo scontro, ma quando bisognava esserci ci siamo sempre stati. Non quella volta, dove fuori ci fu un “ballo” privato per pochi intimi, poi all’interno dello stadio, tutti quelli che fuori hanno fatto mancare il proprio apporto, hanno dato vita a puro ed inutile cinema a favore di telecamere: quella (mancata) reazione fu per me l’avviso che il gruppo era ormai arrivato alla fine e andava sciolto. Come poi avvenne alla fine di quella stessa stagione.  

Come erano organizzate le TM come gruppo? Chi si prendeva cura delle trasferte e chi supervisionava bandiere, striscioni e coreografie? Da dove venivano i soldi?

Come già anticipato, il gruppo ha avuto una prima fase molto informale della sua esistenza e una seconda parte molto più organizzata e strutturata. Le persone e i responsabili sono stati più o meno sempre gli stessi, solo che da un certo punto in poi abbiamo aperto una sede, nel centro della città, in cui vivevamo tutti insieme quasi 24 ore al giorno, lavorando al pc per scrivere fanzine e comunicati, riunendoci per discutere il da farsi la domenica, raccogliendo le adesioni per le trasferte, ecc. I compiti erano ripartiti secondo le capacità e le disponibilità di ognuno. C’è sempre stato l’abile comunicatore come me, il carismatico che arringava la folla, il creativo che metteva mano a striscioni, lo stratega che prima di partire si studiava la strada e valutava tutti i possibili incroci con altre tifoserie, ecc. e la nostra macchina organizzativa ha sempre funzionato alla perfezione, fino a quando ci siamo mossi tutti come un unico blocco compatto.

I soldi non sono mai stati un problema, nel senso che non abbiamo mai agito al di sopra delle nostre possibilità: mai fatto coreografie costose, anzi ci producevamo tutto da noi dipingendo a mano e riutilizzando materiale in modo da risparmiare quanto più possibile. Nei primi anni, tutti i soldi provenivano dall’auto-tassazione. Il costo dei pullman è sempre stato equamente diviso fra tutti, senza favoritismi ma cercando comunque di aiutare chi era disoccupato o in difficoltà. Quando avevamo intenzione di fare una coreografia più particolare, cercavamo aiuto e soldi anche dal resto della tifoseria, dalla parte non-ultras diciamo così, facendo colletta il pomeriggio durante gli allenamenti della squadra. Negli anni in cui abbiamo aperto la sede, ci aiutavamo vendendo birra e Borghetti al suo interno o sul pullman durante la trasferta: i tantissimi soldi che prima lasciavamo nei bar della città, da lì in poi rimasero a nostra disposizione per le nostre attività. Materiale non ne stampavamo tantissimo e comunque lo poteva acquistare solo chi apparteneva alla nostra associazione, alla stessa maniera, negli ultimi anni di vita, quando il Manfredonia andava fortissimo e si poteva approfittare per fare soldi, noi abbiamo organizzato pullman sempre e solo per noi, sempre e solo a prezzo ugualmente ripartito fra tutti.

Istintivamente, il riferimento più immediato che mi viene in mente pensando al vostro gruppo, ovviamente con le debite differenze e proporzioni, sono i Bad Boys Monopoli. Stessa regione, città dalle dimensioni simili, nonché gruppi molto innovativi. Sfogliando il loro ottimo libro, mi ha restituito un’immagine molto romantica delle trasferte nei primi anni ’90: treni lenti, cattivi collegamenti ferroviari o bus incasinati. Qual era la vostra “tipica giornata”? Parlaci anche della preparazione, come comunicavate il punto d’incontro, le modalità di spostamento, ecc.

Con i “Bad Boys”, ribadendo le dovute proporzioni a cui hai fatto cenno, per un certo periodo avemmo più di qualcosa in comune e non di rado viaggiammo assieme quando si partecipava alle riunioni di “Movimento ultras”. Rispetto a loro ci mancava però la tradizione calcistica e con essa una maggiore tradizione ultras nel passato: loro hanno avuto storia e maestri nel passato, noi ci siamo dovuti inventare tutto da soli.

Gli altri punti in comune, individuati dalla tua domanda e dovuti alla comune regione d’appartenenza, riguardano la pessima rete di trasporti pubblici, ancor più per una città come la nostra, a differenza della loro, tagliata fuori dalle principali vie di comunicazione, ferroviarie e stradali. Quindi per noi era molto difficile muoversi in treno, ma ogni tanto lo facevamo. Spesso senza biglietto, sempre inventandoci fughe rocambolesche dai controllori, a volte finendo ingabbiati negli uffici della polizia ferroviaria, da cui poi, magari con qualche colpo di teatro, riuscivamo sempre a liberarci.

Uno dei viaggi più assurdi che io ricordi è legato a Rende-Manfredonia 2004, ancora una volta su un campo neutro, questa volta a Castrovillari. Il nostro autista di fiducia, che non voleva mai fermarsi agli autogrill perché aveva paura che ci scontrassimo con altri tifosi o che, nella migliore delle ipotesi, cominciassimo a bere e fumare senza partire più, quella volta – con nostro grande stupore – si fermò due volte in poco tempo. Pensavamo di essere ormai arrivati e che essendo in anticipo, forse voleva perdere tempo: non ci ponemmo molte altre domande e cominciammo come al solito a far festa. Ma l’ora della partita si avvicinava e noi eravamo ancora fermi: praticamente il pullman era rotto, ma riuscimmo a rimetterlo in moto a spinta e arrivare solo con qualche minuto di ritardo. A fine partita però, l’autista era ancora infilato nel vano motore, il pullman non partiva e noi, per passare il tempo, organizzammo una partita nello spiazzo dello stadio, 25 contro 25, fra schiamazzi notturni nel quartiere, cittadini che chiamavano la polizia per i rumori, ma con la polizia che era già là e ci lasciava fare per tenerci occupati: noi ringraziammo prendendo a pallonate le loro auto con la scusa di aver sbagliato il tiro… Tornammo in città quasi 24 ore dopo, grazie a un auto-demolitore della zona che riuscì a far ripartire il pullman, che però si bloccò di nuovo sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria dove l’ex portiere della Juve Belardi pagò la colazione a tutti.  

Descriverei il panorama ultras negli anni ’90 come segue: proveniente da un’età dell’oro, che erano gli anni ’80, ma che si andò man mano deteriorando nei decenni successivi. La logica dei gruppi di massa in declino, le fazioni che si scindevano, i cani sciolti emergenti, in definitiva una nuova generazione che prendeva il sopravvento e viveva altri valori rispetto a quelli tradizionali. Anche l’effetto devastante dell’eroina. Ma ancora grande tifo, trasferte in massa, splendide coreografie. Saresti d’accordo con questa immagine? Come vedi le TM inserirsi in questo scenario?

Nella provincia forse i tempi sono stati un po’ più dilatati, da noi negli anni ’80 gli ultras non avevano ancora preso piede e la loro “golden era” fu con noi nei ’90. La crisi, allo stesso modo, l’abbiamo vissuta un po’ dopo, nei 2000. L’eroina, quella sì, è stata tremendamente (e fortunatamente per noi) puntuale tanto che, nei ’90 della nostra adolescenza, il fenomeno andava già parecchio scemando e la piaga dell’eroina non ha riguardato la nostra realtà di curva, se non per qualche caso marginale, in cui più che essere stata un problema per noi, siamo stati noi come realtà sociale a risultare un’ancora di salvezza per chi aveva avuto certi tipi di problemi.

La Puglia ha molte tifoserie rispettabili, anche nelle divisioni inferiori. Quali gruppi hai incrociato ai tempi di Teste Matte e cosa ne pensi di loro?

Ne ho incrociate davvero tante, avendo bazzicato per lo più campionati regionali e la Puglia è una regione così ricca di ultras che è difficile menzionarne alcuni senza fare torto ad altri. Poi ovviamente conta sempre il vissuto, le simpatie o le antipatie personali che possono condizionare il giudizio. Ma se dovessi fare un solo nome direi Taranto, una tifoseria non molto appariscente o fotogenica, che ha ingoiato un sacco di delusioni, ma che c’è e c’è sempre stata. Andare a Taranto, passare per il quartiere dove si trova lo stadio “Erasmo Iacovone”, ti metteva sempre addosso una certa adrenalina, anche se non avevi nessuna rivalità con loro.

Manfredonia dista solo 35 km da Foggia, un club con una tifoseria storicamente forte. Com’è stato vivere accanto a vicini così ingombranti? Immagino che avessero anche rappresentanti nella tua città?

È un rapporto strano, di amore e di odio insieme. Siamo nati come ultras nel loro periodo calcistico migliore e ovviamente c’era gente che andava a Foggia per la curiosità di vedere la Serie A. Per un periodo c’è stata a Manfredonia persino una sezione degli “Original Fans” rossoneri, ma in realtà era composto giusto da qualche paio di ragazzi, pur molto in gamba. Abbiamo sempre avuto la nostra diversità, non solo calcistica, che abbiamo sempre coltivato. D’altro canto però non abbiamo mai pensato di mettere in piedi una rivalità che sarebbe stata stupida e improponibile per la sproporzione di numeri e tradizione ultras. Oltretutto data la vicinanza, gli scambi fra le due popolazioni sono molto frequenti, d’inverno con gente nostra che va da loro a studiare, l’estate con foggiani che vengono da noi al mare, perciò innescare una guerra sarebbe stata una cosa pericolosissima proprio nella vita di tutti i giorni. Ogni tanto questo equilibrio ha vacillato molto, ogni tanto ci sono stati persino singoli episodi sopra le righe, ma tutto sommato non è mai successo nulla di che e i rapporti continuano ad essere bene o male pacifici.

Quando ho fatto ricerche sul tuo gruppo, ho avuto l’impressione che fosse un gruppo abbastanza rispettato e anche piuttosto innovativo. Posso confermare quest’ultimo aspetto almeno per il vostro striscione. Ha un tipo di fattura che non si vede spesso (penso di averlo solo visto solo su una bandiera del Bastia e dell’Ujpest). Ho avuto la giusta impressione? Quali erano gli aspetti nuovi che avete portato avanti e che spiccavano?

Uno dei fondatori del gruppo era (ed è) un bravissimo disegnatore e fin dall’inizio il gruppo ha sempre avuto una fortissima vena artistica, con punte di originalità e ironia in ciò che faceva: una volta facemmo una coreografia con San Lorenzo Majorano, santo protettore della città, che noi scherzosamente ribattezzammo “San Lorenzo Marijuano” perché nella corona che sovrasta il simbolo, inserimmo una piccola foglia di marijuana.

Con il passare degli anni, il gruppo ha sempre posto molta attenzione non solo alla cura dei materiali, ma anche e soprattutto dei contenuti. Pur essendo sempre e solo un unico gruppo, all’inizio mettevamo altri striscioni dietro i quali non c’erano altre persone, ma che servivano ad occupare e colorare lo spazio. Poi abbiamo scelto di toglierli perché non avevano molto significato, perciò adottammo uno stile misto italiano-inglese, con un solo striscione di gruppo e tante altre piccole pezze e bandiere di lato con le quali davamo sfogo alla nostra fantasia. Il codice postale della città, riferimenti musicali, alla nostra terra, alla nostra storia, ecc.

A proposito del vostro striscione, vi spicca Corto Maltese come simbolo. Chi lo ha suggerito come logo e cosa vi ha fatto prendere questa decisione. Siete stati ispirati in qualche modo dagli Ultras Granata sez. Liguria che avevano anche loro Corto Maltese come simbolo identificativo?

Non solo Pratt, ci vuole anche… Pazienza!

Corto Maltese in verità venne dopo. Il primo simbolo del gruppo (con scritta TM di colore verde… perché la squadra di pallavolo femminile era verde) era la testa di un hooligan disegnata dallo stesso ragazzo fondatore del gruppo. Poi decidemmo per Corto Maltese nemmeno tanto per l’ispirazione degli UG Liguria ma perché, per l’attenzione artistica che abbiamo sempre avuto, vedevamo nel personaggio di Hugo Pratt la perfetta rappresentazione di chi nasce e vive sul mare e ha con il mare un rapporto diretto, quasi carnale. Dal mondo dei fumetti, un altro riferimento per noi molto importante fu Andrea Pazienza, il più grande genio artistico italiano di cui, nella nostra simbologia, abbiamo spesso usato e abusato.

Una delle immagini più forti che ho del tuo gruppo è una grande bandiera nella recinzione di fronte al vostro settore. Corto Maltese nel mezzo, la scritta Teste Matte a sinistra e a destra. Puoi parlarci un po’ di questo (finanziamento, produzione, qualche aneddoto)? Ci sono altre coreografie che consideri importanti?

Fu una delle coreografie economicamente più impegnative. Avevamo già la sede, riuscimmo già da parte nostra a raccogliere una bella cifra grazie al nostro fondocassa e producendo delle sciarpe, il cui ricavato fu impegnato in questo “spettacolo”. Ma quella volta, forse più che mai, se il resto della tifoseria non ci avesse dato una mano (economicamente, per la stoffa e la pittura, perché poi il disegno fu realizzato interamente da noi a mano…) probabilmente quella coreografia non avrebbe mai visto la luce.

Domanda importante: pensieri liberi, qualsiasi striscione speciale che avete esposto?

Sugli striscioni diventa difficile rispondere, perché per un periodo, soprattutto quando non avevamo soldi o idee per coreografie, fare uno striscione era il nostro modo più veloce ed economico per fare una piccola coreografia. Più degli striscioni usa e getta per lanciare messaggi particolari, sono rimasto invece molto legato a due “pezze” entrambe disegnate da Pasquale: una è “Ultras non dare retta a chi ‘sta cosa non l’ha capita” che prende spunto da una canzone dei Sud Sound System, un gruppo raggamuffin pugliese; l’altra è “Ad esempio a me piace il Sud” anche questo ripreso da una canzone, di Rino Gaetano, cantautore degli anni ’70. Canzone che rappresenta bene non soltanto il Sud Italia, ma anche lo spirito ultras nella strofa: “Ma come fare non so/Si devo dirlo ma a chi/Se mai qualcuno capirà/Sarà senz’altro un altro come me”.

Tornando alla realtà della tua città. Cos’è successo nel decennio fino al 2005? Come l’avete vissuto?

Nel 2005 anche io ero appena emigrato a 500 km di distanza per lavoro. E il bello che in quegli anni, a partire dal Centro-Nord Italia per seguire il Manfredonia eravamo sempre tanti. Questo perché il sogno ancora vivo negli anni ’90 di poter vedere la città cambiare e riscattarsi, dovette fare i conti con la realtà immobile di un’economia ormai paralizzata. Io onestamente mi sono arreso e sono andato a cercare fortuna altrove, ma proprio per questo ammiro chi testardamente è rimasto a fare a pugni con la sorte per tentare di piegarla. Nel frattempo è anche sopraggiunta la crisi globale che, se vogliamo, ha persino piantato altri chiodi sulla bara.

La TM furono speciali anche in punto di morte. Vi siete fermati al culmine della vostra storia sportiva, in serie C1. Non conosco nessun altro gruppo importante che si è fermato in un momento di successo: perché l’avete fatto?

L’abbiamo fatto di comune accordo tutti noi della vecchia guardia, con ovvi e immancabili malumori dei più giovani. Semplicemente ci eravamo accorti che il ricambio generazionale non era stato sufficiente e che quei pochi giovani che erano subentrati, anche per errori nostri di valutazione, avevano preferito la via individuale all’idea del grande gruppo ultras unico, che in verità stava andando pian piano tramontando in tutta Italia anche a causa della sempre più crescente repressione. L’idea dello scioglimento maturò a poche giornate dalla fine del campionato che intendemmo comunque finire. Quelle ultime partite con lo striscione in transenna furono per noi davvero carichissime di emozioni, come la trasferta di Martina Franca, dove in virtù di una certa rivalità arrivammo davvero in grande spolvero.

Lo spirito delle TM si sente ancora oggi in città o sugli spalti del Miramare?

Il nostro scioglimento non fu indolore e la cosa si ripercosse nell’esperienza ultras successiva, che tentò in tutti i modi di tracciare una distanza da noi, pagando in certi casi anche un tributo alto e a volte inutile di repressione, solo per evidenziare la rottura generazionale con un passato che hanno sempre rinnegato. Eppure se non fossimo esistiti noi, non sarebbero esistiti nemmeno loro. Si possono rinnegare i padri, se non se ne condividono le scelte, ma restano i propri padri. Oggi è subentrata una terza generazione, dopo il nostro scioglimento, in cui i legami sono ancora più labili col passato. Qualcuno in verità c’è ancora, fra quelli che hanno attraversato tutte e tre le fasi di questa esistenza, ma adesso il passato è forse definitivamente passato e i ragazzi che animano oggi gli spalti del “Miramare” hanno il merito di andare avanti solamente per se stessi e la propria passione, senza inutili gare con la storia remota, e forse proprio per questo potranno avere più prospettive di tempo. Per quanto il contesto socio-economico resti davvero molto difficile.

Dopo lo scioglimento delle TM anche la storia del club è andata costantemente declinando. Discesa in C2 nel 2008, bancarotta nel 2010. Sicuramente non sono tempi facili per le tifoserie. Usando un quadro marittimo: chi stava al timone? Chi ha lasciato la nave?

Al timone in quel periodo c’erano i due gruppi che sono succeduti a noi, si chiamavano “Orgoglio e Passione” e “Mentalità Sipontina”. Rappresentavano uno la nostra anima più folkloristica e attenta al tifo, l’altra il bisogno di confrontarsi con gli altri anche sul lato più ultras e “stradaiolo”. In noi le due anime coesistavano, pur con qualche difficoltà, dividendole si sono avuti ovviamente dei vantaggi e degli svantaggi, primo fra tutti la perdita di forza e compattezza. Entrambi i gruppi si sono poi sciolti, neanche tanto a causa del declino calcistico, ma della tanta repressione subita. In una città al centro di una vecchia e molto violenta faida di mafia, per la polizia è senza dubbio meno pericoloso stare dietro ai tifosi che non a dei mafiosi…

Le cose peggiorarono ulteriormente nel 2018. A marzo, gli ultras pubblicarono un comunicato invitando tutti a disertare il Miramare. “Manfredonia merita di più”. Poi in agosto il “Donia” non si è iscritto al campionato. Quale futuro vedi per il club e la sua tifoseria?

Anche oggi esistono più o meno due anime, anche se ora la divisione è forse meno marcata e riguarda più che altro l’età. Ad ogni modo i due gruppi sono molto informali, si riconoscono dietro “pezze” generiche (una: “Era l’Ottobre del 1932”; l’altra: “Per la città, per questa maglia”) e hanno persino cambiato settore, spostandosi nella gradinata Est. Dopo questo ennesimo fallimento, la squadra ripartirà dalla categoria più bassa della sua storia, la terz’ultima categoria del calcio italiano, dove a bordo campo non ci sono nemmeno i guardalinee. Ma i ragazzi sugli spalti ci sono ancora e la nuova società sembra più seria della precedente: speriamo bene. Mi piace credere che il futuro possa essere dalla loro parte, anche perché, chiusi i conti con un passato anche burrascoso, ciò vorrà inoltre dire che non tutto quello che abbiamo seminato noi è andato perduto.