Fabrateria Vetus. È questa una delle prime pezze che, qualche tempo fa, mi è capitato di vedere proprio sul nostro sito. Ammetto che la mia ignoranza, peraltro giustificata dal non aver affrontato minimamente studi classici o latinisti, mi ha indotto ad aprire la foto e successivamente Google per capire. Ho compreso che quel nome, di romana memoria, altro non era che l’antica nomenclatura dell’attuale Ceccano, conosciuta così dal VII secolo in onore di Petronio Ceccano Console di Campagna, discendente di Tito imperatore e padre di papa Onorio I.
Perchè iniziare dalla storia del quinto centro, per grandezza, della provincia di Frosinone? Fondamentalmente perchè in Italia ogni centro, anche il più piccolo e miserrimo, ha la sua vita secolare da raccontare, i suoi aneddoti e i suoi vanti. Secondo poi perchè quella pezza è una delle prime riapparse al seguito del Ceccano Calcio. Una storia intricata, lunga ed estenuante. Tra fallimenti, contestazioni e nastri che in più di un’occasione si sono riavvolti per ricominciare a proiettare un film, quello calcistico, di cui Ceccano necessita e che da diversi anni viene interrotto sul più bello.
Siamo a una manciata di chilometri da Frosinone. Basti pensare che il treno impiega appena cinque chilometri ad unire i due centri. Da una parte c’è la Serie A, dall’altra la Terza Categoria. Anche il fatto che un manipolo, cresciuto sempre più in questa stagione, abbia optato per seguire la squadra del proprio paese, vederla ripartire nuovamente e starle vicino in casa e in trasferta, con scampagnate spesso in veri e propri centri poderali i contrade, è un segnale forte e chiaro di come nel nostro Belpaese, per quanto si voglia sopire in nome del politicamente corretto, l’identità territoriale è un qualcosa di insito e fortemente legato al vivere comune. Da queste parti ricordano con orgoglio gli anni novanta, con la Serie D che permise alla tifoseria di confrontarsi con il capoluogo, ma anche con piazze storiche del calcio laziale come Terracina.
Un periodo che ha visto la sua fine a inizio anni duemila, lo spartiacque con ciò che è venuto dopo. Un vero e proprio peregrinare nelle serie inferiori, con poca gloria e tanto fango da mangiare. Quest’anno a Ceccano si sono trovati nuovamente a ripartire dal basso. Dal gradino più basso. Hanno lottato, vinto gara dopo gara, riportato entusiasmo e gente al vecchio stadio Popolla, fino a creare un discreto seguito ultras. A loro appannaggio va riconosciuto di esser partiti in una angoletto dello stadio, per poi riprendersi quella Curva Nord chiusa. Ripulendola, verniciandola e facendola tornare un luogo in grado di ospitare il tifo organizzato rossoblu.
È proprio la mia natura zingaresca e fortemente curiosa a portarmi qua. A circa cento chilometri da casa. Tra i fiumi Cosa e Sacco, anzi Tolero, come viene chiamato da queste parti in memoria dell’antico nome latino Tolerus, e i monti che da una parte delimitano il confine con la provincia di Latina e dall’altra quello con la Campania. Per i tifosi ceccanesi è una giornata importante, dopo un campionato di vertice alla squadra, infatti, basta un solo punto per conquistare la Seconda Categoria.
Il tentativo, in parte riuscito, di riaccendere la fiammella dell’entusiasmo è palpabile già in stazione, dove alcuni manifesti invitano la gente ad affollare le gradinate. Raggiungo il Popolla in pochi minuti e mi trovo davanti un classico stadio alla vecchia maniera, di quelli che piacciono a me. Senza troppo fronzoli ma con anni e anni di vita vissuta da raccontare. All’ingresso c’è uno stand impegnato a raccogliere fondi per l’associazione “Sara, un Angelo con la Bandana“, la cosa bella è che su internet questo è stato promosso unitamente da ultras e società. Se pensiamo al muro contro muro che ormai vige nelle massime categorie tra curve e club, capiamo quanto il calcio, a certi livelli, sia diventato un qualcosa ben diverso dallo sport, perdendo quel senso di aggregazione che ne ha sempre consentito il successo.
Camminando sotto il feudo del tifo ceccanese mi accorgo come tutto sia a portata di meno. Dall’accesso sul terreno di gioco per fare le foto, alla possibilità di portare birra in curva, a quella di entrare in campo per preparare la coreografia e affiggere gli striscioni. Può sembrare poco, ma non lo è. Tanto è vero che l’immagine simbolo, almeno per il sottoscritto, è una bambina portata sotto la curva a cantare insieme agli ultras. Fosse successo in altri palcoscenici probabilmente l’avrebbero affidata ai servizi sociali. Fortunatamente qua occupa la dimensione corretta, quella che, se i nostri caporioni calcistici comprendessero in minima parte, sarebbe capace di riportare davvero le famiglie allo stadio. Altro che problemi di ordine pubblico. Si facesse meno terrorismo psicologico e si pensasse a consentire l’aggregazione del popolo, che da sempre è la cosa più bella di cui l’essere umano possa rendersi protagonista.
La genuinità di queste categorie permette anche di iniziare la partita con qualche minuto di ritardo, permettendo a tutti di abbandonare il terreno di gioco. Ci saranno all’incirca 200 spettatori, un numero considerevole se si tiene conto della categoria. Di contro c’è l’Atletico Arpino, seconda squadra della città che diede i natali a Marco Tullio Cicerone, che ovviamente non può contare su un seguito organizzato. Gli ultras ciociari salutano l’ingresso delle squadre con diverse torce, fumogeni, dei fuochi d’artificio, un bandierone e una sciarpata. Effetto molto bello e d’impatto.
Immediatamente i ragazzi si raggruppano dietro gli striscioni, tra i quali da qualche tempo hanno fatto ritorno insegne storiche del tifo ceccanese come Manicomio Criminale e Pirates, e cominciano a tifare. Una prestazione più che positiva, caratterizzata da bandiere sempre sventolate, manate e pirotecnica usata in abbondanza, vivaddio. In campo non c’è storia, e dopo un avvio lentamente bloccato i padroni di casa vanno in vantaggio e travolgono gli avversari con un perentorio 6-0. Sugli spalti monta la festa, e c’è tempo anche per un po’ di goliardia, con un manipolo che si sostituisce all’assente pubblico ospite accendendo torce, appendendo bandiere nel settore ospiti e scambiando qualche simpatica invettiva verbale con la curva.
Schermaglie goliardiche che, da lì a poco, diventano vera e propria festa al triplice fischio. Invasione di campo. Senza se e senza ma. Senza moralismi e senza sanzioni amministrative e sportive. Soltanto la gioia di riabbracciare la squadra della propria città e, forse, la nascita di un nuovo percorso ultras per la tifoseria. C’è chi beve, chi fuma e chi entra in campo direttamente con le torce. Il pallone a queste dimensioni è ancora un qualcosa di potabile e affascinante. Una sorta di petrolio grezzo che, oggi come oggi, è meglio non raffinare per tenere vive e vegete le nostre tradizioni.
Alla mia sinistra, sulla rocca, Ceccano domina il Popolla festante, mentre qualche schizzo di pioggia prova a cadere sovente. Ci sarà tempo, in serata, anche per festeggiare in centro. Unendo quello che da sempre fa diventare il tifoso italiano l’esempio per tante generazioni che all’estero sono impegnate a riprendere il nostro modus vivendi con adorazione: il senso di appartenenza.
Lascio Ceccano stanco ma con la consapevolezza che laddove dovesse finire tutto sui palcoscenici mainstream, questa rimane la realtà da perseguire. La provincia e i suoi campi veraci. Con i suoi tifosi che hanno preservato la memoria storica, non solo calcistica, per tramandare ai posteri cosa vuol dire essere tifosi. Non spettatori seduti e asettici di spettacoli al plasma che di romantico non hanno nulla. Neanche il canone inserito nella bolletta dell’immondizia.
Simone Meloni