Diciamo pure che questa è una sfida tra due animi profondamente contrapposti. Tra chi sogna e spera concretamente in un pronto ritorno in massima divisione e chi, oltre a dover fare i conti con una classifica deficitaria, è anche costretto a subire il giro di vite della propria questura (impegnata ormai da più di un anno a colpire la Sud con diffide mirate) e una gestione della situazione stadio non certo perfetta da parte di società e comune. Tanto è vero che gli ascolani, in questa stagione, hanno rischiato in più di un’occasione di non giocare al Del Duca. Un po’ per le tristi vicende sismiche che hanno riguardato le Marche e un po’ (ma non pochissimo) per i lavori di ricostruzione del vecchio stadio piceno, che procedono a rilento intaccandone seriamente l’agibilità. Il dato di fatto, nel momento in cui scrivo, è che non si sa ancora dove verrà giocata la sfida tra i bianconeri e il Perugia. Una situazione a cui il cuore del tifo ascolano ha risposto con fermezza, puntando il dito contro tutti i responsabili, nel tentativo di scongiurare quegli esili forzati che oramai sono il massimo simbolo di un calcio in completa decadenza.
Ci vuole un atto d’amore. E i tifosi del Picchio non si fanno pregare. Approfittando del turno domenicale e dell’orario una volta tanto clemente con i fisiologici impegni di tutti, i biglietti venduti per il settore ospiti sono un migliaio circa. Numeri importanti. Perché nonostante la distanza non impossibile siamo pur sempre nell’era delle presenze dettate dall’andamento sportivo, più che dalla voglia di rappresentare i propri colori e la propria fede al di là delle mura cittadine. In questo gli ascolani ci hanno abituato bene negli ultimi anni, non lesinando vere e proprie invasioni e presenze sempre corpose in giro per lo Stivale. Penso che oltretutto il Matusa sia uno stadio che invogli ad acquistare il biglietto, con le sue tribune a ridosso del campo, la sua conformazione retrò e la possibilità di far sentire la propria voce direttamente nelle orecchie dei calciatori.
C’è un bel sole che risplende nel cielo, tentando di attenuare il freddo umido che penetra nelle ossa. Attorno allo stadio il solito movimento, con ragazzi intenti a preparare i propri bandieroni e signori attempati che con sciarponi giallazzurri di lana al collo, parlano del campionato con il fedele amico di stadio. La cosa bella di questo posto, che mai mi stancherò di ripetere, è che per diversi aspetti ha mantenuto le fattezze di qualche lustro fa. Dalla bicicletta parcheggiata sulle mura delle case che stringono la tribuna coperta al celeberrimo ristorante Cavallino, probabile antesignano di tutti quegli stadi che oggi si vantano di avere al proprio interno un punto di ristoro a cinque stelle. Beh al Matusa c’è sempre stato. Proprio dietro al settore ospiti. In linea d’aria a dieci metri dal terreno di gioco. Un sacrilegio pensare che tutto questo, probabilmente, conoscerà la parola “fine” tra qualche mese. Con il passaggio al Casaleno e la demolizione di un pezzo della storia calcistica laziale.
Ora bisogna entrare. Bando alle ciance e ai pensieri che sfavillano tra i miei neuroni. Ritiro l’accredito e supero il tornello, con i classici controlli di rito. Il contingente ospite sta facendo ancora il proprio ingresso, che verrà ultimato pochi minuti prima del fischio d’inizio. Alla mia sinistra la Nord mostra già le sciarpe sulle note dell’inno, e per la mia reflex è già tempo di scaldare i motori. Quando le squadre scendono in campo anche i piceni si raggruppano, formando un bel quadrato compatto e massiccio che saluta l’inizio del match con una sciarpata fitta. Tra le due tifoserie non ci sono rapporti e di conseguenza, durante la sfida, ci sarà indifferenza reciproca.
Il Frosinone di questi tempi è una schiacciasassi e per la fragile squadra di Aglietti si capisce da subito che sarà una giornata difficile. La Nord si mette in mostra con una prova discreta, colorando sempre in maniera egregia il proprio settore e potendo contare sull’entusiasmo del popolo giallazzurro, che spesso e volentieri segue il richiamo del tifo organizzato. Meritano particolare menzione le esultanze, con Bardi prima e Soddimo poi che si “esibiscono” sotto la Nord sfogando tutta la propria gioia.
Tuttavia i supporter marchigiani non sono arrivati in Ciociaria per fare da mesti spettatori. Quel quadrato disposto e compatto a cui facevo cenno prima, si fa sentire per buona parte dell’incontro. Manate, cori a rispondere, canti eseguiti all’unisono e un fumogeno rosso acceso al gol, cosa che di questi tempi è sempre notevole. Tanto notevole che la questura di Frosinone non mancherà di sanzionare il pericolosissimo accensore Sicuramente tra le migliori tifoserie di questi ultimi anni. Nella fattispecie, l’unico piccolo neo, se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, è il calo dopo la terza rete frusinate. Ma se vogliamo vedere il tutto in maniera “macro”, c’è da riconoscere l’ottimo lavoro fatto dagli Ultras 1898, capaci di ridare linfa a una tifoseria che, prima della discesa in Lega Pro, attraversava una fase di declino; fautori di una curva che attualmente rappresenta al meglio il blasone di un club che un po’ tutti associamo alle idilliache immagini di Costantino Rozzi e Carletto Mazzone dei favolosi anni settanta e ottanta.
Al triplice fischio sono i padroni di casa a gioire, con la squadra chiamata a raccolta sotto la curva. Clima ben differente tra le fila bianconere, come è normale che sia. Non ho modo di trattenermi oltre, il mio treno per Roma partirà dopo pochi minuti e non posso permettermi di perderlo. L’ultimo pensiero è a questo campionato di Serie B. E al solito raffronto con il settore ospiti del Matusa nella passata stagione, quella in Serie A. Non c’è il minimo paragone. Fatta eccezione per qualche tifoseria, la massima divisione offre ormai scenari preconfezionati e spesso abulici, mentre in questi lidi si può ancora assaporare, in minima parte, lo spirito che per anni ha incarnato il tifoso italiano. Ed è già tanto. Bisogna saper essere realisti, senza perdere mai il contatto con la quotidianità. Altrimenti si rischiano inutili voli pindarici, per poi ritrovarsi stramazzati al suolo.
Simone Meloni