È il trentesimo minuto del primo tempo e degli ultras vicentini non v’è ancora traccia nel settore ospiti. Le pezze attaccate fino a quel momento (tra cui Caneva Berica, C.S.D. e O.F.) vengono rimosse in segno di protesta. I supporter veneti sono infatti ancora all’esterno dello stadio, dove il servizio d’ordine non vuol far passare le pezze dei gemellati pescaresi.

Solita tiritera all’italiana e solita – sacrosanta – reazione degli ultras: o tutti o nessuno. Una reazione logica a scelte e divieti illogici e pretestuosi. Non si capisce, infatti, quale possa essere il pericolo nell’esporre un vessillo del Pescara. Veramente si pensa che nel 2018 ci sia ancora la possibilità di creare interminabili tumulti in base alla presenza di una tifoseria storicamente rivale nell’altro settore? Facciamo che non ci crede neanche chi prende simili decisioni. E facciamo anche che nella fiera dell’assurdo – divenuta ormai consuetudinaria nei nostri stadi – il divieto, il diniego e i piccoli abusi sono troppo spesso il sale nel fare ordine pubblico.

Per la cronaca i vicentini entreranno soltanto nella ripresa, non esponendo alcun vessillo. Curioso il fatto che in questa stagione li veda per la seconda volta in trasferta (la prima fu a Padova, qualche mese fa) e per la seconda volta rinuncino alle proprie sigle a causa di problemi con il servizio d’ordine.

Sambenedettese-Vicenza non è certo una sfida come le altre. E non solo per l’intrigante contrapposizione tra storiche realtà del nostro movimento ultras, ma anche e soprattutto per quanto accaduto all’andata. Le tensioni nel post partita, le cariche selvagge della celere e Luca Fanesi portato in ospedale. In stato comatoso.

Settimane – mesi – passati tra la vita e la morte, con una eco ancora troppo flebile se rapportata all’accaduto. Fatti su cui non è stata fatta completamente luce e per cui tante tifoserie si sono mobilitate, con la San Benedetto ultras in prima linea a chiedere giustizia.

Un film già visto. Un cinema triste, che da Furlan, passando per Scaroni e Sandri, sembra mandare in onda sempre la stessa scena. Senza che qualcuno si preoccupi di cambiare la pellicola. Situazioni in cui magicamente ogni video sparisce (nel 2018, con stadio e dintorni sorvegliati da decine di telecamere, sic!) e in cui “nessuno sa niente”. Luca Fanesi è solo l’ultimo dei malcapitati di un modo malsano di gestire l’ordine pubblico. Di una maniera troppo spesso spropositata e veemente di reagire a tensioni. Nonché di una silente impunita avvertita, evidentemente, da alcuni reparti della celere italiana.

È anche per questo che i ragazzi di San Benedetto, negli ultimi tempi, hanno rimesso in pubblica piazza l’importanza di dotare gli agenti di numeri identificativi. Esattamente come avviene in quasi tutto il mondo. Persino in Paesi che l’Italia ritiene “arretrati”.

Da almeno due anni un testo di legge viene rimbalzato con i più impensabili (e improbabili) cavilli in Parlamento, malgrado dal 2001 l’Unione Europea abbia raccomandato tutti gli Stati membri di applicare su caschi e divise delle forze dell’ordine i numeri identificativi. L’Italia si conferma ampiamente maglia nera a tal merito.

Del resto è lo stesso Paese in cui se un Sostituto Procuratore della Repubblica (Enrico Zucca), già impegnato nel processo per i fatti della scuola Diaz, fa presente come molti dei protagonisti della tristemente celebre “macelleria messicana” del G8 genovese, negli anni non solo siano stati scagionati ma persino promossi e oggi qualcuno ricopra dei ruoli chiave ai vertici della polizia (verità incontrovertibile ahinoi), si scatena un putiferio con l’integerrimo Franco Gabrielli pronto alla levata di scudi nei confronti dei suoi uomini. Senza ovviamente rispondere a “un’accusa” pesante. Pesantissima. Così pesante da venir dibattuta da anni a Strasburgo come presso le associazioni umanitarie che costantemente o saltuariamente hanno seguito la vicenda.

Il problema, quindi, è innanzitutto culturale. I numeri identificativi sarebbero un importante passo in avanti (oltre che un dovuto atto di civiltà), ma alla base deve esserci una presa di coscienza da parte di molti componenti delle forze dell’ordine, nonché di chi le gestisce. La consapevolezza di non poter essere una casta protetta, alla quale tutto è concesso in determinate situazioni e verso determinate categorie sociali.

È anche pleonastico riflettere su quanto un atteggiamento più indulgente e ragionevole in talune situazioni porterebbe a un netto abbassamento della tensione, in questo caso tra tifosi e polizia. Dagli anni ’90 in poi il “nemico” delle curve è lentamente diventato quello in divisa. Una percezione pericolosa, di cui oggi se ne pagano le conseguenze con un dialogo praticamente pari allo zero e un’incompatibilità sempre pronta a sfociare in aperto contrasto.

Ovviamente in questo scenario non vanno dimenticati i media, che da sempre recitano un ruolo fondamentale. Sebbene rispetto al passato determinate azioni della polizia vengano condannate da più parti, resta sempre quella retorica della “Ragion di Stato”, legata allo stereotipo del tifoso o del manifestante brutto, sporco e cattivo a prescindere. E spesso anche chi vorrebbe approfondire finisce col cadere in questa trappola. Mi viene in mente, ad esempio, il servizio de “Le Iene” su Luca Fanesi, partito con i migliori auspici e finito con il solito – inutile in questo caso – elzeviro parlante sulla violenza negli stadi. Quando, nella fattispecie, non si parla di incidenti tra tifosi ma di un ragazzo finito in coma in una situazione controversa, che probabilmente non verrà mai chiarita fino in fondo.

Spero sempre nell’intelligenza umana e so che ci sono tante persone, in polizia, che lavorano onestamente e non condividono il modus operandi di tanti loro colleghi. Mi chiedo però perché, anche al loro interno, non si sia mai provato a fare chiarezza. Anche pubblicamente. A dire: “A noi non va bene così”. Oggi noi parliamo del caso Fanesi, ma con una breve ricerca su internet sapete quanti casi di ragazzi, ragazze, uomini e donne ingiustamente maltrattati dalla polizia italiana possiamo trovare negli ultimi anni? Molti più di quanti ne pensate. Provate! E non mi riferisco soltanto a quelli più eclatanti come Aldrovandi, Cucchi o Uva.

C’è un retaggio culturale triste e spaventoso nel nostro Paese. Un qualcosa che troppo spesso anche alle persone più ragionevoli fa dire: “Eh però, fanno il loro lavoro. Se quello non avesse fatto così…”. E invece no! Proprio perché fanno il proprio mestiere e proprio perché sono chiamati a tutelare l’incolumità dei cittadini dovrebbero ricorrere a certe metodologie soltanto in extrema ratio.

In Italia si pensa che vietando una bandiera di un ragazzo ucciso dagli agenti o non facendo entrare una pezza dei pescaresi si faccia in prima battuta prevalere il potere dell’ordine costituito e in seconda si gestisca in maniera ineffabile l’ordine pubblico. Ci sarà qualcosa che non va oppure no?

 

La partita

So che in molti, giustamente, aspettano anche un piccolo commento sulla gara del tifo. Cosa che faccio molto volentieri. Perché a prescindere da quanto analizzato sopra, Sambenedettese-Vicenza merita assolutamente qualche riga.

L’orario non è dei più favorevoli al grande afflusso. Giocare di mercoledì alle 18:30 è una scelta a dir poco folle. In linea con quelle operate dalla Serie C in questi ultimi anni. Inutile sottolineare la ridicolezza di chi si mette in bocca concetti come “famiglie allo stadio” o menate simili. A queste condizioni dovrebbero fare soltanto una statua a chi sulle gradinate continua ad andarci.

E tutto sommato la Curva Nord del Riviera delle Palme presenta un ottimo colpo d’occhio. È vero che la Samb di Eziolino Capuano occupa il secondo posto e sta disputando un ottimo torneo, ma è altrettanto vero che il popolo rossoblu non lo scopriamo oggi. Una tifoseria che ha saputo resistere a fallimenti, retrocessioni e tonfi fragorosi. Altri avrebbero mollato, loro non solo ci sono sempre stati, ma hanno anche aumentato la portata delle proprie iniziative. Coinvolgendo sempre l’intera città e tenendo in vita quel legame che fa di San Benedetto e della Sambenedettese un unico corpo.

Anche stasera la Nord si conferma su ottimi livelli, portando i propri ragazzi alla vittoria con una bella prova canora in cui il vasto utilizzo della pirotecnica la fa da padrone. Un vero godimento, di questi tempi, vedere diverse torce accese in notturna, mentre molto sentito è l’ingresso dei vicentini, con il primo coro per i gemellati di Pescara che viene subissato di fischi e insulti da parte di tutto lo stadio. Da queste parti certe rivalità sono sacre e meriterebbero di riandare in scena almeno per una volta.

Prima parlavo della fedeltà sambenedettese, credo che un discorso analogo vada fatto per i ragazzi di Vicenza. Basti pensare alle ultime vicissitudini societarie, immediatamente successive alla dolorosa retrocessione dalla Serie B. Ci sono curve e tifoserie che hanno mollato o contestato ad oltranza per molto meno. I berici hanno invece optato per l’aggregazione, l’impegno estremo alla conservazione di tutto quello che il Vicenza significa per loro e per il calcio italiano. E giudicando dai numeri che si registrano al Menti e in trasferta direi che ci stanno riuscendo appieno.

Stasera non si poteva ovviamente pretendere un’invasione e penso che i numeri portati in riva all’Adriatico siano comunque buoni (un centinaio i biglietti venduti).

Come accennato il loro ingresso avviene nel secondo tempo ed è seguito da una bella prova canora: tante manate, cori a rispondere e un paio di torce accese.

Il confronto tra le due tifoserie non poteva non essere nel segno di Luca Fanesi. L’eloquente striscione con cui la Nord ringrazia i veneti per l’aiuto prestato al ragazzo e alla sua famiglia nei mesi successivi all’accaduto, raccoglie l’applauso convinto di tutto lo stadio. A sottolineare come la vicenda, almeno in ambito calcistico, sia percepita ben al di là delle sole curve.

In campo sono i marchigiani ad avere la meglio con un sofferto 2-1.

Simone Meloni