Dieci anni. Esatti esatti. Questo è il lasso di tempo che mi separa dalla mia ultima apparizione al PalaEur. Nel frattempo, di acqua sotto i ponti ne è passata davvero molta, forse anche troppa. Così, quando apprendo della decisione da parte della Virtus di disputare le semifinali all’EUR provo un sentimento misto tra il felice ed il depresso. Contento perché, a rigor di logica, questa dovrebbe essere la casa naturale per la squadra della città più grande e popolosa del paese, depresso perché non essendo propriamente così, so che per riempirlo ci vorrà un miracolo e si rischia un effetto boomerang in una partita a dir poco delicata per il quintetto di Dalmonte.

Eppure, pronti via. Stavolta la metro è la Linea B, presa dopo il solito, stressante, cambio a Termini, con turisti e romani che vagano all’impazzata perdendosi a causa dei recenti mutamenti negli interscambi delle due linee e lasciandosi chiaramente andare ai soliti morigerati commenti sulla situazione. Della serie “bestemmie volanti nel sottosuolo capitolino”.

Nonostante odi in assoluto la Linea B, per la sua sempreverde inefficienza e i suoi treni vecchi, fetidi e puzzolenti, è con rinnovato spirito che oggi salgo a bordo di essa. Sarà perché raggiungere il PalaEur con la metro mi riporta indietro di qualche anno, così mentre le fermate passano ripenso ai tanti bei momenti trascorsi con amici e conoscenti occasionali a margine delle mie prime partite di pallacanestro. Ma si sa, a volte fare un balzo indietro con la memoria può essere controproducente, si rischia davvero di cadere in depressione, soprattutto se mentre filosofeggi mentalmente il treno si riempie, ed anche un paio di turiste scandinave che ad incontrarle in Piazza di Spagna non disdegneresti, ti recano fastidio per il loro pressare sulla calca già di per se racchiusa a mo’ di scatoletta del tonno Rio Mare. O Nostromo. Insomma, fate voi per le marche.

Peraltro scendere alla stazione EUR Palasport per me rappresenta davvero un concentrato di ricordi, quasi tutti belli, di una parte della mia vita che non ha nulla a che vedere con il basket o con gli ultras. Sarò cretino io, non saprò forse gestire le emozioni, ma tutto questo mix di ricordi e pensieri finisce con l’appannarmi il cervello, stordendomi sensibilmente, tanto che decido di fermarmi sul ponte con il quale la via Cristoforo Colombo sovrasta il celebre laghetto del quartiere per scattare qualche foto al palazzetto che comincia ad intravedersi. Inoltre, nel tentativo di accorciare il tragitto, mi inerpico alle pendici della collinetta dove il PalaEur è edificato, dimenticando completamente di come, non essendoci scale o asfalto, la cosa non sia poi tanto consigliabile, ed infatti, a metà cammino, con l’impossibilità di tornare indietro, rischio in almeno un paio di occasioni di ruzzolare giù come un cretino. E forse mi sarebbe pure stato bene. Altro che nel mezzo del cammin di nostra vita. Qua la retta via oltre ad esser smarrita, rischiava di essere mortale.

Quando manca un’ora all’inizio della partita, un buon numero di tifosi è già fuori dai cancelli. Si parla di circa 6.000 biglietti venduti, il che è senza dubbio un buon numero, ma in un ambiente che ne può contenere quasi il doppio rischia lo stesso di risultare dispersivo.

Ritiro il mio accredito ed anche io, dopo una non usuale fila per una partita di basket, riesco ad entrare con il controllo persino troppo asfissiante degli steward. Nulla di simile rispetto alla tranquillità assoluta del PalaTiziano. Ma ogni cosa ha i suoi pro ed i suoi contro. Piuttosto barcamenarmi tra i tre piani a disposizione non è impresa facile, ed alla fine trovo il mio posto capendo, ma solo negli ultimi due quarti, di potermi spostare anche in altre zone per scattare. Tutto questo perché nei palazzetti preferisco gli spalti al campo, a causa della poca libertà di movimento offerta da quest’ultimo.

Gli spalti si vanno via via riempiendo, anche se purtroppo, come detto, a causa della grandezza dell’impianto, alla fine il colpo d’occhio non sarà da 6.000 presenti. La Curva Ancilotto invece si compatta subito alla grande, occupando tutti e due gli spicchi dove storicamente si posizionano i gruppi ultras e mettendosi in evidenza con belle manate che chiamano la squadra all’impresa. Mentre, almeno per il momento, nel settore ospiti non si vede traccia della Brigata.

Comincia la partita e se il pubblico normale, infarcito davvero di tanti occasionali forse alla prima partita di pallacanestro, fatica a scaldarsi, gli ultras sembrano galvanizzati dall’aver ritrovato la loro casa. Tanta voce, battimani, petti nudi e cori eseguiti a lungo, davvero con buona costanza. L’avvio dei capitolini è quindi ottimo e l’ambiente si accende quando, dopo una decina di minuti, fanno il loro ingresso i supporters senesi. Subito scambio di vedute poco amichevoli con i dirimpettai ed i classici gesti dell’entrata nel settore, quelli per i quali, parliamoci chiaro, noi malati di questo mondo impazziamo.

In campo la sfida si mantiene abbastanza equilibrata nei primi due quarti, mentre negli ultimi 20’ è la Mens Sana a prendere il sopravvento, andando a conquistare il 3-0 della serie che lascia poche speranze agli avversari.

Per quanto riguarda la prova degli ospiti, un centinaio in totale, il giudizio non può che essere più che sufficiente. I senesi hanno ormai uno stile ben delineato, fatto di tifo continuo e colorato da bandiere e stendardi. La giovane età funge sicuramente da fattore stimolante, c’è sempre tanta voglia di divertirsi e l’esposizione in prima linea di una bandiera del Chianti la dice lunga su ciò.

I Roma 1960, nonostante la sconfitta che allontana quasi definitivamente il sogno di raggiungere la finale, si dimostrano in crescita ed ho apprezzato molto il fatto che, non solo non abbiano risentito del cambio di palazzetto, ma ne abbiano quasi giovato, riuscendo a girare le difficoltà in loro favore ed offrendo un’assoluta prova di valore, condita dal “Che sarà sarà” finale che è sempre un qualcosa di bello da sentire in stadi e palazzetti.

Lascio così le gradinate del PalaEur cosciente che tra 48 ore ci sarà il sequel di questa interminabile sfida. Per ora c’è da percorrere il tragitto inverso e tornare a casa. La limitazione oraria della metro non lascia spazio a molta immaginazione o a perdite di tempo.

Simone Meloni.