Tolto qualche necessario adeguamento, la Grecia che in questi giorni si para davanti ai miei occhi è simile alla nostra Italia di 30 anni fa: in due in motorino senza casco, il clacson facile ad ogni incrocio, cani randagi che abbondano nelle strade, abbondanza di piccoli negozi a dispetto di poche grandi catene, raccolta indifferenziata sconosciuta e anche tanta socialità per le vie e per le piazze.

Ma è anche la Grecia che mi fa rivivere il teatro d’azione del commissario Kostas Charitos, fortunato personaggio ideato dallo scrittore Petros Markarīs: una Grecia in piena crisi, dove le auto rimangono parcheggiate a tempo indeterminato ai bordi delle strade, accumulando strati di polvere; la Grecia della manutenzione zero e delle paghe da fame; la Grecia della corruzione ma anche della continua voglia di continuare a vivere al meglio delle proprie possibilità, nell’attesa che le cose migliorino.

In questa mia settimana ellenica ho potuto constatare coi miei occhi le blande, e per lo più fugaci, notizie di organi di stampa pressapochisti e talvolta ingannevoli.

Calatomi perfettamente in questo nuovo ambiente, il desiderio fin troppo malcelato è quello di capire cosa accade negli stadi. Sapere se quel modello di tifo “alla greca”, così esaltato negli anni, ha ancora una innata vitalità oppure se si sta arrendendo a spietati agenti endogeni ed esogeni.

Non riuscendo, per forza di cose, ad attivarmi per il fine settimana, l’occasione propizia è Olympiakos-Tottenham di Champions League, valida per la prima giornata della fase a gironi della Champions League stessa.

Una botta di fortuna da una parte, visto che riesco ad avere, proprio  nel periodo della mia vacanza, una partita in casa dell’unica rappresentante greca in tutte e due le competizioni europee (credo sia una debacle storica, ma non ho le statistiche alla mano); una gran botta di sfiga dall’altra, poiché in un girone con Stella Rossa (con cui esiste un forte gemellaggio anche per motivi religiosi) e Bayern Monaco, vado a beccare l’unica tifoseria veramente insignificante, ovvero quella del Tottenham.

Se, come me, fate parte di un club privilegiato di odiatori di smartphone e gingilli annessi e connessi come Google Maps, beh, se venite in Grecia fate un’eccezione, e procuratevi almeno un navigatore satellitare vecchio stile tipo “Tom Tom”: la segnaletica, specie dentro le città, se c’è fa veramente schifo e, spesso, quando vi va bene, i caratteri che indicano la via da seguire sono greci.

Mai e poi mai avrei pensato che l’unico anno di liceo classico che ho fatto mi avrebbe portato una qualche utilità. La mia sin troppo viva reminiscenza dei caratteri greci mi ha salvato la pelle in un momento di disperazione, quando, in piena Atene, la strada per il Pireo era smarrita.

Eh già. Avevo guardato, prima di partire, la cartina e mi ero detto “niente di più facile”, salvo poi ripensarci quando l’autostrada dritta e diretta per il Pireo è prima diventata una strada a scorrimento veloce e poi un inferno di macchine e semafori fin nel cuore di Atene, senza possibilità alcuna di raggiungere la meta. Come detto, mi salvano le reminiscenze di greco – che mi permettono di “catturare” la giusta segnaletica – e arrivare, dopo diversi errori, al Poseidon Interchange, vicino al mare del Pireo, imboccando la strada giusta solo grazie al pullman dell’Olympiakos, debitamente scortato, che proprio nello stesso momento sta andando sparato verso lo Stadio Karaiskákis.

La casa del club più titolato di Grecia, nata nel 1895 come Velodromo, ha accompagnato le gesta della Thrylos (“leggenda”, soprannome attributo dai tifosi dopo i 6 titoli nazionali consecutivi conquistati negli anni ’50) sin dalla fondazione, nel 1925. Non con continuità, a dire il vero, poiché l’impianto fu pressoché abbandonato dal 1997 al 2004, anno in cui le Olimpiadi in terra ellenica gli hanno donato nuova vita: il vecchio stadio venne, per l’occasione, buttato giù e ricostruito senza pista di atletica a spese completamente del club, che in cambio ha ottenuto la gestione per 50 anni. Per gli amanti delle toponomastiche, il nome che porta è stato conferito in memoria di un eroe della guerra d’indipendenza greca.

In questo stadio accadde anche un fatto tragico: era l’8 febbraio 1981 quando, al termine della storica vittoria per 6-0 sull’AEK, troppe persone simultaneamente si accalcarono verso il Gate 7, dove i cancelli erano in parte chiusi. L’improvviso eccesso di folla causò 21 morti e 55 feriti. Di quel disastro rimane oggi viva memoria e non è un caso che lo stesso gruppo Gate 7 ne riprenda il nome.

In maniera “greca” trovo quasi subito parcheggio in uno stradone (in realtà, in maniera altrettanto greca, altre macchine parcheggeranno davanti alla mia impedendomi di uscire al ritorno, costringendomi ad uno slalom a 4 ruote sull’annesso marciapiede) e, in 5 minuti a piedi, mi ritrovo ai piedi del Karaiskákis.

L’ambiente è di quelli popolari al 100%, con tanta gente ammassata un po’ ovunque, gli ambulanti vecchio stile e una certa fatica a muoversi da una parte all’altra. A parte la folta folla, ciò che più risalta ai miei occhi è che quasi tutti indossano la classica casacca a strisce verticali biancorosse, primo segno di identificazione della tifoseria.

Trovo con un po’ di fatica l’ingresso media (sfatiamo un altro mito: non è vero che i greci non sanno parlare inglese: in realtà la maggior parte se la cava meglio di noi italiani e, personalmente, non ho quasi mai avuto problemi a comunicare nell’arco di una settimana), ma con le indicazioni del personale in pochi minuti arrivo a destinazione.

Con estrema praticità, mi basta presentarmi all’ingresso col mio tesserino di giornalista (finalmente serve a qualcosa!) e ottengo un pass per il campo scritto a mano sul momento (anche se l’addetto stampa mi aveva già comunicato tale disponibilità per email, pur senza inserirmi ufficialmente nella primissima lista): una flessibilità impensabile nella Serie A italiana, figuriamoci poi per una partita di Champions!

Ormai da tempo non sono più un ragazzino; prima di giudicare una curva dal primo boato che fa, cerco di dare una valutazione complessiva solo alla fine. Tuttavia la curva piena già oltre un’ora prima del fischio d’inizio, i primissimi cori e gli striscioni appesi in tutto il perimetro dello stadio (ad eccezione di parte della tribuna principale), non mi lasciano indifferente. Particolarmente possenti i cori di scherno agli avversari che iniziano il loro riscaldamento (peraltro sotto la curva locale) e quelli riservati, invece, all’ingresso dei propri beniamini, portieri inclusi.

Il settore ospiti, poco illuminato, fa già capire che le previsioni della vigilia sul valore del contingente inglese vengono pienamente attese: sì e no 300 Spurs, che canteranno qualche timido coro all’ingresso ufficiale delle squadre e qualche altro un po’ più convinto in concomitanza con le due reti della propria squadra. Qui posso chiudere questo capitolo, perché non c’è altro da dire.

Molto c’è, invece, sulla tifoseria di casa. Splendida la coreografia, composta da uno striscione in basso (“Call of duty”, che nel contesto, tradurrei come “chiamata alle armi” o “chiamata al dovere”), un mosaico di cartoncini grigi, bianchi e rossi e un telone ritagliato che mette in primo piano un tifoso del Gate 7 che indica la strada ad alcuni giocatori in maglia biancorossa (non mi è dato sapere se i personaggi raffigurati abbiano una particolare valenza).

Il primo pensiero è che la famosa pirotecnica greca (almeno negli anni che furono), viene dispensata probabilmente per eccesso di repressione. Fatto sta che, durante tutta la partita, a parte un timido fumo durante la coreografia, non ci sarà neanche una torcia accesa, nemmeno in occasione dei due gol che sanciranno la rimonta greca.

Seconda osservazione che mi lascia interdetto: i cordoni verticali di steward che, di fatto, separano la curva e non consentono lo stanziamento delle persone. La normalità in altri paesi, ma che, in Grecia, a mio avviso stride un po’.

Sul tifo, che dire? Di sicuro il blocco centrale, quello più attivo (tutta la curva è comunque in piedi per tutta la gara), non pecca di continuità. Tuttavia, se qualcuno pensa ad un catino ribollente per 90’ si sbaglia: i boati, con tutto lo stadio che canta, ci sono eccome, ma sono piuttosto saltuari e riservati solo a momenti di vero entusiasmo. La stessa curva biancorossa non sempre coinvolge tutti gli effettivi. Anzi, nel momento peggiore della gara (quello della doppia segnatura degli Spurs), c’è persino qualche momento di silenzio.

Ovviamente, dovete immaginarvi uno standard di tifo ancora ben superiore alla media italiana, e il mio personale giudizio su quanto visto è estremamente positivo. Tuttavia, credo che per fare chiarezza su alcuni luoghi comuni, è bene pensare ai greci come persone che come noi affrontano delle difficoltà notevoli nell’organizzazione della loro vita di curva, dal carobiglietti al divieto perpetuo di trasferta che ormai persiste da ormai tanti anni.

Per trarre il dado, è bene bilanciare lo spirito molto “anni ‘80” dei greci alle logiche del calcio business che, purtroppo, stanno contagiando tutto il continente, soprattutto se parliamo dei palcoscenici che contano.

Il 2-2 che matura in rimonta premia la tenacia in campo dei padroni di casa e la costante spinta data dal pubblico, particolarmente accesa nei momenti topici del match.

Me ne vado qualche minuto prima, soddisfatto per aver visto coi miei occhi una realtà che mi ha sempre incuriosito. Ho il solo rimpianto di non aver visto all’opera altre tifoserie storiche del Paese (e non mi riferisco solo a Panathinaikos, PAOK e AEK) ma, come in una vacanza, bisogna saper fare un minimo estratto di ciò che si può vedere in poco tempo: anche nel contesto calcistico bisogna accontentarsi di saper cogliere piccole occasioni come questa.

Stefano Severi