Il grandissimo, mitico, Armando Picchi, calciatore il cui solo nome evoca un qualcosa di epico e schiude una finestra su una pagina fondamentale del nostro Calcio. Nella suggestiva foto che accompagna questa chiacchierata, possiamo vederlo immortalato con la maglia dell’Inter all’età di 30 anni, correva l’anno 1965 (in piena maturità atletica), con in braccio i due trofei più importanti ed ambìti da tutti i più grandi club europei: la vecchia Coppa dei Campioni (diversa dal trofeo dalle grandi orecchie che sarebbe subentrato proprio dall’anno seguente in poi) e l’inconfondibile Coppa Intercontinentale col pallone retrò.

Quella memorabile stagione 1964-65 della Grande Inter sarebbe stata strepitosa: si aprì in settembre con la vittoria della Intercontinentale – cui i nerazzurri meneghini parteciparono per aver vinto la Campioni l’anno prima – dopo la tripla sfida (all’epoca si decretava la squadra vincitrice al meglio delle 3 gare, come avviene nel basket) contro gli argentini dell’Independiente (squadra della città portuale di Avellaneda); stagione che proseguì in maggio con la vittoriosa finale – che quell’anno si disputò proprio a San Siro – di Coppa Campioni contro i portoghesi del Benfica; ed infine si concluse in giugno con la vittoria del nono Scudetto… e in mezzo a tutto questo metteteci pure una finale di Coppa Italia (persa contro l’eterna nemica Juventus) e il quadro è completo: altro che triplete… credo che qualunque tifoso farebbe tranquillamente cambio tra una (pur bella) Coppa Italia e una Intercontinentale, che nella sostanza dovrebbe essere il massimo traguardo nel Calcio per una squadra di club (in pratica l’equivalente della Coppa del Mondo per Nazioni).

Tornando al buon Armando Picchi, livornese purosangue (non a caso a lui è intitolato lo stadio della città labronica, sito nel quartiere Ardenza) è stato senza alcun dubbio uno dei difensori più forti di tutti i tempi, capace nella sua carriera di vincere – con i colori nerazzurri della Grande Inter di cui sopra – qualcosa come 3 Scudetti (stagioni 62-63, 64-65 e 65-66, quello della Stella), due Coppe dei Campioni consecutive (63-64 e 64-65) e due Coppe Intercontinentali pure consecutive (’64 e ’65)… un bottino incredibile, non c’è che dire. Di quella fortissima Inter, il grande Armando Picchi fu capitano («Non era il capitano perché la società gli aveva dato la fascia, era il capitano perché era il nostro punto di riferimento» come ebbe a dire un altro grande calciatore nerazzurro, Sandro Mazzola) e libero. Agli inizi della sua carriera aveva cominciato a giocare come terzino destro, ma da quando era giunto a Milano – da Ferrara in cui militava nella SPAL – alla corte del Mago Herrera, era stato spostato a difensore centrale, quello che per anni, ai tempi della marcatura ad uomo si sarebbe chiamato per l’appunto libero, l’ultimo baluardo della difesa che gli attaccanti avversari dovevano superare se volevano ritrovarsi a tu per tu col portiere, ruolo di cui il nostro divenne forse il più grande interprete italiano di tutti i tempi, insieme al pure compianto Scirea.

L’esordio di Picchi nel Calcio professionistico avvenne nella sua città, Livorno, nella stagione 54-55 e con la squadra amaranto disputò prevalentemente campionati di Serie C con una breve puntata (un solo anno) tra i cadetti. Con la maglia del Livorno totalizzò 105 gare e quindi passò – per una sola stagione, 59-60 – alla SPAL, fortemente voluto dal presidentissimo Mazza, che anche grazie alle sue giocate si piazzò al quinto posto in classifica nel massimo campionato: e questo resta il traguardo più prestigioso raggiunto nella sua storia dal club estense. Fu quindi la volta dell’Inter che lo volle tra le proprie fila e che – nella persona del presidente Angelo Moratti (papà di Massimo, colui che avrebbe rinverdito i fasti nerazzurri negli Anni ’90 e Duemila) – sborsò per averlo la cifra di 24 milioni di lire, che all’epoca rappresentavano una bella somma.

Già detto di tutto ciò che Picchi riuscì a conquistare, in termini di trofei, durante le sette stagioni all’ombra della Madunina, finché, giunto all’età di 32 anni – quando la sua stella di calciatore cominciava ad offuscarsi – fatalmente entrò in polemica ed infine in conflitto con l’allenatore Helenio Herrera, soprattutto a causa della ferrea disciplina imposta da quest’ultimo ai propri calciatori, tanto che il Mago argentino arrivò a dire al presidente Moratti che qualora non fosse andato via Picchi dall’Inter, sarebbe andato via lui… finì con Picchi ceduto al Varese, sempre in Serie A, con cui disputò due stagioni (67-68 e 68-69), la seconda nella duplice veste di allenatore-calciatore e dove concluse la propria straordinaria carriera in campo. Nei due anni lontano da Milano, da buon toscano, Picchi non si lasciò sfuggire l’occasione di rispondere per le rime ad Herrera che – in maniera forse troppo irriconoscente – l’aveva allontanato dalla Beneamata (presso cui Picchi totalizzò l’invidiabile traguardo delle 257 presenze) e dal Grande Calcio («se l’Inter deve qualcosa al “Mago”, quanto deve il “Mago” a noi giocatori?!… molto, forse moltissimo»).

Un capitolo a parte – purtroppo non altrettanto fortunato come per le squadre di club – lo merita la presenza di Picchi in Nazionale. Durante la gestione azzurra del tecnico romagnolo Edmondo Fabbri, Picchi – pur facendo sfracelli con la sua Inter – non ebbe modo di essere convocato perché considerato troppo “difensivista”; le cose cambiarono radicalmente con la gestione del coach triestino Ferruccio Valcareggi – che portò la nostra Nazionale sul tetto d’Europa nel nostrano Europeo del 1968 – che lo convocò per tutti i match di qualificazione a quel torneo. Proprio durante una di quelle partite, Italia-Bulgaria del 6 aprile ’68 disputata nella capitale Sofia, Armando Picchi subì un gravissimo infortunio, il più brutto della sua carriera, riportando la frattura del bacino e dicendo addio (dopo sole 12 presenze) alla propria carriera azzurra… un vero peccato! Una roccia, una diga insormontabile quale era Picchi come ultimo difensore, avrebbe fatto assai comodo all’Italia nel Mondiale di Messico ’70 (quando la nostra Nazionale sfiorò l’impresa arrendendosi soltanto in finale contro il Brasile) quello che sarebbe passato alla storia per la leggendaria semifinale Italia-Germania 4-3.

Dismessi i panni di calciatore ed attaccate le scarpette al chiodo, fu per Picchi la volta della carriera da allenatore che purtroppo fu assai breve e inevitabilmente segnata dalla crudeltà del destino. Come visto sedette sulla panca del Varese nel doppio ruolo di calciatore-allenatore, non riuscendo tuttavia a salvare la squadra lombarda che retrocesse in Serie B. Fu quindi chiamato – stagione 69-70 – in riva al Tirreno, nella sua Livorno che stava disputando un difficile campionato in cadetteria, stazionando nelle ultime posizioni della graduatoria; Armando Picchi riuscì a traghettare la squadra amaranto fuori dalle sabbie mobili della classifica e portò i labronici a chiudere quel torneo al nono posto.

Il suo modo di allenare, carismatico quanto intelligente, ricco di personalità, non passò inosservato e il grande campione livornese fu addirittura chiamato, l’anno seguente, ad allenare la Juventus del presidente Boniperti che ebbe a dire di lui – dopo la prematura e tragica scomparsa – che sarebbe sicuramente diventato uno dei migliori allenatori italiani. Era una Juventus giovane e sbarazzina quella che si ritrovò Picchi fra le mani, nel difficile ruolo di “chioccia” attorno a cui far crescere e maturare alcuni di quelli che sarebbero stati tra i futuri campioni bianconeri e che avrebbero fatto le fortune della Vecchia Signora lungo tutti gli Anni ’70 e oltre: i vari Bettega, Causio e Capello. Proprio da quest’ultimo, Picchi – già malato ma senza che il calciatore lo sapesse – venne pesantemente criticato pubblicamente, scatenando le ire della società torinese che voleva punirlo in maniera esemplare, senonché fu proprio il buon Picchi in persona a smorzare i toni e a gettare acqua sul fuoco, mitigando la diatriba che si risolse con una semplice multa affibbiata a Capello. Episodio, quest’ultimo, che la dice lunga su chi fosse questo immenso campione, in campo e fuori, e di quali fossero i suoi valori e la sua nobiltà d’animo. Purtroppo di quella Juve che avrebbe chiuso al quarto posto in campionato e che sarebbe stata finalista di Coppa delle Fiere (la progenitrice dell’attuale Coppa UEFA/Europa League), Armando Picchi non potette goderne i frutti.

Nel febbraio del ’71, in pieno svolgimento di campionato e Coppe, il tecnico livornese cominciò ad accusare dei fortissimi dolori alla schiena, che divennero ben presto sempre più lancinanti. Sottoposto a svariati esami che facessero luce sulla natura dell’oscuro male che lo affliggeva – e su cui i vari medici che lo ebbero in cura non parvero capirci granché – le sue condizioni andarono sempre più peggiorando, tanto da costringerlo a lasciare il posto da allenatore della Juventus che fu preso dal tecnico ceco Vycpálek (già calciatore di Juve, Palermo e Parma).

Si cominciò a parlare, per Picchi, di male incurabile, d’un cancro alla spina dorsale (forse legato anche al tremendo infortunio subìto al bacino pochi anni prima) finché, tra dolori sempre più forti ed atroci sofferenze, il grande campione livornese si spense circondato dalle cure e dall’affetto dei suoi cari nella Città dei Fiori, Sanremo, dove era stato condotto – in una villa nell’entroterra, tra i pini, messa a disposizione da un generoso commerciante torinese – per trascorrere in maggiore serenità (si fa per dire) gli ultimi giorni della sua vita. Era il 26 maggio del 1971 e Armando Picchi non aveva ancora compiuto 36 anni.

La funesta notizia, divulgata non immediatamente ma soltanto l’indomani (pare per non turbare i calciatori juventini impegnati proprio quel giorno nel difficile match d’andata della finale di Coppa delle Fiere contro gli inglesi del Leeds United) calò come un nero sudario sul Calcio di casa nostra e fece ben presto il giro del mondo, destando grandi incredulità e clamore. I funerali si svolsero nella sua Livorno, con l’intera città che si fermò per rendere omaggio alle spoglie mortali del suo grandissimo e sfortunatissimo campione.

Di lui resta molto: la classe e la tenacia d’un calciatore granitico e fortissimo, capace di trascinare le compagini che ebbero l’onore di averlo nelle proprie fila verso importanti traguardi. E di lui resta la bravura e l’intelligenza tattica d’un allenatore che fu, nella parte di stagione in cui guidò la Juventus, il tecnico più giovane dell’intera Serie A. E di lui resta anche la grande classe come uomo e la grande professionalità applicata a tutto ciò che faceva, sempre.

Le immagini più belle di Armando Picchi, comunque, rimarranno per sempre quelle legate alla sua Grande Inter, allorquando la squadra nerazzurra costruì il proprio mito a suon di Scudetti, Coppe dei Campioni ed Intercontinentali, una compagine infarcita di talentuosissimi calciatori, partita dal basso e capace di conquistare le vette calcistiche d’Europa e del mondo. E Armando Picchi che scendeva, insieme ai suoi compagni, dall’aereo che riportava l’Inter a Milano e che mostrava, da capitano, al suo popolo in adorante tripudio il trofeo continentale o intercontinentale appena conquistato… Un vero uomo, un grandissimo campione, una indimenticabile e sfortunata leggenda tutta italiana.

Luca “Baffo” Gigli.