“Quei giorni perduti a rincorrere il vento…”, cantava Fabrizio De André. Di tempo per rincorrere un soffio di libeccio ce n’è stato e, nel nostro inconscio, ce ne sarà sempre. Perché quando un’anima è modulata per non fermarsi su una sola idea, su dei concetti stantii o su delle posizioni bieche e colme di cecità, fa presto ad involarsi altrove. Pur mantenendo il proprio spirito, i propri affetti e la propria natura. Mi sono chiesto fin dal primo minuto se questo Torino-Roma fosse affare per me. Se ancora ne valesse la pena mettersi in viaggio, sprecare energie, barattare ore di sonno con un viale che man mano ti avvicina a uno stadio, con i tifosi che lentamente si incamminano con i loro riti mentre il resto della città sonnecchia, si sveglia e si rilassa in una delle ultime domeniche di questa estate. Occorre sempre avere dei dubbi su ciò che si fa. Non vuol dire essere insicuri, ma controllare se si è ancora sulla retta via. O se si agisce per partito preso, per abitudine, per routine. Il giorno che me ne renderò conto dirò addio a queste giornate, ma ora è ancora il tempo. Seppure distorto, seppure cambiato, seppure alterato dai giri di lancette che hanno mutato inesorabilmente tanti scenari. Forse è un attacco nonsense il mio, ma è quanto dovevo alla riflessione machiavellica fatta su uno sporco autobus di Roma, che mi porta alla volta della stazione Tiburtina. Per partire. Sì, fugato ogni dubbio.
A Torino si va. C’è il Comunale da vedere, c’è ancora qualcosa da raccontare e, perché no, lo devo alla mia gente. Quella che oggi mi troverò dall’altra parte delle gradinate, e che spesso, a tastare il polso dell’ambiente, viene considerata quasi un corpo estraneo. Ormai troppo differente nel ragionare, troppo diversa. Troppo vecchia, troppo sporca, troppo cattiva. Troppo romanista? Chissà. La mia gente è quella che si è messa in viaggio quando il sole doveva ancora sorgere, è quella con i panini, le birre, gli amari e la speranza di lasciarsi alle spalle il Piemonte con tre punti in tasca e l’orgoglio di aver rappresentato ciò che per loro la Roma rappresenta. Loro ci sarebbero ovunque. Sempre, anche e soprattutto se le cose vanno male. La mia gente è quella spesso tradita e vilipesa da chi non la capisce, da chi la schernisce e da chi l’ha confinata a priori.
Torino mi regala una giornata climaticamente magnifica. I raggi del sole baciano il Po, trasformando le sue torbide acque in uno specchio dorato. “Lungo le sponde del mio torrente, voglio che scendano i lucci argentati, non più i cadaveri dei soldati, portati in braccio dalla corrente…”, solfeggiava sempre quel Fabrizio nato sotto la Lanterna. I cadaveri, nel kafkiano mondo del pallone, potrebbero essere i tifosi e il loro modus vivendi. I lucci, secondo noi, che ancora riusciamo a unire degli stralci di poesia a questo mondo, sono quelli che sperano, sognano, bestemmiano, gioiscono e piangono per un bene forse effimero, ma infinitamente colmo di significato e spinta propulsiva. Dal Parco del Valentino al Comunale (mi si perdoni la definizione desueta, ma come dissi in passato, non posso considerare alcun Olimpico al di fuori di quello sito in Viale dei Gladiatori, mia accogliente e calda casa per tanti anni) il passo sarebbe lunghetto. Ma è breve, perché disseminato di significati e simboli. Di quella Torino granata che vive e respira calcio. Pure se sull’altra sponda del Po c’è il colosso per eccellenza. È una questione endemicamente sociale, ma lo scorso anno già ne feci cenno. Così è inutile starsi a ripetere quanto profumi di calcio, tifo, ultras, cori e genuinità incrociare Via Filadelfia, percorrendo Corso Unione Sovietica.
No, non ci sono arrivato a caso. Chi è nato all’ombra della Mole sa che partendo dal centro avrei dovuto svoltar prima per raggiungere la biglietteria. Ma preferisco allungare. Per ricordarmi, di fronte alle gabbie formate dai prefiltraggi e ai plotoni di carabinieri posti in ogni dove, che un Piccolo Mondo Antico non esiste soltanto nei romanzi di Fogazzaro, ma anche sotto un campo di calcio. Là c’è il cuore del Toro, là c’è il nostro cuore. Perché se il football non è uno sport qualunque, tanto lo dobbiamo anche a questa città. Mia nemica giurata, calcisticamente. Mia fedele alleata nell’immaginare le maglie contrastanti delle sue due squadre cittadine, scendere in campo a Casale, Vercelli, Alessandria, Novara e sentire forte il richiamo della folla avvelenata. I primordi della palla di cuoio.
Scusate la divagazione e le citazioni ripetute, ma anche qui, tanto dovevo. Per convincermi che ancora ne vale la pena. Capite? Io sono arrivato a Via Filadelfia per avere una conferma. Per sapere che ancora provo emozioni per tutto questo e per ricordarmi le foto dei Torino-Roma con cui sono cresciuto. Il Commando, gli Ultras Granata ma anche la mia prima volta da tifoso ospite e pure le ultime sfide. Perché poi un discreto narratore non può vivere soltanto di passato, e deve strizzare quanto meno l’occhio al presente. Da giovani viviamo proiettati verso il futuro, da vecchia finiamo per vivere di ricordi. E non viviamo mai la contemporaneità, è questo forse il male che ci affligge. Bisognerebbe farsi meno domande, forse. Bisognerebbe correre di meno e camminare di più, osservando ciò che ci circonda e ciò che di bello resta pure oggi. In una società di macerie, spesso infiammate appositamente per dividere e scomporre quanto di buono rimane alla nostra gioventù.
Davanti alla Curva Maratona tanti tifosi sorseggiano birre e mangiucchiano panini. Osservo curioso la Torre Maratona, ultimo simbolo tangibile del vecchio stadio Comunale. Sono le 11.30. La sfida, in ossequio alle televisioni, si giocherà alle 12,30. Abbiamo accettato anche questo, con proteste davvero irrisorie e impalpabili. Inutile quindi star qui a filosofeggiare su quanto ciò faccia schifo e sia avverso al modello calcistico che bramiamo e idealmente perseguiamo. Io stesso sono un ingranaggio di questo sistema ormai in cancrena, e oggi, trovandomi agli ingressi dello stadio, contribuisco a dargli forza. Inutile negarlo. Certo, mentalmente non mi abituerò mai ai controlli da lager (anche se tutto sommato da queste parti sono ancora nel limite della decenza), ma se qualcuno nega che tutti noi siamo scesi a compromessi umilianti e pretestuosi per assistere a una partita di calcio, dice semplicemente il falso. Questo per chiarire e ritornare bruscamente alla realtà dei fatti. Perché ci piace da morire vedere la foto di Geppo mentre si districa negli incidenti con i dirimpettai ai tempi che furono, ma bisogna sempre tenere a bada gli istinti romanzeschi per ricordarsi dove si vive e cosa si fa oggi. Noi (inteso come movimento) siamo custodi di una cultura, di una tradizione e di una storia che in questo Paese meriterebbe forse più spazio e attenzione, per quello che a livello sociale significa, ma spesso tendiamo a rimanere attaccati alle vesti di un passato che per ovvie ragioni non potrà mai più tornare. E questo ci fa perdere di vista il cambiamento, anche e soprattutto quello triste. Non voglio esser catastrofista, ma realista.
Il popolo granata risponde presente. Caso vuole che nel giro di una settimana abbia visitato due tra i pochi stadi che ancora fanno registrare discreti numeri: Torino e Firenze. Non è un caso, probabilmente, che tra le due tifoserie esista uno storico gemellaggio. Storie che spesso si intrecciano e un orgoglio che ancora esiste e persiste. E da queste parti, ovviamente, nessun Questore kapò ha scelto di svuotare le gradinate, a nessuno è venuto in mente di annientare totalmente il tifo. Seppure gli anni belli dei megafoni, dei tamburi e delle torce siano ormai relegati nell’archivio della memoria. Quello dei gemellaggi è un affare tutto italiano, checché ne possano dire Oltralpe. Siamo profondamente strani noi, ammettiamolo. Ci odiamo, poi ci amiamo, poi ci odiamo e poi… ci amiamo, per parafrasare Mina. Granata un tempo fratelli sanguigni dei laziali, romanisti legati agli juventini e, ancor prima, ai viola. Poi è divenuto quasi un tutti contro tutti. E francamente, pensandoci, sono giunto alla conclusione che questo è un sintomo di quanto le nostre grandi città siano cambiate, in peggio. Non perché siano deleterie le rivalità, tutt’altro, ma perché ormai lo status mentale del cittadino metropolitano è difficilmente aperto allo scambio con altre entità urbane. E questa è una perdita grave per un posto variegato e socialmente ricco come l’Italia.
Come un flash mi passano di fronte alcuni Torino-Roma. Ma prima ancora quel Torino-Juventus 82/83. Dossena, Bonesso, Torrisi. Dal 0-2 a 3-2, una rimonta rimasta negli annali dei tifosi granata, ma anche in quelli dei tifosi romanisti. Quel giorno gli uomini di Liedholm erano impegnati a Firenze, dove non andarono oltre il 2-2. Tutto lo stadio seguì in trepidazione le notizie che arrivavano dal Comunale. Esultando. Chi in chiave anti-juventina, chi soprattutto per il fattore sportivo. La Roma a fine stagione sarà Campione d’Italia. E quella, in un campionato che assegnava 2 punti a vittoria, sarà una delle giornate fondamentali. Le immagini della Maratona che “crolla” letteralmente alle reti sarà uno dei miei leitmotiv prima di vedere con i miei occhi i tifosi di casa.
Che dire? Torniamo all’attualità. Parliamo di uno stadio che oggi mi è piaciuto, molto più dello scorso anno. Forse anche grazie al risultato maturato in campo, ma forse anche grazie ad alcune scelte azzeccate. In primis da parte della Maratona, che mi ha dato una maggiore impressione di compattezza e continuità. Potenti i cori a rispondere e massicce le esultanze. Elogio merita anche il gruppo posto nella Curva Primavera. Trovandosi vicino al settore ospiti, rinfocola spesso lo scambio di invettive con i giallorossi e durante la partita si mette in mostra con un bel tifo, in grado spesso di portarsi dietro anche il resto della curva. Il fatto di avere due entità ultras nelle rispettive curve, comporta anche un maggior seguito rumoroso da parte delle tribuna. Ricordo bene quanto, a tal merito, i tamburi in questo stadio facessero la differenza. E so bene quanto oggi, in curve così grandi, sia davvero complicato coordinare il tifo facendo cantare la maggior parte dei presenti. Parto sempre da questo presupposto quando giudico una tifoseria di Serie A.
Per quanto riguarda gli ospiti, la risposta è più che buona. Certamente l’orario delle 12.30 ha permesso un maggior flusso di tifosi, tranquillizzati dal fatto di poter tornare entro le Mura Aureliane in un comodo orario serale. I due anelli del settore sono quasi esauriti, e come spesso avviene in questo stadio, il tifo si mantiene su ottimi livelli per quasi tutta la partita. Da annotare un leggero calo dopo il gol del 3-1, tuttavia il sostegno dei capitolini si contraddistingue sempre per le solite manate e per un discreto colore apportato da stendardi e bandierine. Non mancano le offese con i dirimpettai.
Al triplice fischio il popolo granata esulta fragorosamente. Dopo ben 26 anni il tabù Roma è caduto, confermando la bontà di questa squadra condotta da Mihajlovic. Da spettatore neutrale dico, e mi auguro, che per il Torino sia arrivato il momento di fare quel salto in grado di riportarlo costantemente nella parte medio-alta della classifica. Il nostro pallone, infestato da sodalizi approssimativi, senza tifosi, senza stadio e senza storia, hanno un disperato bisogno che club così intrisi di cultura calcistica tornino a calcare scene importanti. Di contro c’è una Roma sportivamente confusa e brutta. Non è un’esagerazione dire che l’unico contingente capitolino giunto oggi in terra sabauda sia quello della Curva Sud. Peccato che, come spesso avviene, salvo un paio di elementi, la squadra si disinteressi totalmente a loro. Non degnandoli nemmeno di un saluto. Chissà, forse per chi è abituato ad avere come maggiore problema nella vita il taglio di capelli o il posto dove andare in vacanza, è scontato che ragazzi spesso senza lavoro o squattrinati si sobbarchino un viaggio lungo quasi 1.400 chilometri tra andata e ritorno. Ma risulterei noioso nel proseguire questa lamentela, prendiamo atto anche di ciò. E non da oggi.
Ora bando alle ciance. Debbo fuggire. Destinazione stazione di Torino Lingotto, per raggiungere Alessandria. È un’altra storia, ma mi fa piacere concludere la giornata torinese proprio qua. In tanti, tra i tifosi, avranno dei ricordi legati a questo scalo ferroviario, dove in passato le forze dell’ordine erano solite far arrivare i treni speciali per poi convogliare i supporter verso lo stadio. Siamo a due passi da Mirafiori, e Lingotto stessa fu, a inizio secolo, il cuore pulsante degli stabilimenti Fiat. C’è sempre una storia da raccontare, e quando viaggi sui treni notte e arrivi nelle città avversarie, anche quello che non ha concluso la quinta elementare puoi star sicuro che te la sa recitare a menadito. In fondo ciò che rende il calcio unico è proprio questo.
Simone Meloni.