Di recente mi è capitato di voltarmi idealmente indietro. E cercare di vedere la strada percorsa, i bivi in cui avevo svoltato e, se possibile, scardinare la linea dell’orizzonte per avere un ricordo chiaro, se non della partenza, almeno di un punto posto parecchi chilometri prima. Non mi sono ricreduto, né rallegrato. Perché la strada, più si è fatta in avanti e più è diventata stretta, insipida, irta di ostacoli e poco piacevole. Parliamo della strada “sportiva”, quella che mi ha accompagnato al fianco, e spesso all’interno, del calcio e degli sport in generale. Ma potrebbe essere un parallelismo valido anche per la mia vita, qualora foste amanti del gossip.

Ragionavo, mentre la metropolitana si trascinava lentamente verso Ottaviano, su cosa mi spingesse ancora verso l’Olimpico. “Nulla fondamentalmente”, mi sono risposto. “Se non la voglia di documentare questo schifo, perché con il passare del tempo sembra che in tanti se ne stiano scordando”. Ho aggiunto. Le due curve assenti per scelta e la militarizzazione rabbrividente e spettrale che avvolge Roma, e non solo lo stadio Olimpico. È vero, mi avvicino con la morte nel cuore allo stadio. E non è solo un fatto di ambiente. Si sono avvicendate troppe faccende, troppi mutamenti e troppe novità per non pensare che quella maglia rossa pompeiana con dei lembi giallo ocra, abbia perso tanto del suo significato in me e in tanti che come me l’avevano adorata più delle loro madri. Intanto, sicuramente, ha perso il colore. Addirittura trasformato in azzurro, nelle maglie di allenamento. Un qualcosa di aberrante e impensabile per chi, da piccolo, vedeva nei colori degli avversari di sempre tutto ciò che non doveva neanche minimamente lambire il proprio club.

Lo scrissi. Un paio di anni fa. Roma-Verona fu la mia prima partita all’Olimpico. Era il 1996. Esattamente venti anni fa. Me ne rendo conto solo mentre scrivo. Non sto qua a sottolineare quanto è cambiato. Perché ci vorrebbe un articolo intero e perché sarebbe per forza di cose ridondante. Però devo dire che passo dopo passo, vedere steward, camionette, unità cinofile, metal detector e avvertire il clima di caccia alle streghe ormai costante, mi fa un certo effetto nel rammentare quella bella giornata di sole e quel viale in cui correvo mano nella mano con papà. Il calcio, e ciò che lo circonda, è morto a questi livelli. Ma il problema fondamentale è che, spesse volte, la mente dei tifosi è morta. Occlusa dalle tantissime dabbenaggini che sembrano impedire anche il più facile dei ragionamenti.

Una partita che vede il ritorno di un’icona della Roma degli ultimi venti anni, come Spalletti, un tempo avrebbe avuto ben altro scenario. Eppure, dai commenti Facebook e dai discorsi di alcuni saccenti non frequentatori di gradinate, ho scoperto recentemente che la Curva Sud non entra per interesse. C’è chi dice che i curvaioli siano dalla parte del “palazzinaro” Caltagirone, che a sua volta è contrario alla costruzione dello stadio di proprietà di Pallotta. Poi c’è chi dice che i tifosi della Sud protestino perché non prendono più le “stecche” dalla società. E via dicendo. Certo che, questa società, se così fosse, deve proprio aver orchestrato una collaborazione impareggiabile con gli occupanti della curva, considerando che costoro hanno speso oltre 400 Euro tra abbonamenti di campionato e Champions per rimanere fuori e buttare letteralmente all’aria quello che per molti è uno stipendio.

Sai che è? Io manco mi sento di sparare a zero su questi giudici dell’acqua calda. Sì perché in un’era che va sempre più uccidendo e demonizzando i principi di solidarietà e difesa civile dei propri diritti basilari, non si può pretendere che capiscano una cosa molto semplice: i ragazzi della Sud non entrano perché non è possibile fare tifo. E non solo per le barriere. Ma anche e soprattutto per le Forche Caudine che bisogna passare per entrare in un luogo pubblico. Ti dicono: “Embè, pure in Monte Mario fanno questo genere di controlli”, posto che non è assolutamente vero (e posso testimoniare personalmente), il problema non è certo risolto perché applicato a tutto lo stadio.

Sta di fatto che il silenzio imbarazzante dei 25.000 di Roma-Verona è un colpo al cuore ancor più grande di altre volte. Sulla panchina c’è Spalletti e con lui mi riviene in mente una trasferta a Treviso, nell’unico anno di Serie A dei veneti. Al ritorno sul treno, ovviamente tutti senza regolare biglietto, un controllore richiamò sul convoglio un ragazzetto sceso per bere alla stazione di Preganziol, dicendogli: “Se non risali il primo treno ripassa domattina alle 6 qui!”. Non ha senso raccontarlo, ma ha senso ripensarci. Perché mi fa una tristezza infinita, ora, vedere la pelata di Lucianone Nazionale riflettere il vuoto della Sud e il silenzio che ha preso possesso in quella che fu la mia casa. La nostra casa. Quando ci abbracciavamo senza troppi divieti (qualcuno già c’era, ma li sopportavamo).

È cambiato troppo e tutto in fretta. Quel senso di appartenenza alla Roma, quello profuso e infuso da Dino Viola, di cui questa settimana cade il venticinquennale della scomparsa, è andato man mano scemando. Caduto prima sotto i colpi del calcio industria, poi sotto quelli di società che hanno saputo sempre meno capire cosa voleva dire. È difficile identificarsi in una squadra come abbiamo fatto da piccoli. E non lo dico per retorica, ma perché ahimè lo penso profondamente. Cosa ci dovrebbe far innamorare? Ogni passo che si è fatto è andato contro il volere di quello spirito di appartenenza. uno spirito ormai inviso, poi, alle istituzioni. Per i quali è divenuto persino un atteggiamento delinquenziale.

Spalletti ci ha provato in settimana, a richiamare a raccolta il popolo della Sud. Forse non ha ancora capito bene, o non gli è stato raccontato dettagliatamente, il motivo per il quale i ragazzi con i loro bandieroni e i loro striscioni si stanno rifiutando di metter piede su quei seggiolini. La cosa grave è che sembrano non averlo ancora capito la maggior parte dei media e dei tifosi. Che oltre a sparar fango sulla protesta e a scervellarsi per inventare chissà quali congiure volte a incanalare i propri interessi in un torbido tunnel segreto, calcano la mano asserendo quasi con convinzione sul fatto che con l’eventuale ritorno dei risultati tornerà anche il tifo. Non si capisce proprio la ragione basilare del boicottaggio e quanto esso sia più importante di un risultato sportivo. Ed è grave, soprattutto quando parliamo di organi di stampa, che dovrebbero sempre fare un minimo di analisi sociale e antropologica invece di ascoltare solo e soltanto la voce di chi li finanzia o la voce di chi crea opinione pubblica in maniera errata (che poi sono i primi).

“Ci vediamo in trasferta”, hanno scritto i ragazzi di curva al Mister. Perché una casa non ce l’hanno più. Né loro, né i laziali. Per una volta i nemici storici sono accomunati da un problema ben più grande e intricato. Mentre il guano degli uccelli insozza Roma, ma nessuno sembra rendersene conto (in fondo Marino non c’è più, con Tronca e Gabrielli tutto diventa più bello e giusto) lascio lentamente l’Olimpico, nella morsa di un freddo vento. Ancor più fredda è la sensazione che avverto al termine dei 90′. Con la morte nel cuore e la triste consapevolezza di vivere in uno dei momenti più anonimi e infami di questa città e probabilmente di questo Paese.

Ah, appendice: menomale che c’è l’Osservatorio a ricordare che Roma è la città con più daspati nell’ultimo anno. Era necessario pubblicarlo nero su bianco. Ovviamente senza spiegare il motivo delle diffide, senza evidenziare se le persone colpite siano state successivamente assolte o meno (pur avendo scontato l’interdizione, come costume del nostro anticostituzionale Stato) e senza dare ulteriori o dettagliate spiegazioni su come questi Daspo vengano emessi. L’importante è generare tensione, reprimere e poi giustificare il tutto con freddi dati su cui nessuno ha voglia e competenza di approfondire. Del resto, se questo non fosse possibile non saremmo ridotti a vivere in un quotidiano teatrino dove la menzogna è la principale attrice, pronta ad ammaliare e stritolare tutto e tutti senza preavviso. Perché, in fondo, talmente siamo rintontiti e storditi, a nessuno importa indagare sulla verità delle cose.

Testo di Simone Meloni.

Foto di Cinzia Lmr e Pablo Oronzoni