È una partita con una gestazione lunghissima. Quasi quanto questa cronaca posteriore del suo pigro estensore. Ma in fondo tutti quegli incontri che contrappongono squadre e tifoserie raccolte su un fazzoletto di terra strettissimo, non possono che giocarsi lungamente prima e dopo i canonici novanta minuti. Anzi, spesso è una sfida che si consuma lungo tutto l’anno, per anni e anni, anche quando le due compagini giocano in categorie completamente diverse.

Percorro quotidianamente la via Emilia per lavoro e per tutta la settimana uno striscione, richiamo della Est allo stadio per tutta la città, accompagna il mio lento avvicinarmi a questa giornata. C’è attesa nell’aria è evidente. E quando ripercorro la stessa strada con un paio di ore di anticipo sul calcio d’inizio, la trovo letteralmente murata ad ogni rotonda, ad ogni incrocio puntellato di blindati della Celere, Polizia Municipale, Carabinieri, Guardia di Finanza e qualsiasi corpo armato posto a scongiurare contatti, in cui bianconeri e biancorossi non si sono mai risparmiati. Dal confine fra Savignano sul Rubicone e Santarcangelo di Romagna, dove più promiscua diventa la presenza di entrambe le tifoserie, tanto più fitta diventa la maglia dei controlli. Anche una volta giunto, non con qualche difficoltà di traffico e parcheggio, nei pressi del “Romeo Neri”, mi accorgo che ugualmente esili sono i margini di movimento. Qualcuno lo si nota lo stesso passeggiare disinvolto alla ricerca di opportunità. La cronaca ufficiale non riporta alcunché, qualcosa emerge invece dalle voci del sottosuolo, poi come si suol solitamente dire “chi c’era sa”.

Torno al derby fra Rimini e Cesena per questioni di cuore, se così si può dire, cit. Non solo per la presenza in città dell’elvetico vecchio amico Remo, ma anche perché queste due squadre rappresentano tanto nel mio personale vissuto di emigrante in Romagna. Quando nel 2005 mi ero trasferito a Rimini per motivi di lavoro, con la militanza ultras che pian piano stava declinando verso lo scioglimento del mio gruppo sopraggiunto poi nel 2006, proprio un derby fra le due compagini in questione fu il mio lenitivo, le mie due gocce d’eroina per addormentarmi il cuore come diceva Fabrizio De André in “Sally”. Nell’album “Rimini” non a caso. Rimettermi macchina fotografica in spalla e tornare a scattare in campo, come facevo da quattordicenne che voleva ritagliarsi il suo spazio in Curva, fu un modo come l’altro per non pensare, per eludere questa sottospecie di saudade.

Come andò? Fu terribile! Per passare dagli spalti al tartan per fotografarli bisogna percorrere la stessa siderale distanza che c’è fra – se permettete una metafora poco poetica – fare sesso e guardare un film porno. Mi sentii completamente fuori contesto, mi ripromisi di non mettere più piede in uno stadio ma eccomi ancora qui, dalla stessa identica prospettiva quasi vent’anni dopo. A disattendere le mie promesse, a crogiolarmi nelle stesse identiche malattie come fa ancora e meglio di me qualsiasi ultras. A ripensarci con il sennò di poi, quella fu una sfida se non epica quanto meno di altissimo livello: il movimento italiano aveva già da qualche anno imboccato una certa deriva causata dalla forte repressione e da un calcio sempre più commercializzato, in cui il tifo organizzato era visto come un ostacolo e per questo sempre più osteggiato, eppure sull’onda lunga del periodo d’oro gli ultras nostrani davano ancora spettacolo.

Difficile oggi rivedere un derby come quello che si giocò allora in Serie B. Tanto è cambiato da allora ma guardando in controluce la realtà, ci si accorge anche che tante cose sono allo stesso tempo rimaste immutate. Nonostante le leggi sempre più liberticide, nonostante uno sport che è sempre più evento consumistico e che corrode tutti gli ultimi spazi aggregativi e sociali attorno ad esso. La passione di entrambe è senza dubbio la stessa, a vedere la Curva Mare versione trasferta ci si può anche quasi illudere che il tempo si sia fermato, visto che le WSB sono ancora in sella, assieme agli Sconvolts e tante altre piccole e grandi sigle che resistono. Innegabilmente i gruppi ultras tradizionali sono in forte flessione rispetto al passato, ma questi baluardi tengono ancora viva la speranza. Una speranza non da poco, quella di pensare ad un “noi” in un periodo storico sempre più individualista e isolazionista.

Tanta invece è l’acqua passata sotto il Ponte di Tiberio o Pont de Dievli, Ponte del Diavolo secondo un’aneddotica fantastica molto comune a tanti altri ponti, non solo in Italia ma anche all’estero. Secondo la leggenda, l’imperatore romano Tiberio per riuscire a portare a termine la costruzione di questo ponte, che iniziato da Augusto trovava sempre qualche intralcio, strinse un patto con il Diavolo in persona. In cambio al Signore delle Tenebre sarebbe andata l’anima di chi per primo lo avrebbe attraversato. L’imperatore si prese però gioco di lui facendolo attraversare per primo ad un cane: come segno di buon auspicio disse ai convenuti per l’inaugurazione. La credenza diffusa voleva gli animali privi d’anima, al Diavolo non restò dunque che la rabbia con cui si scagliò contro il ponte nell’intento di buttarlo giù, senza però riuscirci. Ancora oggi sulla balaustra lato mare si vedono dei segni che, per il folklore, sarebbero delle impronte di zoccoli di capra riconducibili al Maligno sconfitto. Il Ponte fu poi bombardato durante la Seconda Guerra Mondiale, fu persino minato dai tedeschi in ritirata ma è ancora al suo posto. Così come fieramente al suo posto sono ancora gli ultras riminesi. Si sono sciolti diversi gruppi, hanno cambiato nomi e approcci, ma sono ancora là con la stessa immutata fede, con la stessa immutata convinzione di un tempo.

Per quanto vicinissime, Rimini e Cesena rappresentano due anime calcistiche molto diverse fra loro. Non c’è nemmeno bisogno di tante presentazioni sul Cesena e sui suoi tifosi. La prima Serie A con Dino Manuzzi, il presidente a cui poi è stata intitolata “La Fiorita”, la partecipazione alla Coppa Uefa del 1976-77, la presenza quasi costante in massima serie fra gli anni ’80 e ’90 grazie a suo nipote Edmeo Lugaresi. Fino all’ultima dolorosa parentesi in massima serie prima con Ivan Campedelli e poi con Giorgio Lugaresi, il figlio di Edmeo, pagata con il carissimo prezzo del fallimento dell’AC Cesena dopo 78 anni di attività. La migliore tradizione calcistica del cavalluccio marino ha di fatto attratto attorno ad esso le maggiori simpatie della sub-regione. Come dice uno dei suoi inni, dal mare alla montagna c’è letteralmente tutta la Romagna al suo seguito. E pure oltre se vogliamo, visto che la sfera di influenza bianconera si estende fino a Imola, che pur appartenendo alla Romagna storica è di fatto afferente alla città metropolitana di Bologna. Oppure anche a Pesaro, dove a ben guardare si riesce sempre a strappare qualche abbonamento. Se per assurdo fosse stato il Rimini o il Forlì o qualsiasi altra squadra di Romagna a conoscere queste glorie sportive, sarebbe forse cambiata la morfologia del tifo romagnolo? Chissà, anche se giocare a “Sliding doors” è inutile e per nulla probatorio.

Ben diversa ma non per questo meno gloriosa la storia della singolare maglia a scacchi biancorossa, che già in termini di longevità affonda le sue radici ben più lontano del 1940 in cui il conte Rognoni, Renato Piraccini e Arnaldo Pantani fondarono l’AC Cesena. Si giocava a calcio già dai primissimi anni del Novecento in Riviera ma è nel 1909 che il calcio cittadino trova ufficialmente rappresentanza nella Pro Rimini; al 1912 si fa invece risalire la genesi dell’attuale club, nella divisione calcistica della Polisportiva Libertas che poi, nel 1916 assunse indipendenza e la storica denominazione Rimini Football Club. Tanta serie C da allora e solo nel 1975-76 il primo sussulto che porta alla promozione in Serie B, proprio in corrispondenza con il miglior periodo dei cugini che giocoforza finì per costituirne un cono d’ombra. Un po’ di B e ancora tanta e tanta C fino all’avvento sul massimo soglio societario di Vincenzo Bellavista, patron della Cocif, azienda di infissi che forse gli amanti del calcio retrò ricorderanno sulle maglie dell’Ascoli di Costantino Rozzi. Il passo lungo da sponsor a primo dirigente di una squadra di calcio dimostrò tutto il suo acume e la sua lungimiranza, portando il Rimini dalla C2 in cui l’aveva rilevato fino alla nuova entusiasmante promozione in Serie B nel 2004-05, mettendo dietro l’Avellino e l’ingombrante Napoli di De Laurentiis.

Non è del tutto corretto dire che quello fu il periodo migliore del tifo riminese nella misura in cui anch’esso ha una tradizione altrettanto vecchia e consolidata, al pari di quella della squadra, ma senza dubbio fu uno dei momenti di sua massima espansione, in cui si arrivarono a rosicchiare vecchi feudi del tifo cesenate come per esempio Santarcangelo, da dove hanno cominciato a confluire al “Neri” importanti compagnie, sia dal punto di vista numerico che qualitativo, che nel loro piccolo hanno contribuito a scrivere la storia di questa Curva. Se si vogliono rintracciare i primi vagiti del tifo organizzato invece, bisogna risalire fino ai primi anni ’70 quando, come da copione storico, i primi giovanissimi cominciarono a staccarsi dai Club preesistenti per seguire forme, prassi e linguaggi nuovi, spesso mutuandoli dall’immaginario che andava costituendosi a partire dalle grandi metropoli, a loro volta influenzate dal fermento politico extra-parlamentare che montava nelle piazze. Dalla “Fossa della Morte” alla “Falange d’Assalto Biancorossa” il passo non fu troppo lungo in termini temporali, ma sicuramente più deciso e spavaldo nell’approccio al tifo. Da lì in poi un florilegio di gruppi continuo che ha visto passare tante piccole grandi realtà come la Linea Gotica, i Rimini Korps, poi lo Shadwell, il Gruppo Comodo, una multiforme partecipazione alle sorti del Rimini che ha gettato i semi per quella che è oggi la Curva Est Rimini, processo di maturazione a cui ha contribuito non poco anche l’esperienza dei Red White Supporters, abbattuta da un accanimento repressivo a tratti inaudito e pregiudiziale.

Oggi Rimini è una realtà in salute nonostante il sempre salato obolo in termini di diffide alla locale questura. Inutile dirlo, contribuisce anche il buon comportamento del nuovo sodalizio societario, che ha avuto qualche difficoltà di adattamento ma sta tutto sommato portando avanti coerentemente i propri progetti. Più di tutto però, in linea con quanto fece la stessa precedente società, il merito più grande è quello di aver insistito su una politica di prezzi degli abbonamenti più che popolari. Certo gli ultras a Rimini ci sono sempre stati, tenendo dritta la barra anche nel periodo più nero, fra uno scioglimento e un fallimento, ma poterci essere e al contempo contare su un buon bacino di giovani invogliati ad andare allo stadio da prezzi accessibili, permette loro di coltivare i propri ideali e di trasmetterli appunto alle giovani leve. Se i soloni de “la pirateria uccide il calcio” si concentrassero su questo banale assioma, il nostro sport conoscerebbe facilmente una nuova primavera: riportare gente e con essa passione negli stadi parte da un sempre più imprescindibile taglio dei prezzi al botteghino.

Il suo buon periodo di forma, Rimini lo ribadisce anche in quest’occasione specifica sugli spalti: 6.396 i presenti con tutti i settori ben affollati, compreso quello riservato agli ospiti dove sono stati letteralmente bruciati in pochissimo tempo i 1.282 biglietti concessi in prevendita, anche se poi in Tribuna (“Lato Monte” come si usa dire qui, ossia in prossimità del settore ospiti) ci sono tanti altri tifosi cesenati, evidentemente residenti fuori dalla provincia di Forlì-Cesena, ai quali era vietato l’acquisto per ogni altro tagliando oltre quelli dello specifico settore. A proposito di presenze forestiere, saltano nettamente all’occhio fra i locali, appese in balaustra, una bandiera della Sambenedettese, la pezza civitanovese di Piazza Conchiglia e una con lo stemma della città di Cattolica, ovviamente riconducibile ai suoi ultras, fratelli di vecchia data dei riminesi.

“Certe luci non puoi spegnerle”, con questo striscione si presentano i padroni di casa al calcio d’inizio, puntellato da diverse torce, sia tradizionali che soprattutto a luce intermittente, che incorniciano la frase di “Urlando contro il cielo” di Ligabue. All’esterno, non perfettamente sincronizzato nei tempi, si consuma invece uno spettacolo di fuochi di artificio. Nel complesso una coreografia non particolarmente elaborata eppure particolarmente suggestiva nella cornice di una gara in notturna. Ancora più classica e se possibile ancora più semplice la scelta della Curva Mare, che si affida al solito fitto stuolo di bandiere e due aste con un paio di torce che fanno capolino fra il buio e le gambe dei convenuti.

Se da questo punto di vista è invece solitamente più carente la tifoseria di casa, questa sera compensa alla grande presentando diversi bandieroni di recente fattura, alcuni dei quali ammiccano allo stile dei tatuaggi “old school” ma fra tutti, senza dubbio il più bello è quello del granchio che domina la città. Potrebbe dire poco ai più ma è forse il più evocativo in termini di senso di appartenenza perché attinge direttamente dal Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti, il monumento forse più rappresentativo della città. Il tema ispiratore arriva da un bassorilievo quattrocentesco di Agostino di Duccio ospitato all’interno della Cappella dei Pianeti. Il granchio allude a Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, nato sotto il segno del Cancro mentre, fra gli elementi cittadini scolpiti nel marmo, si riconoscono lo stesso Ponte di Tiberio, la Rocca Malatestiana, il fiume Marecchia, il porto e una nave con le vele gonfie che prende il mare. Per la massa Rimini è quella città turistica da cartolina forse persino volgare, chi invece conosce gli ultras o dagli ultras apprende, scopre uno scrigno ricco di arte, cultura, tradizioni.

Per quanto riguarda il tifo propriamente detto, l’inizio è davvero promettente su entrambi i fronti con i minuti iniziali che sono un continuo rincorrersi di boati, cori a ripetere, cori più ritmati che tanto da una parte quanto dall’altra entusiasmano gli astanti. Ci mette però del suo il fattore campo con il Cesena che impone subito la sua maggior caratura e si porta in vantaggio già al tredicesimo minuto con Adamo. L’iniezione di fiducia è importante per le ugole dei tifosi ospiti ma si può dire che, nonostante tutto, i riminesi tengano degnamente botta, anche se si nota un progressivo distaccamento dalle sorti del sostegno delle zone più laterali della Est. Il definitivo colpo di grazia arriva prima della fine del primo tempo, quando al quarantesimo il capocannoniere del girone, Cristian Shpendi, sigilla la gara con lo 0-2 con cui poi si concluderà.

Se chiaramente quest’ultimo evento è accompagnato dalla deflagrante gioia dei bianconeri, unitamente ad una partita che verrà poi gestita in scioltezza, senza troppi altri patemi, finirà per far venir meno quella sorta di tensione che sarebbe stata utile a entrambe le tifoserie. I cesenati si siedono un po’ sugli allori e conducono una gara sugli spalti che è sempre continua ma mai particolarmente potente. Si affidano ancora una volta all’indiscutibile valore della tradizione con le solite sciarpe al cielo, sottofondo visivo degli inni classici della “Romagnolità”, alle torce e alle bandiere, senza lesinare qualche sberleffo ai loro dirimpettai. Non si può dire che abbiano fatto stropicciare gli occhi ai presenti ma non si potrebbe altrettanto dire che non hanno fatto una buona prestazione, per la quale gli va riconosciuto un onesto applauso. Sono stati da sempre, anche in tempi di magra, una delle migliori tifoserie della terza serie per numeri e qualità; con la squadra che finalmente li asseconda forse ci si aspetterebbe una progressione qualitativa paranormale e invece si confermano sui loro standard comunque importanti. Va bene così, la cadetteria la meritano tutta, si vedrà poi in quel frangente quanto saranno bravi ad alzare l’asticella.

Per quanto riguarda gli ultras riminesi invece, dopo l’inizio al fulmicotone, accusano il secondo colpo e si assestano su una prova che definirei comunque positiva, anche se è evidente una certa frustrazione di fondo nel voler fare certe cose, imporre certi cori o certi volumi ma poi trovare poca partecipazione da parte del resto della tifoseria, non così allineata alla loro stessa rabbia agonistica. Bella anche per loro la sciarpata, belle le manate. A differenza dei rivali invece, danno sfogo a diversi pensieri messi su stoffa, anche se il leitmotiv è quasi sempre lo stesso: vicinanza ai diffidati, propri e dei gemellati, e celebrazione dell’attitudine che poi a queste diffide ha portato. Essendo un derby non sarebbe stata inopportuna una dose di goliardia in più negli sfottò: nel recente passato (e anche in quello remoto) avevano sempre saputo essere più mordaci dei cugini, questa volta si è un po’ sentita la mancanza della sana ironia che, specie con un esito del campo così largamente deciso, avrebbe messo pepe alla contesa in generale e alla loro prestazione in particolare. Bene comunque così. Il bello degli ultras italiani rispetto agli automi est europei che continuano a cantare sempre, con un’indifferenza del risultato che ha del preoccupante, sta appunto proprio in questo: la squadra e quel che rappresenta non sono meri specchi per la vanità prodotta dai loro anabolizzanti, ma la cassa di risonanza delle rivendicazioni cittadine e dell’orgoglio che, quando ferito, ne risente. L’umanità è sempre più bella. E la tifoseria di Rimini è una di quelle che in tutte le sue contraddizioni e i suoi punti di forza sta facendo vedere bellissime cose negli ultimi due anni. Certe luci non puoi spegnerle, nemmeno dopo una sconfitta in un sentitissimo derby.

Testo di Matteo Falcone
Foto di Gilberto Poggi