Il ghigno di Sir Alex Ferguson – assediato dai tifosi che chiedono un selfie mentre lascia la Tribuna Monte Mario dello Stadio Olimpico – la dice lunga su quanto in questa nottata anche una leggenda del calcio mondiale abbia assaporato l’aroma primordiale del football. Quell’essenza che da bambino ti fa stare tutto il giorno per la strada dietro a un pallone, con gli occhi sognanti a percepirne ogni singolo rotolio.

Lui di rimonte se ne intende. È stato il condottiero di quei Red Devils che nel 1999 strapparono la Champions League dalle mani del Bayern Monaco in pieno recupero. Si giocava a Barcellona. Sheringham e Solskjaer divennero gli eroi del popolo mancuniano. Rispettivamente al 91′ e al 92′. Me lo ricordo bene, stavo davanti alla televisione in camera da pranzo e probabilmente fu una delle prime volte in cui capii bene quanto questo sport può darti e toglierti nel giro di una frazione di secondi.

Roma-Barcellona è stata e sarà una favola da raccontare ai posteri per intere generazioni di tifosi romanisti. Perché è così che va. Mica per niente: siamo poveri, perdenti, spesso scalognati e troppe volte drammaturghi di noi stessi. Qua non si respira l’aria sterile e austera degli squadroni del Nord e la Capitale ti sa infondere tanta energia positiva ma anche destabilizzare e indurti al facile errore. Alla dissoluzione di mesi di lavoro. Ma chi la fa sognare, chi anche per una sera si appropria dei suoi bambini accompagnandoli per le strade del Centro con una bandiera, è destinato ad avere un posto nel Valhalla giallorosso.

Far gioire è un atto di nobile impegno sociale in tempi come questi. Gli diranno che sono provinciali a festeggiare per una semifinale raggiunta. Gli diranno che non vinceranno mai nulla proprio perché non sanno tenere a bada le emozioni. E gli diranno pure che sono cafoni, patetici e boriosi. Mi chiedo però da quando siamo diventati così attenti al bon-ton, al savoir faire e a non lasciarci andare come dimostrazione di superiorità? Io sono sempre per le manifestazioni di gioia spontanee. Soprattutto se di stampo popolare. E vada a farsi benedire chi anche in queste occasioni deve parlare di mentalità ultras, tifosi occasionali e altre classificazioni che francamente hanno alquanto “sfracassato” gli zebedei.

Qualcuno non ha capito che ai romanisti (così come ad altre tifoserie di questo genere, passionali e mai vincenti) non cambierà la vita se la Champions League la vedranno alzare ad altri. Lo sanno bene, anche quelli più illusi, che uscire vincitori da una kermesse del genere è un’impresa a dir poco ardua, forse impossibile. A loro però vanno regalate queste serate. Quelle in cui gli si dimostra che sognare è possibile. Perché se al tifoso di calcio togli il sogno, anche la speranza effimera, tutto diventa inutile e grigio.

Personalmente ho sempre individuato nel Barcellona “il male” del calcio. Un club che ha contribuito a rovinare questo sport ad alti livelli e che in Spagna (assieme al Real) ha reso la Liga un monologo noioso e poco competitivo. I Messi, i Neymar all’epoca, i Piquè, altro non sono che la cartina a un tornasole per un sodalizio che ha smesso di essere una squadra di calcio da anni, diventando una vera e propria multinazionale. Nel peggior senso di questa accezione. Un pubblico finto, uno stadio-teatro che è persino anche più inanimato e mortifero di quelli inglesi e un sistema di comunicazione plagiato che trasmette h24 l’immagine del “Mes que un club”, in grado di difendere l’identità catalana e schierarsi sempre al fianco dei più deboli. Una creatura  artefatta.

Ecco, non voglio cadere nel tranello del “Davide contro Golia”, perché ormai a questi livelli di “Davide” non ce ne sono davvero più. Ma sicuramente battere quello che rappresenta il potere più becero e presuntuoso, annichilire il Barcellona venuto a Roma credendo di fare una passeggiata di salute, non può che rientrare nei dieci sogni proibiti di un tifoso di calcio.

Oltre che l’ennesima conferma di quanto il modello da perseguire non possa essere “quella roba là”. Bensì dovrebbe esserlo uno stadio come questo Olimpico, pieno e festante, che per una volta ha dimostrato di avere fame, di essere incazzato al punto giusto e di saper ritrovare, tutto d’un colpo, lo smalto dei bei tempi.

Certo, potrei dire che dovrebbe essere sempre così. Che la gente dovrebbe avere questo ardore e questa rabbia durante tutto il campionato. E anche che la passione andrebbe manifestata prima di ogni critica, di ogni polemica e di ogni momento buio. Però sarei ingeneroso, perché ci sono momenti che vanno presi per come si vedono. Senza cercare a tutti i costi il pelo nell’uovo.

Tutto è cominciato quasi per gioco. C’era la Sud imbandierata. C’era parecchia pirotecnica rispetto al solito. E c’erano anche tante bandiere in Nord. C’era uno striscione durante l’inno: “Roma is magic”; ricordava un vecchio stendardo a due aste degli anni ottanta. Ricordava un concetto nato proprio qua, quello secondo cui la propria squadra di calcio “è magica”. Tre parole messe di fila semplicemente, senza cercare nessuna anteposta filosofia ultras. Semplice cuore prestato al settore popolare e a tutta la gente di fianco.

All’1-0 di Dzeko c’è stata l’esultanza. Ma in fondo chi ci credeva? Io no, sono sincero. Un cinismo estremo mi ha pervaso a sfinimento negli ultimi anni. Credere che ormai il calcio sia sempre e comunque sport scontato mi ha giocato uno scherzo incredibile. Pure sul 2-0, il mio pensiero è stato: “Certo, la qualificazione era meno proibitiva di quanto pensassimo e si poteva giocare meglio all’andata”. In attesa di un gol del Barcellona che ero sicuro arrivasse.

E invece accanto a me c’erano altre 56.000 persone che ci credevano. Tutte ormai. Lo aspettavano. Sapevano che sarebbe arrivato il terzo gol. L’ho letto nei loro occhi. Non c’era bisogno che lo dicessero. Vent’anni di stadio (vent’anni appresso alla Roma e alla sua stravagante gente) me lo hanno insegnato. E forse in cuor mio lo immaginavo. Ma il cinismo mi consigliava di stare al mio posto, di non fare voli pindarici. Perché: “ti pare? Dai su!”.

Io non c’ero a Roma-Broendby nel 1991. Così come non c’ero a Roma-Dundee nel 1984. Non posso sapere quali boati siano stati più forti. Li posso immaginare. Posso avere nella memoria i ricordi di chi c’era. Posso sicuramente percepire la sofferenza e la gioia concentrati in un unico momento. Ma non posso fare paragone con l’esatto istante in cui il calcio d’angolo battuto da Under e proveniente dalla destra viene incrociato dalla testa di Kostas Manolas. La sfera si piega diagonalmente a batte Ter Stegen. Semedo si accascia a terra con le mani in faccia. Disperato. Il difensore greco corre all’impazzata. Lui che ha anche un po’ di sangue nostro. Quello mediterraneo. Quello di chi vive tutto con la passione e spesso senza regole.

Ora tutti sembrano trasportati in un mondo parallelo. Increduli. Qualcuno non ha neanche esultato. Altri mettono le mani nei capelli. Si arriva al 94′ in queste condizioni. Con il Barcellona che pare la più spaesata delle squadre di Serie C. Il fischio finale è la liberazione di un urlo che unisce generazioni. Pure se non si è vinto niente. Ma in quell’urlo ci sono i ragazzetti che non hanno mai vissuto queste serate e quelli più anziani che hanno tanti sassolini nelle scarpe.

E allora lasciateli sognare. Qualunque sia il finale. Vale la pena vivere calcio per questi momenti. Anche se capitano ogni trent’anni. Vale la pena ricordare quanto Roma possa essere folle e illogica nelle sue reazioni. Torneremo a parlare con cognizione di causa e dovuta critica, è ovvio. Ma ogni tanto si lasci passare il bello, l’armonioso e il caotico che regola la vita di ogni tifoso.

E la cosa bella è il venir meno di ogni stratificazione sociale. Come quel signore incontrato su Via del Corso, proprio mentre con la bicicletta torno verso casa. Lui, con la sua bimba per mano, mostra fiero la tuta da meccanico. Ancora sporca di grasso. Probabilmente ha finito dall’officina catapultandosi allo stadio. Alla faccia di casualismo, delle regole di vestizione e di altri astrusi concetti troppo spesso decantati nelle curve italiane.

Stasera Piazza del Popolo è veramente Piazza… del Popolo!

Simone Meloni