L’ultima volta che ho messo piede nel Distinto Sud lato Tribuna Tevere sulla panchina della Roma c’era Zeman, in Curva Sud il Commando e nel settore ospiti lo striscione dei Vigilantes. Era un Roma-Vicenza datato 1998/1999 (3-0 per la cronaca). Ventidue anni dopo quel ragazzino accompagnato dal papà sotto una battente pioggia di inizio gennaio, si ritrova in questo settore più per scelta obbligata che per decisione propria. La capienza ridotta e la conseguente difficoltà nel reperire biglietti sono ovviamente figlie della triste condizione che viviamo ormai da marzo 2020 e che ovviamente tutti speriamo diventi presto un lontano e nefasto ricordo (sebbene, volente o nolente, lascerà nelle nostre coscienze dei segni difficili da cancellare e delle acredini assai complicate da edulcorare). Sempre parlando di date, avvicinandomi lentamente all’Olimpico ripenso alla mia ultima partita sulle sue gradinate: 23 febbraio 2020, la Roma schiantò il Lecce con un perentorio 4-0 a fronte di un settore ospiti spoglio di striscioni e tifo a causa degli arcinoti incidenti avvenuti su strada tra salentini e baresi.

Da quel momento in poi, tra lockdown e stringenti divieti, ho avuto tantissima difficoltà nel tenere in considerazione il calcio. Svuotato di ogni suo significato folcloristico/sociale e relegato a mero show televisivo. Intendiamoci, penso sia stato giusto a un certo punto riprendere i campionati anche senza pubblico. Come mi è capitato di scrivere in passato, il pallone non è fatto solo dalle starlette miliardarie della Serie A o dalle primedonne in stile Neymar; scendendo i gradini della sua piramide esiste tutto un indotto che spesso e volentieri fa campare persone e famiglie con stipendi tutt’altro che lauti. Pertanto di immorale ci ho visto ben poco. Se poi a qualcuno vedere una partita alla tv è servito anche per superare una giornata di solitudine o riassaporare – seppur lontanamente – un paio d’ore di semi-normalità meglio ancora. Personalmente che una partita venga trasmessa in tv o meno non ha mai cambiato molto. Se non riesco ad andare allo stadio difficilmente opto per il tubo catodico. In questo sono sempre stato alquanto intransigente, ma neanche tanto per un discorso di ostracismo nei confronti della pay-tv, quanto perché se non riesco a essere io il protagonista (in qualità di tifoso) o non posso vedere con i miei occhi ciò che succede in campo e sugli spalti, non vale mai del tutto la pena impiegarci tempo.

Certo, non posso negare che lo stadio mi sia mancato e mi manchi tutt’oggi. Non annovero questo come un ritorno “al passato” perché in un Paese che ancora verte sui colori delle Regioni, sull’indice rt e su altre variabili impazzite di certo non ci si può illudere che questo sia sicuramente il graduale ritorno a ciò che è sempre stato. Anche perché c’è da fare i conti con i cambiamenti che le nostre vite e in parte la nostra società hanno subito e stanno subendo da inizio 2020 ad oggi e chissà fino a quando. La verità è che il frutto più marcio di tutto ciò è la divisione e lo scontro frontale (e tra poveri) cui ormai gran parte del sistema massmediatico e politico ci ha gettato. La mancanza di un confronto e di un dibattito anche sulle più frivole argomentazioni. La paura è che gli strascichi lasciati da questo periodo storico si tramutino in un ottuso muro contro muro a cui già assistiamo oggi per ogni discussione pubblica, politica e non solo. Un bianco contro nero privo di ogni sfumatura che ha portato l’interazione umana a livelli davvero infimi.

E non sarà attraverso queste righe che mi avventurerò in disquisizioni che poco c’entrano, ma mi soffermo a pensare a quanto successo in vista di un eventuale rientro in curva in seno al mondo del tifo organizzato. Ognuno (giustamente) con una sua posizione di partenza, salvo poi cambiare repentinamente idea in un verso o nell’altro. Comunicati su comunicati. Lettere, missive, promesse, minacce. Quando forse, una volta tanto, sarebbe stato meglio restare nel proprio cantuccio, prendere le proprie decisioni in base alle situazioni individuali e lasciar stare deliri di emulazione, proclami o manie di protagonismo. Del resto, non me ne voglia nessuno, ma la battaglia contro la Tessera del Tifoso è stata emblematica e dovrebbe aver insegnato molto (salvo quei casi in cui davvero si è rimasti sulle proprie posizioni fino all’ultimo).

A prescindere da tutte le diatribe inerenti al mondo ultras, è palese che tra gli abituali frequentatori dello stadio ci sia voglia di tornare sugli spalti. C’è desidero di ricomporre un rituale che li ha accompagnati per anni. Basti pensare ai biglietti per le due sfide ravvicinate con Sassuolo e Cska Sofia letteralmente polverizzati, malgrado le avversarie non richiamino grandi folle e con i bulgari si giochi anche in infrasettimanale. Questa propensione è inoltre favorita dalla politica dei biglietti attuata dalla Roma. Se per anni è stato necessario sottolineare il vergognoso rincaro dei tagliandi e spesso il totale menefreghismo nei confronti dei tifosi, all’attuale proprietà va dato atto di aver saputo (almeno finora) affrontare al meglio la situazione. Prezzi modici per gli abbonati della stagione 2019/2020 (curve che nei match di seconda fascia oscillano tra i 20 e i 14 Euro in campionato, 10 Euro tutti i settori in Conference League) con la possibilità per gli stessi di acquisire altri tre tagliandi in prelazione per non abbonati (allo stesso prezzo). Cosa che però trovo sbagliata oltre che conflittuale con il concetto di “prelazione”. Insomma, benché i biglietti in vendita libera siano un po’ più esosi va detto che con l’attuale modalità quasi tutti i presenti hanno l’opportunità di accedere allo stadio spendendo il giusto. E ciò è tutt’altro che scontato in un calcio divenuto ormai palcoscenico per nababbi.

Fatto salvo per il controllo del green pass l’accesso si svolge come sempre. Centinaia di steward schierati ovunque (manco si giocasse il derby), doppia perquisizione, doppio controllo documenti e solita ottusità da parte degli uomini in pettorina gialla se si prova a chiedere un qualcosa che esce di un millimetro dalle loro competenze (sic!). Del resto mai mi stancherò di dire che quella degli steward è la figura più confusionaria e disorientante introdotta dalle varie leggi contro la violenza negli stadi.

Percorro gli scalini che portano agli spalti cercando di immedesimarmi in quel bambino che ventidue anni fa alla sola idea che qualche centimetro dopo avrebbe visto aprirsi davanti a sé il campo sentiva il cuore palpitare. Faccio fatica a ritrovarne l’essenza e un po’ come mi succede da un anno e mezzo a questa parte scavo con forza in me per trovare il bello di ciò che sto vivendo. Ci metto un po’ per ambientarmi, come un qualunque animale che torna a casa dopo mesi ed ha bisogno di riprendere confidenza con i propri spazi. Guardo la Tevere, la Monte Mario, la Nord. Sono stato almeno una volta in ognuno di questi settori e per ognuno di essi avrei un qualche aneddoto da raccontare. Ma, non lo nego, alla mia sinistra guardo soprattutto ciò che per me ha reso questo stadio ben più che un posto dove vedere una partita o passare una domenica: la Curva Sud.

Il tempo che mi divide dal fischio d’inizio si assottiglia e le musiche d’intrattenimento si alternano. Qualcuna va piacevolmente a ripescare canzoni simbolo per il tifo romanista, altre (la maggior parte) meriterebbero il ban a vita (e non solo dagli stadi) con relativa damnatio memoriae per cantanti e case produttrici. Ma ormai questo rituale da hit parade è talmente consolidato in ogni parte del globo terracqueo che dubito prima o poi possa cadere in disuso. Peggio di ciò ci sono solo lo stacchetto musicale al gol della squadra di casa (roba che non ti fa godere appieno nemmeno il più importante dei gol) e il gioco di luci prima dell’ingresso in campo delle squadre, manco fossimo alla cerimonia di presentazione delle Olimpiadi.

Nel settore ospiti prendono posto una manciata di supporter emiliani tra ultras e club, con i primi che entrano a match iniziato. L’Olimpico offre un bel colpo d’occhio e a guardarlo dalla mia prospettiva non si nota moltissimo la riduzione di capienza. A livello di “vivibilità” l’impianto di Viale dei Gladiatori non è cambiato granché rispetto all’era pre Covid. Il che, ovviamente, vuol dire aver mantenuti gli standard repressivi di un anno e mezzo fa ma poter fare ancora il tifo in maniera decente. Tutti ci auspichiamo che i mesi prossimi coincidano con l’innalzamento della percentuale di tifosi sulle gradinate e che questo piccolo assaggio di “normalità” non resti tale. Sebbene non abbia le competenze per addentrarmi in taluni discorsi penso che riaprire completamente gli stadi (e i palazzetti) debba essere un obiettivo forte e chiaro per tutte le istituzioni sportive.

Sì lo so, teoricamente dovrei dedicare un piccolo focus anche al tifo. Ma non è mai stata la parte che preferisco nei racconti. Tuttavia: una Sud quasi al completo (attualmente in casa non entrano solo i Fedayn) si produce in una buona prova canora, coronata dall’esultanza a tempo scaduto per il gol di El Shaarawy che regala in extremis i tre punti ai capitolini. I supporter romanisti lasciano lo stadio sulle note di Grazie Roma con lo speaker che dà appuntamento al giovedì successivo, quando sul manto verde dell’Olimpico arriverà il Cska Sofia per l’esordio nel girone di Conference League. Sembra un piccolo ritorno alla consuetudine da stadio. Senza illudersi e senza coltivare vane speranze (termine divenuto ormai infausto causa assonanza con un noto Ministro della Repubblica). Nella consapevolezza che l’unica cosa a cui noi tutti dobbiamo ambire è il superamento del periodo emergenziale e il ripristino delle nostre vite quotidiane.

Simone Meloni