Ci sono notti in cui, anche solo per 90 minuti, ti sembra di tornare indietro di qualche anno. E allora dimentichi le critiche, i veleni, ma soprattutto quel distacco con cui ormai sei abituato a vivere il calcio e forse, almeno in parte, l’ambiente che è a te più familiare. Forse dando per scontato tante cose, magari non volendo entrare nell’eterna contesa interna che spacca, sgretola e annienta quello che di fondo è un sentimento nobile, come il tifo per una squadra.
Non sono le notti dei vincenti per antonomasia (intesi come quelli che vincono coppe e campionati) e nemmeno quelle che ti mandano diretto in paradiso. Perché sportivamente parlando a Roma di vittorie e Campi Elisi se ne sono sempre visti pochi. Sono le notti in cui però ti ricordi cosa ti emozionava dello stadio e cosa ti ha spinto per anni a frequentare il settore popolare. Ti ricordi le “apnee” nelle partite chiave, quelle dove spesso la voce non riusciva a uscire tanta era la tensione o quelle in cui sentivi che tutti avevano preso coscienza di quanto fosse importante portare per mano la squadra. Di quanto fossimo “noi” a poter spingere la palla in rete. E di quanto l’esserne coscienti ti isolava per un paio d’ore da tutto, facendoti salire sullo scranno più alto dello stadio. Perché ogni passaggio poteva essere direzionato da un tuo coro e ogni errore dell’avversario frutto del clima “intimidatorio” creato dallo stadio.
Negli ultimi mesi ho spesso sottolineato quanto quest’epoca contemporanea ci avesse allontanato dalla cultura del tifo. Non solo a Roma, ovviamente. In tanti si sono dimenticati il motivo principe per cui uno stadio andrebbe riempito: tifare. Non mi sono mai fatto problemi a criticare quella che è la “mia” tifoseria, proprio perché penso che la credibilità provenga anche dal saper leggere in maniera obiettiva situazioni dove l’istinto ti porterebbe a peccare di partigianeria. Con la stessa onestà con cui ho detto alla Sud – e all’Olimpico in generale – di essere sovente troppo moscia, svogliata e senza piglio, oggi devo riconoscere di aver ritrovato un ambiente come si deve.
Certo, le coreografie, le torciate e le intemperanze di un tempo sono ricordi lontani. Ma la repressione bieca in quel caso ha fatto il suo sporco lavoro ed oggi se ne pagano pesantemente le conseguenze. Tuttavia l’unità d’intenti può andare oltre, saper dare una spallata anche alle tante difficoltà oggettive che un tifoso del 2018 è costretto a vivere frequentando le gradinate in Italia.
So che probabilmente già dalla prossima in casa, contro la Fiorentina, i difetti endemici della tifoseria torneranno a galla. E sempre in ossequio a quell’onestà di cui sopra, non potrò fare a meno di sottolinearlo. Ma per una volta, per un giorno, per una serata ho voluto scrollarmi di dosso tutto il mio pessimismo cosmico e guardare le cose da un’altra angolazione: il tifo della Roma c’è ancora. E nel suo profondo non è morto il germoglio popolare e sanguigno. Quello che sa gettarsi alle spalle tutte le differenze e le acredini, per far fronte comune e mettere avanti solo i colori di appartenenza.
Chi è di Roma (chi è della Roma) sa quanto tutto ciò sia davvero complicato. Essere della Roma è come vivere nell’Italia dei Comuni: ogni “Stato” ha le sue regole, i suoi codici, i suoi simboli araldici. Ed è pronto a dichiarare guerra agli altri. Vi renderete quindi conto che mettere assieme tutte queste anime per formarne una compatta è opera ardua. Non a caso anche (e soprattutto) la storia del tifo organizzato verte proprio su questo pomo della discordia. Un vero e proprio tallone d’Achille.
No, la Sud e l’Olimpico sponda giallorossa non saranno certo il Marakana di Belgrado con i Delije a tirarne le fila. Siamo e rimaniamo diversi e attualmente con molte marce in meno. Ma ieri hanno dimostrato di poter essere un’unica cosa tra tutte le loro componenti. Hanno riesumato in pompa magna tutto quell’amore per il pallone che a volte sembra sopito o annacquato. Hanno dimostrato di saper fare il tifo in maniera decente. Anche se, non dimentichiamolo mai, non si ha un megafono per coordinare i canti e si rischino costantemente multe e diffide per star in piedi su una balaustra e mandare i cori (a proposito, vi è piaciuto lo spettacolo? Ecco, quelli che l’hanno prodotto non solo sono punibili a norma di legge, ma da mesi mettono mano al portafoglio per pagarne le conseguenze).
C’è stato un qualcosa di romanticamente provinciale nell’esultanza finale, nei clacson della Flaminia in tilt per il traffico e dei ragazzetti eccitati sull’ultima metropolitana disponibile. Un qualcosa in cui la tifoseria romanista si è rispecchiata e dove l’esser provinciali non è un’offesa, bensì un merito. Saper gioire di una vittoria perché coscienti di esserne stati parte integrante è segnale di un ritrovato spirito. Oltre che di umiltà. Dote troppo spesso dimenticata a queste latitudini.
Negli anni ’90, quando ho cominciato a seguire il calcio in maniera assidua e cosciente, ricordo che si raccontavano le serate europee con fare mitologico. Chi tornava dallo stadio dopo i Roma-Slavia Praga, i Roma-Karlsrhue o i Roma-Atletico Madrid era come ammantato da una polverina magica. Negli occhi e nelle parole. Non erano propriamente sfide fortunate. Era una Roma brutta, spesso inguardabile. Ma di cuore, tignosa. E la sua gente, che questa “bruttezza sportiva” la percepiva (fregandosene, anzi facendone un vanto) stava là con il veleno negli occhi e nella gola. A posto con la coscienza, perché pure se gli altri uscivano festanti dall’Olimpico avrebbero portato a casa il frastuono nelle “orecchie” e la paura addosso.
Chissà in quanti stasera ci hanno ripensato a quelle serate. Chissà in quanti hanno proiettato nella propria mente film visti e rivisti. Rimonte mai portate a termine e lacrime amare al triplice fischio. Magari qualcuno si è ricordato di un Roma-Middlesbrough di qualche anno fa (maledetto sia tu, Jimmy Floyd Hasselbaink!) e il suo vicino di posto ha pensato a quanto tempo ci abbia messo per somatizzare la rete di Sonny Anderson, in un’altra rimonta stregata, quella contro il Villarreal del 2004. E tutto forse è sembrato cadere in un cinismo che generalmente lascia disincantati.
Invece questa volta anche la più razionale delle ragioni ha lasciato spazio al cuore. E a me, che non sono un sentimentalista, lasciatemi dire che la cosa è piaciuta davvero molto.
Edin Dzeko, così si chiama l’eroe della serata. Viene da Sarajevo, dove ha cominciato a giocare con l’FK Željezničar. La squadra dei ferrovieri. Una città dove sanno cosa vuol dire la parola “riscatto”; dove il calcio ha giocato e gioca tutt’oggi un ruolo chiave. Ecco, senza esagerare o fare paragoni fuori luogo, credo che questo educato e schivo ragazzotto bosniaco oggi si sia sentito un pochino (poco eh) a casa sua. E il popolo giallorosso lo ha accolto alla “balcanica”: urla e sostengo incondizionati.
È stata poi anche la serata dei Fedayn. Dei loro quarantasei anni e della loro coreografia. Il ritorno dello striscione, un suggestivo tuffo nel passato. Da pelle d’oca per chi quei pochi metri di stoffa non li aveva mai visti dal vivo. Quarantasei anni vissuti veramente, senza date camuffate o esagerazioni mitomani. Dal 1972 a oggi ci sono stati in qualsiasi stagione ed è bello vedere gente invecchiata dietro quel muretto. Simbolo delle storia del tifo romanista e della fierezza di un quartiere, il Quadraro, storicamente giallorosso e fortemente popolare.
Infine, per dovere di cronaca, i tifosi dello Shakthar: circa 300, con alcune pezze ultras. Poco tifo e organizzazione prossima allo zero. Lontani anni luce da altre tifoserie connazionali. Purtroppo questo è lo scotto da pagare in Champions League.
All’uscita dallo stadio vedo un papà abbracciare il proprio figlio. Ha una sciarpa in lanetta color sangue e oro. Lo bacia e gli fa: “Sai come si dice? Se insisti e resisti raggiungi e conquisti!”. È una frase di Trilussa. E fu anche lo striscione utilizzato in una coreografia della Sud quasi un decennio fa.
Simone Meloni