Vorrei raccontare a mio figlio il derby di Roma. Ma vorrei farglielo ancor prima vivere. Mi piacerebbe trasmettergli quella smania, quelle parole mozzate dalla troppa agitazione e quella sensazione di adrenalina estrema quando la palla sta per entrare in rete e un settore intero ti sta per crollare addosso, ma anche quel lugubre senso di morte nel cuore quando a vincere sono gli altri. Per i ragazzi che verranno spero che tutto ciò non muoia. Spero che l’assunto “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” valga almeno per loro. Perché preservargli un futuro in cui potranno guardare al calcio, agli spalti e al tifo con gli stessi occhi incantati e pieni di suggestione con cui ho iniziato ad avvicinarmici io, valgono davvero tanto nella vita. E restano scolpiti nell’anima sempre.
Anche quando tutto ti sembra perso. Anche quando capisci che l’ultima parte di quell’assunto – “…tutto si trasforma” – si sta concretizzando.
Derby di Coppa Italia per me farà sempre e comunque rima con un momento specifico della mia esistenza: stagione 1997/1998. Quella del poker laziale nelle stracittadine. Le mie prime vissute con cognizione di causa. No, mi spiace, non posso rimandarvi a sensazioni curvaiole o di stadio, avevo dieci anni e solo con l’inizio del nuovo millennio avrei cominciato a frequentare assiduamente l’Olimpico. Ma fu comunque un battesimo. In quell’annata seppi cosa volesse dire “derby di Roma”.
Se non sei nato a Roma lo puoi ammirare, ti può far sorridere o infastidire per il suo sommo provincialismo (almeno ciò gli imputano). Puoi essere innamorato dei suoi colori, delle sue coreografie e dei suoi sfottò. Ma difficilmente riuscirai a comprenderlo fino in fondo.
Il derby non deve morire per questo. Il calcio e i tifosi di Roma meritano di più. Innanzitutto meritano di esser trattati con rispetto e dignità.
Questo non è un derby qualunque. Sebbene in campo le cose siano state parzialmente decise nella sfida di andata. Quando Milinkovic e Immobile hanno affossato i giallorossi, costringendoli a un improbabile miracolo nella sfida di ritorno. Improbabile non tanto per i valori tecnici delle due squadre, ma per la fame messa sul manto verde. Quella o ce l’hai o non ce l’hai. La Lazio è incazzata e determinata, la Roma flaccida e svogliata. Nel calcio questo equivale a una sola cosa: vittoria netta da un lato, sconfitta imbarazzante dall’altro. E così sarà.
Ma questo derby – volente o nolente – passerà agli annali anche per un altro motivo: il primo, dopo due anni, a disputarsi nuovamente con entrambe le curve al completo. Il divisorio che per mesi ha spaccato in due i settori popolari non c’è più, al suo posto gli steward. Ma andiamo con ordine.
L’abbattimento delle barriere arriva al termine di un dibattito che ha portato le istituzioni a far pressione su Questura e Prefettura, affinché le stesse venissero rimosse in maniera da far tornare una grossa fetta del pubblico capitolino allo stadio. È ovviamente una maniera semplicistica di descrivere le cose, bene o male tutti sappiamo che l’allontanamento di molti supporter capitolini non era legato soltanto a problemi “strutturali”, ma anche e soprattutto alle allucinanti conseguenze che essi comportavano: multe per cambio posto o sosta su balaustre e ballatoi con seguente Daspo in caso di recidiva, pesante schieramento di agenti all’interno della Curva e tutta una serie di divieti e – possiamo dirlo – repressioni gratuite che venivano perpetrate dentro e intorno all’impianto di Viale dei Gladiatori.
Ora – devo ammettere – sono un po’ come San Tommaso e di fondo vivo nel perenne scetticismo verso tutto e tutti. Figuriamoci verso istituzioni che hanno posto in essere tale situazione. Inoltre giro abbastanza gli stadi per sapere che in un solo colpo non si sarebbe tornati alla situazione precedente alle barriere. Così come penso un po’ tutti siano consapevoli che attualmente si è vinta una piccola battaglia, in un contesto molto più grande e contro degli interlocutori che possono usufruire di un potere inferiore solo alla loro incapacità e ottusità. Non bisogna quindi cantar vittoria, ma prendere la palla al balzo per continuare a rivendicare tutto quello che ai tifosi è stato malamente tolto in questi anni.
Ci vuole pazienza, lungimiranza e oculatezza per fare tutto ciò. Come in un’eterna partita a scacchi.
Il signor Mario Rossi potrebbe dire: “Bravi, ma perché non vi sbattete così tanto per i veri problemi dell’Italia?”. Quante volte lo abbiamo sentito in questi mesi? Eppure al signor Rossi, tutti – romanisti e laziali, chi ha deciso di rientrare e chi no – dovrebbero soltanto rispondere che la libertà e i propri diritti si difendono anche e soprattutto a partire da quella che – a molti – può sembrare una piccolezza come questa. Cosa hanno dimostrato fondamentalmente gli ultras di Roma al momento? Volendo essere realisti hanno sicuramente fatto fare un piccolo passo indietro all’arroganza e alle manie di onnipotenza di chi li ha ridotti ormai da anni a cavie da laboratorio. Hanno fatto vedere che quel “Se i ragazzi sono uniti non saranno mai sconfitti” poteva potenzialmente essere molto più che uno slogan qualche tempo fa.
Io non ci credo allo slogan “solo gli ultras vincono sempre”. Gli ultras, facciamocene una ragione, sono destinati quasi sempre a perdere. Come tanti altri movimenti d’aggregazione di questa nostra Italia. Con la differenza che loro hanno la scorza più dura di tanti altri. E Roma ne è l’esempio lampante. Pensate se nessuno avesse alzato la voce, nessuno avesse disertato lo stadio o nessuno avesse cercato in tutti i modi di sensibilizzare quanto stava succedendo all’Olimpico? Oggi le barriere sarebbero ancora là e nessuno – ma davvero nessuno – potrebbe pensare minimamente di rivendicare “il resto del bottino”.
In un Paese dove ormai chi tenta di difendere un proprio diritto viene spesso schernito e definito “rompicoglioni” da una narcotizzata opinione pubblica, anche la rimozione di una barriera a mio avviso assume un contorno significativo. Ripeto, non da celebrare, ma da usare come trampolino di lancio per riprendersi spazi e strumenti ormai ingiustamente inibiti da anni.
Scomparsi i divisori ovviamente non scompaiono tutti i problemi. E c’è da far fronte a tutta una serie di limitazioni che continuano a rendere difficile la vita del tifoso romano e non solo. Tempo fa dicevo che finché a scomparire non saranno le barriere mentali che hanno portato ad erigere quelle in plexiglass, difficilmente si uscirà da questo pericoloso circolo vizioso.
Tutti pensiamo che prendere una multa allo stadio perché si cambia posto sia un’assurdità, giusto? Tutti concordiamo sul fatto che continuare a dividere un settore con un cordone di steward sia comunque da ottusi, oltre che inutile, giusto? E allora la battaglia non si arresti qua. Altrimenti finiremo con l’accettare un altro parziale “furto” della libertà travestito da concessione. Peraltro, anche se fosse, ripristinando una situazione antecedente non avrebbero concesso proprio nulla. Anche perché in quella situazione antecedente c’erano già delle grandi falle che avevano trasformato gli stadi in bunker.
Sarebbe bello, ad esempio, se i tanti media che in questo anno e mezzo hanno perorato la causa, continuassero a farlo per le altre magagne che opprimono i tifosi: dal caroprezzi selvaggio ai divieti per megafoni, tamburi e striscioni, alle trasferte vietate anche ai possessori di tessera del tifoso.
Del resto quest’oggi, se si vuol continuare a frequentare lo stadio, c’è da fare un discorso fondamentale: tentare di farlo in maniera vivibile ma accettando forzatamente dei compromessi (già il comprare un biglietto e sottostare all’articolo 9 lo è) per conquistare pian piano qualche centimetro verso la normalità. Oppure allontanarsi per sempre dalle gradinate e abbandonare un mondo che ormai si crede troppo distante dal proprio modo d’essere. Chiaramente ambo le scelte sono meritevoli di rispetto.
I ragazzi non saranno mai sconfitti – o almeno lo saranno a lungo andare – solo se ci credono e riescono a capire quanto importante sia l’appoggio popolare. Del resto il calcio questo è: sport al servizio dei cittadini. E allora basta coinvolgere questi ultimi e marciare tutti uniti sullo stesso fronte. Nessuno dimentichi che gli stadi sono laboratori dove testare nuovi metodi di controllo sociale da esportare poi nella società civili. Magari se si provasse ad arrestare il tutto, da subito, si riuscirebbe anche a rallentare il secondo passaggio.
Ad esempio l’Olimpico di questa serata d’inizio Aprile è senz’altro più bello e acceso degli ultimi tempi. C’è il colore e il calore delle curve, e non posso negare che finalmente sia un bel colpo al cuore. Ma è desolatamente semivuoto. 45.000 spettatori sono stati dipinti come un successo. Questo è uno degli aspetti più tristi della faccenda. Perché non si punta il dito contro le vergognose modalità di vendita della Tribuna Tevere, ad esempio? Alcuni soloni della carta stampata, che in settimana hanno provato in tutti i modi a fare terrorismo psicologico sul ritorno degli ultras giallorossi, sanno che per acquistare un tagliando di Tevere occorre per forza essere titolari di una Tessera del Tifoso? Oppure sanno che il biglietto meno caro dell’evento (salvo per gli abbonati per cui una curva costava 20 Euro in prelazione) costava 30 Euro? Senza contare la trafila burocratica per venirne in possesso: tra documenti in originale, ricevitorie spesso inceppate e titoli non emessi.
E quando si parla di ritorno alla normalità mi sia concesso dire che va inclusa anche una certa elasticità mentale nell’affrontare gli eventi. Nessuno chiaramente giustifica episodi violenti, ma sanzionare chi ha avuto l’idea di percorrere 2-300 metri in corteo per accedere allo stadio è alquanto grottesco. È un reato? Sì. All’atto pratico è stato bloccato il traffico (anche se momentaneamente e parzialmente, considerato che alle macchine era “concesso” di transitare in una delle due corsie del Lungotevere) e sono stati accesi gli artifizi pirotecnici (vietati in prossimità dello stadio). In una città disordinata come Roma, dove le infrazioni stradali e gli scempi nella gestione della viabilità si consumano ogni giorno, questa ferreo bisogno di far rispettare le regole sarebbe bello altrove o sempre. Ma l’applicazione ottusa e speciosa delle stesse finisce invece per sembrare quasi pregiudiziale e vessatoria. Anche perché questo genere di cortei, negli ultimi anni, si sono spesso svolti da una parte e dall’altra senza che nessuno ne evidenziasse mai le criticità.
Ultima nota, la più “leggera”. Non si poteva pretendere un ambiente da vecchi derby, questo mi pare ovvio. La Tevere quasi vuota (fatta eccezione per il gruppo di romanisti che l’ha popolata) e la lunga lontananza dalla Curva, per molti ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale. La Sud ha chiaramente bisogno di rodaggio, sebbene quest’oggi abbia fatto vedere alcuni begli sprazzi di tifo e una sbandierata iniziale vecchio stampo. Credo che anche il risultato sfavorevole abbia influito. In sintesi: si poteva far meglio? Sicuramente. Ci sono attenuanti? Assolutamente. In questo rodaggio ovviamente tutti sperano che non siano comprese sanzioni pecuniarie o altre amenità simili. Quello dev’essere un triste capitolo chiuso per sempre e andato in scena ai danni di tutta la città di Roma.
Giusto dire che anche la Nord ha perso un po’ del suo smalto, ma pure qua saremmo dei folli a non tenere in considerazione tutte le attenuanti del caso. Comunque molto bella la coreografia e le diverse sbandierate effettuate durante l’incontro. Romantico rivedere accesi alcuni fumogeni ai gol e le esultanze “a caduta”. Così come “salutare” è l’immagine della squadra sotto il settore a festeggiare l’accesso in finale con i propri tifosi. Troveranno la Juventus, in un remake della finale di due anni fa.
Il primo tassello per il ritorno alla normalità è stato messo. Ora speriamo si possano puntellare le fondamenta e ricostruire un ambiente letteralmente squarciato a colpi di un’ottusa repressione.
Simone Meloni