“Io” proseguì poi Don Mariano “ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà…
Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini…
E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…
E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito…
E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…
Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo”.
Daniele De Rossi è un uomo, un Romanista con la maiuscola.
Non per le sue prestazioni gagliarde e dall’essenza testaccina, né per l’ardore con cui onora la maglia che da oltre un decennio indossa quotidianamente, né tantomeno per aver dato sfogo ai sentimenti etichettando chi contesta a priori e in malafede un suo compagno di squadra con un mai banale e politically uncorrect “pezzi di merda”.
No, lui è un uomo perché a fine partita, dopo un successo di vitale importanza nei confronti di una diretta candidata al podio della Serie A, si presenta ai microfoni di Mediaset Premium, nell’incredulità di chi nasconde un problema per non dar un’immagine fedele del calcio romano d’oggigiorno, per difendere non solo i suoi tifosi, ma anche i rivali di sempre.
Perché Daniele De Rossi da Ostia, dal “Mare di Roma”, ha spezzato l’ennesima lancia in favore dei romanisti e dei laziali costretti all’esilio forzato a causa di un operato di chi ostenta fiero il vessillo della “safety”.
“Non penso che i tifosi abbiano sempre ragione, anzi a volte sono su linee di pensiero diametralmente opposte alle mie.
Ma questa volta bisogna stargli vicini, non perché tifosi ma perché hanno ragione.
Stavolta i tifosi della Roma e della Lazio hanno ragione.
Secondo me non è giusto quello che gli sta capitando e quindi bisogna fare qualcosa in questa direzione perché devono tornare allo stadio.
O sennò, come ha detto Baldissoni (direttore generale della AS Roma, ndA) andare a giocare da un’altra parte perché quello che sta succedendo non è giusto: due pesi e due misure non si fa”.
Scomodare un genio della letteratura italiana come Leonardo Sciascia per parlare di calcio è un esercizio piuttosto pericoloso, se non fosse che nel monumentale “Il giorno della civetta” lo scrittore nativo di Racalmuto abbia voluto mostrare la potenza dell’omertà. La stessa omertà che, seppur per fatti meno rilevanti rispetto alle mafie, circonda come una nebbia fitta di una mattinata in Val Padana, le vicende relative allo Stadio Olimpico di Roma da più di un anno a questa parte.
Ci sono rientrato, ancora una volta, ma questa volta oltre che per maledetta e fastidiosa curiosità, anche per nostalgia, mancanza effettiva di un qualcosa che ha scandito la mia gioventù.
Mi mancava la Curva Sud e non me ne vergogno a dirlo, come la più bella delle donne salpate per altri lidi, altre spiagge, altri volti da baciare.
Arrivato intorno alle 19:15 in quel di Piazza Mancini, dopo un paio di pinte in buona compagnia mi sono avvicinato all’impianto capitolino posto ai piedi di Monte Mario e con la faccia rivolta al Tevere. L’interminabile fila al cospetto dell’Obelisco del Foro Italico, con due cancelli chiusi senza alcun motivo logico, porta me e il mio gruppetto nel limitrofo ingresso del Coni. Anche qui, fra lo sconforto generale di chi già sa che assisterà ad una partita senza poter gustare l’inizio (pur essendo in netto anticipo) e le grida di disappunto dei presenti, mi trovo al cospetto di un terreno fertile per qualsivoglia atto.
Soprattutto quelli che, in teoria, dovrebbero affrontare, in base alle tanto decantate misure di sicurezza e antiterrorismo.
Un decennio in mezzo ai “mostri a tre teste” della Curva Sud mi ha insegnato i trucchetti del mestiere e, nel giro di pochi minuti, sono già al cospetto dei tornelli, dopo aver passato senza controllo alcuno le linee Gustav e Gotica.
Qualche palpatina agli orifizi da parte di un solerte poliziotto in cerca di pericolosi oggetti quali: accendino, sigarette, chiavi dello scooter; e sono dentro. Ancora una volta. Ma non è più come una volta.
La partita scorre sui binari della noia, sì caro lettore proprio noia, con qualche coro da parte dei Distinti lato Monte Mario (volgarmente chiamato “curvino”) e vani tentativi di tifo spontaneo nella zona centrale della Curva Sud.
Bada bene, ognuno è libero di tifare e nessuno vieterà mai a queste persone di farlo.
Sarebbe soltanto bello, per una volta, sentire un coro, uno soltanto per coloro i quali da oltre un anno sono bersaglio ideale per ottenere poltrone riscaldate e scrivanie in mogano.
Uno, soltanto uno; tanto per ricordarci che siamo una grande famiglia. O almeno eravamo.
La Roma va avanti con Dzeko, soffre, sfiora il raddoppio e com’è nel suo Dna viene raggiunta, per poi tornare avanti con una zuccata di Manolas sotto la Curva Sud. Questo il riassunto dal campo in una partita divertente, complice la vena offensiva delle due squadre e due difese da rivedere. Il settore ospiti non produce un buon tifo, complice l’assenza volontaria della Nord nerazzurra per solidarietà nei confronti dei sostenitori di casa (gli unici in Serie A, sic). Chapeau ai rivali interisti.
Ma poi c’è altro, ci sono quei dettagli che rendono una partita come tante un qualcosa di speciale.
C’è un ragazzo con la fascia al braccio spesso criticato da “quaquaraquà” col microfono, che esplode la sua rabbia nel vedere insultato periodicamente un amico e, per omaggiare un vecchio striscione di ragazzi come lui che recitava “Tifa chi sta in campo, difendi il compagno di banco”, urla ingiurie senza filtri alcuni nei confronti di chi la Roma la utilizza per fini propri.
Non contro i tifosi della Roma, come oggi vogliono farvi credere. No, non lo farebbe mai.
Ma contro opinionisti del nulla, pagellari da strapazzo, intenditori e professoroni.
Loro il bersaglio di quel “pezzi di m…” tanto contestato da alcuni quanto apprezzato da altri.
Una settimana iniziata con il leitmotiv del “piccolo uomo”, scandita dalle parole di ominicchi e quaquaraquà, non poteva che finire con il sigillo di un uomo.
Gianvittorio De Gennaro.