Mi ricordo l’edizione di Coppa Italia del 2007 che era modello FA Cup, con la più debole che ospitava la più forte. Mi ricordo il Taranto battere allo Iacovone un Catania che, provocato pesantemente dalla folla, perde la testa finendo il match in 9 per le espulsioni di capitan Baiocco e del barese Spinesi. Scherno e goduria ma nessuna rivincita.

Mi ricordo le lacrime che cascavano sul mio viso poche ore dopo “La Finale” persa nel 2002, quella che ha segnato un’intera generazione. Mi ricordo, come l’avessi detta cinque minuti fa, la frase che dissi a mio padre – «è finito il calcio a Taranto» – quasi ad esorcizzare il terrore di quella che si rivelò una profezia. Mi ricordo che piangevo perché ci credevo davvero.

Mi ricordo la festa per la comunione di un’amica quella stessa domenica sera, organizzata dopo la partita affinché fosse una grande festa poi tramutatasi nella parodia di un funerale. Mi ricordo la sala piena di persone tanto silenziose che si distingueva il rumore delle posate che serpeggiavano nei piatti. Mi ricordo le preghiere che intonai prima di dormire quando ancora i miei desideri cercavano il sostegno divino: «ti prego, fa che il Taranto vinca…»

Mi ricordo dei miei parenti che mi raccontavano gli antichi fasti: «ti ricordi…?». Io che non li ho mai vissuti ma che dei racconti ho sempre voluto fortissimamente farne parte, in qualche modo, scrivere la storia: la potenza di una memoria condivisa.

Questo è il punto di non ritorno dei miei ricordi calcistici, l’orizzonte degli eventi della mia esperienza pallonara come tifoso. Molti altri invece hanno ricordi che si spingono ben oltre quella linea e per questo ci tengono a sottolineare che Taranto – Catania, in fondo, è una partita come le altre, che il calcio di una volta è un’altra cosa, che ora è tutto imparagonabile. Solo che alla costruzione di una memoria condivisa adesso concorrono altri punti di vista, quelli di chi rimane lì aggrappandosi a quello che è stato e, forse, col tarlo fisso di immaginare cosa avrebbe potuto essere.

Ho sempre guardato con sospetto chi vive di nostalgia perché cade nella trappola dei ricordi. Nell’esaltazione del passato non ti consente di goderti il presente; vive il desiderio come perenne mancanza, lascia spazio ai peggiori fondamentalismi e alle passioni più tristi. Ma il calcio, a mio avviso, conferma la regola essendone l’eccezione. Perché mai come in questi casi è vero, in un passato non troppo lontano, tifare era più bello: si viaggiava, ci si incontrava, ci si scontrava, si entrava in territorio avversario, a volte nel cuore della città nemica, si condividevano i gradoni con quegli altri. Non c’erano divieti, non c’erano telecamere, c’erano gli arresti ma non c’era Daspo. Gli stadi erano pieni anche in provincia. Era un altro mondo, sicuramente più rischioso, decisamente più divertente.

Eppure l’impegnarsi nel ricordare che Taranto-Catania sia una partita come le altre è in fondo il segno che una partita come le altre non è. In città ne parla chiunque. Si può avere nostalgia per un periodo che ha segnato un dramma sportivo le cui ferite sanguinano ancora? Faccio parte di quella “generazione dilettante”, cresciuta con questa malsana idea del Taranto, sviluppata non nell’altalena tra B e C ma nelle sfide con Bojano, Lagonegro e Serpentara. Se ammettiamo con un po’ di invidia che il passato-remoto era più bello, allora con un po’ di indulgenza abbiate pietà di una nostalgia, la nostra, che cova mista al rancore, almeno fin quando la vendetta non sarà compiuta. Carogna è, invece, chi ci impedisce di poterla attuare alla presenza dei catanesi (anche se forse – forse – qualcuno s’è incredibilmente e coraggiosamente affacciato…).

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Taranto è una piazza strana. La minaccia di diluvio e il sabato pomeriggio incidono sulle presenze che, seppur di poco, non superano le cinquemila. Probabilmente, anche se la squadra sta lottando con grande orgoglio e appartenenza, non c’è fiducia nella società. Resta il fatto che a me, che ho sempre cercato di contestualizzare i dati allo Iacovone, per i motivi di cui sopra la cosa non va giù. Se in città ne parla chiunque, allo stadio siamo quelle e quelli che tra una cosa e l’altra cercano di esserci sempre.

A pensarci bene la fissa sui dati numerici è una stupidata se rapportata invece all’intensità dell’apporto delle e dei presenti. Sembra che lo “zoccolo duro” della tifoseria, più perda pezzi, più disperato e appassionato declini il suo approccio. Battiato cantava che «Questo sentimento popolare, nasce da meccaniche divine» e per me niente è più vero per quanto riguarda il tifo. Vale lo stesso a Taranto, per certi versi anche di più, nonostante il periodo cupo e dinamiche di frizioni interne tipiche di quasi tutte le tifoserie che si rispettino. Ad esempio, anche se gli ultimi cori declinano marcatamente al maschile la condizione del tifoso, forse non ho mai visto tante ragazze in curva come negli ultimi tempi. Sugli spalti regna una simpatica indisciplina predisposta alla festa. E al cazzeggio: forse è il segno di tanti anni passati a girarci dall’altra parte rispetto alla tristezza che proveniva dal rettangolo di gioco. Ma è anche la conformazione architettonica del settore ad essere propedeutica ad entrambe le cose – festa e cazzeggio, che per certi versi si assomigliano: si metta a referto per chi voglia trarne considerazioni – perché tra gradoni e barriere c’è una vasca larga alcuni metri che, insieme al plexiglass scolorito, formano quasi un punto cieco longitudinale che si presta al via vai di gente che passeggia o al festeggiamento scomposto di un gol come accade in alcune curve argentine. Forse è anche per questo che per anni quella tarantina è stata definita “la curva argentina d’Italia”.

Se la vasca è il viale, va da sé che lo stadio è la sua piazza, una vera e propria agorà cittadina dove pulsano e si intrecciano le soggettività, individuali e collettive: il luogo ideale dove può prendere parola chi non ha voce nel contesto sociopolitico. È uno di quei pomeriggi dove pullulano striscioni: tre in curva, uno per l’ormai celebre “nonno Carmine”, uno per Massimo Battista, militante e consigliere che lotta contro un tumore, accompagnato da cori anti-Ilva, e l’altro per i diffidati. Due invece quelli esposti in gradinata, dove viene allargato lo sguardo a ciò che accade al di là delle tribune. Uno interpella la tragedia di Firenze, evidenziando i due pesi e due misure che coinvolgono la repressione negli stadi e i controlli nei luoghi di lavoro; l’altro la mattanza di Pisa, dove i Blu manganellano ragazzini inermi che manifestavano contro il genocidio.

Tutte modalità di intendere l’intensità. Che, se per la Treccani è «il grado di forza con cui si produce o manifesta un fenomeno», in senso estetico è quel grado di forza con cui si manifesta un’emozione. Quand’è intensa, un’emozione distorce la nostra percezione del tempo. Nei primi minuti non c’è traccia di cazzeggio – forse non è una partita come le altre – ma di un tifo talmente travolgente che mi sembrava fosse passato almeno metà tempo. Quando nella porta sotto la curva De Marchi sblocca in mischia il risultato, pensavo fossimo alla mezz’ora e invece eravamo solo all’undicesimo… La palla si insacca e, con l’intensità della mia scompostezza all’apice, mi ritrovo a strattonare forte due persone che non conosco mentre sento il crociato operato che fa le bizze. Non fa niente.

Il risultato non cambierà e il Taranto porta a casa un’altra partita di spirito di squadra, abnegazione, sacrifico e propensione alla sofferenza. Si festeggia sotto la curva cantando un coro che, dopo «ritorneranno gli amici miei» e «segna per noi, dobbiamo vincere!» si sta ritagliando la sua popolarità: «amore mio dai non essere gelosa, se il Taranto lo amo più di te, con quei colori e quella maglia strepitosa, noi saremo qui vicino a te!». Se il testo è composto da parole inusuali nel repertorio canoro (non solo) della nostra tifoseria come “strepitosa” è allo stesso tempo abbastanza breve da essere memorizzato in poche settimane, con sole quattro strofe in rima alternata (abab) che accompagnano un ritmo che entra in testa da subito. C’è chi nelle ultime settimane s’è trovato o trovata a fischiettarlo sotto la doccia o passeggiando… e chi mente. Sulle note di Easy Lady di Ivana Spagna, che sta già prendendo piede in alcune curve dello Stivale, potrebbe far storcere il naso per la sua tematizzazione.

Proprio le parole di questo coro potrebbero indurre a un errore per certi versi simile a quello evidenziato da Laura Mulvey in un articolo pubblicato nel 1975 sulla rivista “Screen” dal titolo “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, ritenuto il testo fondativo del paradigma della Feminist Film Theory. Criticando l’idea che lo sguardo della macchina da presa, quando inquadrava personaggi femminili avvenenti, si identificasse necessariamente con lo sguardo maschile (il cosiddetto “male gaze”), Mulvey si chiedeva: e chi l’ha detto che quello sguardo deve appartenere per forza agli uomini? Perché invece si ritiene implicitamente che non possa appartenere ad esempio ad una donna lesbica o ad uno sguardo femminile che semplicemente apprezza la bellezza di un’attrice?

Allo stesso modo, nel coro le parole «amore mio dai non essere gelosa» racconterebbero di rapporti eteronormati e della conflittualità di una soggettività intimamente maschile che ha a che fare con un’altra meramente femminile che non sarebbe in grado di capire l’amore dell’uomo verso la squadra per cui tifa tanto da essere accusata goliardicamente gelosa.

Una dinamica che effettivamente caratterizza molte persone delle frange più appassionate della tifoseria: trasferte, viaggi, soldi ed energie spese e weekend compromessi sono inevitabilmente tutti aspetti che – a ben vedere – possono mettere a repentaglio le relazioni che non si cementano sui gradoni, non solo amorose ma anche amicali. Quanti rapporti con fidanzate abbiamo messo a rischio e a quante amicizie abbiamo rinunciato negli anni perché non c’era condivisione su una passione così intensa? Ma se così fosse, qual è invece il posto riservato alle donne che, seppur in netta minoranza, frequentano e popolano – con una certa intensità – lo Iacovone?

Restituiamo la loro prospettiva: alle donne la canzone piace e le ragazzine la adorano! E il loro punto di vista è importante perché “interno”: queste donne che tifano, imprecano, fischiano, insultano e a volte viaggiano a sostegno del TA contribuendo a macchiare di rossoblù i settori degli stadi. Ma poi c’è un meccanismo curioso che si può cogliere quando si è accanto a loro: capita che cambiano la desinenza della parola che connota il genere grammaticale declinandola al maschile: «amore mio dai non gelosO…».

Sufficiente per sentirsi rappresentate, non abbastanza per cambiare la sonorità di un coro che, grazie a questa modulazione, si propone di diventare uno dei più caratteristici di questa stagione. Come Laura Mulvey potremmo infatti chiederci: e chi l’ha detto che i conflitti di coppia si rivelano solamente in un senso? Chi l’ha detto che non siano le ragazze a mettere a rischio il rapporto coi loro fidanzati? E chi l’ha detto che questi conflitti non possano coinvolgere anche altri tipi di relazioni non specificatamente eteronormate?

Questo potrebbe dunque essere il fondamentale meccanismo di risemantizzazione che è alla base della popolarità di questo nuovo coro che quindi è aperto a diverse interpretazioni. Che ognuno lo canti con la desinenza che più l’aggrada! Basta che esca la voce e sostenga il TA con partecipazione e, soprattutto, intensità.

Testo di STiT
Foto Fabio Mitidieri e C.O.