26 febbraio 2002: è il 92′ di Roma-Barcellona. Tommasi riceve palla al limite dell’area, avanza di qualche metro e con un destro fa secco per la terza volta il malcapitato Reina. Prima ci avevano pensato Emerson, con una deviazione e Montella con il destro, lui che con quel piede non ci prende neanche l’autobus. L’Olimpico, tutto attorno, è un delirio, un frastuono di cori, colori, torce e fumogeni. Il giusto epilogo di una serata cominciata con quella che passerà agli annali come l’ultima coreografia della “prima gestione” degli AS Roma Ultras.

Per quelli della mia generazione, cresciuti con una Roma da metà classifica e spesso sotto uno squadrone come la Lazio di quegli anni, battere 3-0 uno dei club più forti e celebri d’Europa era un qualcosa da non dormirci la notte. Ricordo ancora l’emozione quando tra le mani presi quel biglietto argentato per la Curva Sud. A 17 anni non immagini, neanche lontanamente, che un giorno finirai per scrivere il de profundis di quei momenti, ricordandoli con tanta nostalgia e arrivando addirittura a sostituirli a quello che hai visto, nello stesso stadio, per la stessa partita, qualche giorno prima.

Io invece, durante questo Roma-Barcellona, quelle emozioni me le sono riviste passare davanti tutte. Ed ho capito che non solo non torneranno mai più, ma più si andrà avanti e più tutto ciò che ruota attorno al calcio di un certo livello, finirà per essere un qualcosa di totalmente estraneo, non solo alla mia concezione di sport, ma proprio al mio modus vivendi. 

Il primo colpo al cuore ce l’ho dopo aver superato il prefiltraggio. Ritorno all’Olimpico dopo l’amichevole con il Siviglia e non avevo ancora tastato con mano la divisione fisica dei settori popolari. Altri due prefiltraggi sono stati montati, e gli ingressi dei due mini settori, divisi da barriere di plexiglass. Tra una delle tante reti cerco un pertugio per spiare cosa accada là dentro. Vedo il brecciolino che precede gli ingressi della Sud, proprio dove spesso mi sono fermato a cazzeggiare, scambiare opinioni o semplicemente aspettare amici. Un nugolo di poliziotti perquisisce accuratamente chiunque gli capiti a tiro. “Togliti le scarpe!”, sento intimare nei confronti di una ragazzetto poco più che quindicenne accompagnato dal suo fratellino.

Mi rivedo là, qualche anno prima, proprio con mio fratello minore. Lo portai per la prima volta con l’Inter, nel 2006, aveva 12 anni. Mi chiedo se gli avrei mai permesso di vivere questo scempio ed essere umiliato in questa maniera da uno Stato che dovrebbe rispettare e tutelare i propri giovani. Mi rispondo “no”, non glielo avrei permesso e probabilmente sarei tornato a casa. E forse la voglia di andarmene ce l’avrei anche oggi, circondato da cellulari della polizia ovunque, mentre ai prefiltraggi si snoda la solita, interminabile, coda. Quella sì davvero pericolosa, altro che curva “sovraffollata”, come vuol far credere Gabrielli. Centinaia di persone si ritrovano ammassate le une sopra le altre, senza che a nessuno venga in mente di architettare una soluzione migliore, ma soprattutto senza che all’esimia questura di Roma venga in mente di snellire i controlli. Ma del resto da chi innalza muri e getta denaro pubblico per far sorvolare il quartiere Flaminio da un elicottero in partite con un rischio pari allo zero, cosa ci aspettiamo?

Mi si stringe il cuore, devo essere onesto, a vedere la Curva Sud così. Mi dico: “Ma davvero quello è il posto dove da adolescente ho passato i miei pomeriggi in partite insignificanti tipo Roma-Triestina, Roma-Gaziantepspor o Roma-Nova Gorica, tornando a casa felice perché sapevo di aver fatto qualcosa di diverso rispetto ai bori che passeggiavano impomatati su Via del Corso?”. Sì, è quella. Ma ora è cambiata. Stuprata, infangata e uccisa definitivamente dalla voglia di controllo sociale dei nostri giorni.

E’ Roma-Barcellona e, come detto, da queste parti non capita certo tutti i giorni di ospitare la squadra più forte del Vecchio Continente. Quella squadra che però non ho mai portato in simpatia. Troppo corretto politicamente, almeno di facciata, il suo modo di intendere il calcio. Troppo buonismo e un pubblico che di verace ha davvero ben poco. Inoltre, lasciatemelo dire, è scandaloso che una squadra del genere abbia un misero seguito di neanche 300 spettatori, di cui la metà tutt’altro che Catalani. Ma del resto la politica La Porta è un qualcosa che ha fatto scuola anche all’estero, con il suo insediamento a inizio anni 2000 infatti i tifosi più caldi (Boixos Nois e compagnia cantante) sono stati messi al bando dal Camp Nou.

Ci sono, poi, motivazioni più “tecniche” alla base della mia antipatia. Il Barcellona, assieme al Real Madrid, è una delle maggiori cause della distruzione della Liga, divenuto ormai un campionato senza storia. Le due grandi del calcio iberico si spartiscono quasi tutta la torta del futbol nacional , a suon di diritti televisivi e non solo. Cosa che li ha resi pressoché inarrivabili per gli altri club. Non è una caso che, fatta eccezione per l’Atletico Madrid e la sua politica esemplare, negli ultimi anni nessun’altra squadra si sia mai avvicinata a conquistare il titolo.

Ci sono le sue stelle: Messi, Neymar, Piqué. Tirati a lucido, depilati, forse con un tocco di Labello per essere più fotogenici ai cameraman televisivi. Insomma, per me il Barcellona è il vero calcio moderno e se avessi conosciuto questo sport sotto questa forma, probabilmente non lo avrei mai seguito. Mi spiace che oggi, in Italia, ci sia chi lo voglia riproporre. E mi spiace che in questa serata romana, ci siano addirittura padri con la maglia della Roma e figli con quella del Barcellona. Mi spiace che ci siano gli applausi alla presentazione della formazione blaugrana. Ma non perché voglia fare il “cattivo” a tutti i costi, ma perché fino non capisco come si faccia ad applaudire chi sul campo rischia di farti fare una figuraccia grazie alla sua forza. E scusatemi, ma mi è stato sempre detto (non da ultras sia chiaro, anche mio padre la penserebbe così) che indossare maglie di altre squadre è un po’ un oltraggio alla propria fede. Figuriamoci se poi la maglia è quella dell’avversario di turno.

Mi spiace che ci si affretti a prendere a modello il Barcellona, cominciando dai i prezzi dei biglietti. Il tifoso medio delle grandi squadre italiche è probabilmente votato a divenire un piccolo “barcelonista” in tutti i sensi. E se in molti stanno spostando il proprio interesse verso le categorie più basse, un motivo ci sarà.

Ho quasi paura a varcare il tornello d’ingresso. So che alla visione di un Olimpico mozzato del suo fascino primario avrò un colpo allo stomaco. Sì, il fascino primario dello stadio, qui a Roma, è sempre stato il suo pubblico. Che ha reso celebre l’AS Roma in tutto il mondo. Non sono stati certo i risultati di una squadra che annovera nella propria bacheca pochi trofei. Se aveste chiesto a Lattek, allenatore del Bayern Monaco degli anni ’80, che ricordo aveva della Capitale, vi avrebbe fatto un’analisi ben precisa. “Io sono rimasto sconvolto da quello che è successo all’Olimpico. In tanti anni non avevo mai visto una squadra che sta perdendo, che è eliminata, sostenuta così dai propri tifosi. Che spettacolo, quasi mi sono emozionato”, così sentenziava al termine di un Roma-Bayern di Coppa Coppe stagione 84/85 (quella del “Che sarà sarà”).

Oggi ciò non è più permesso. Perché è stato deciso che sostenere in piedi la propria squadra, magari stando su un seggiolino diverso da quello assegnato dal biglietto, oppure accendere un fumogeno o semplicemente sventolare una bandiera con dimensioni non conformi al regolamento d’uso dello stadio, è un reato. Il paradosso, ovviamente, è sia che questo reato viene contestato solo se compiuto in un determinato settore, ma soprattutto che si vuole essere zelanti laddove andare in bagno è impossibile perché sembra di entrare in una latrina, sedersi su un seggiolino è sinonimo, quasi certo, di salmonella, raggiungere lo stadio stesso è un’impresa (per non parlare dei parcheggi) e, soprattutto, vedere la partita è affare per pochi. Certamente per chi ha una buona vista.

Essere allo stadio questa sera è un qualcosa di surreale. Gli ingredienti per una giornata indimenticabile ci sarebbero tutti. Senza l’assassinio della questura e del prefetto la Sud, già un’ora prima del fischio d’inizio, sarebbe stata vestita a festa, e francamente mi chiedo chi ci guadagni veramente ad averla resa un settore inerme e grigio. Non ci sarà sempre il Barcellona di fronte, ed arriveranno tempi bui (come in tutte le storie dei club mondiali) in cui una cattedrale nel deserto come l’Olimpico sarà fredda ed inospitale. Là ci sarebbe stata la curva a colmare il vuoto, ora chi ci sarà?

“I mostri a tre teste”, come li ha definiti il questore Nicolò D’Angelo, stasera hanno deciso di restare fuori. Posto che ormai le istituzioni sono arrivate, con una prepotenza e un’arroganza senza precedenti, a insultare liberi cittadini che lavorano e pagano regolarmente i mille balzelli imposti da questo Paese, mi soffermerei anche su un altro passaggio dell’intervista al succitato, in cui dice che lo stadio Olimpico è in una “costante situazione di pericolo a causa della folta vegetazione che lo circonda”. Dobbiamo ridere o piangere? O forse credere di essere in guerra con i Vietcong che sfrutteranno la foresta pluviale per massacrare il nemico?

Non c’è niente da ridere purtroppo. Non c’è un sussulto di calore in questo esordio in Champions League. C’è qualche urlo, qualche fiammata al golasso di Florenzi. Ma ciò che mi pervade è una tristezza infinita. Perché, parlando fuori dalle righe, ognuno ha la sua concezione di tifo. E per me tifare una squadra è l’insieme di tante cose, di cui il sostegno curvaiolo occupa le prime posizioni. Del resto, per fare un esempio, quando ci si mette con una donna se ne apprezzano tante qualità. Mettiamo il caso che, negli anni, una di queste, quella a cui teniamo di più, venga meno, cosa faremmo? Non smetteremmo forse di amarla, ma non sarebbe più la stessa cosa.

E’ in questo clima strano, sordo, che vivo il mio Roma-Barcellona. Con la morte nel cuore e con tanti frammenti del passato che mi tornano su, come un pranzo digerito male. Quando a mezzanotte abbandono lo stadio ci sono ancora decine di agenti in giro. E’ la cosa che mi fa più rabbia. Attese infinite in metropolitana con soventi ritardi al lavoro, gomme delle macchine da riparare spesso a causa delle strade da terzo mondo, pochissimo lavoro in giro, città sempre più degradata ed in mano a bande criminali che fanno il bello e il cattivo tempo, infrastrutture fatiscenti, servizi risibili eppure…per l’apparente sicurezza voluta dai folli gestori dell’ordine pubblico non solo ci sono i soldi, ma c’è anche il personale. Mi spiace Roma mia, io così non ti sopporto più.

Testo Simone Meloni

Foto Cinzia Lmr