Inutile pensare a dove si era anni prima. Alle semifinali, alle serie ribaltate e ai riflettori delle finali scudetto. Si rischia ancor più di farsi del male, infliggendosi delle coltellate gratuite e difficili da medicare. È anche inutile girarci attorno, la Virtus Roma è sull’orlo del baratro. Rischia seriamente di precipitare, in un buco nero senza fine e senza gloria. Nella maniera più triste e severa che lo sport conosca: retrocedendo sul campo, dopo una retrocessione decisa a tavolino. Un doppio balzo indietro che, al sol pensiero, fa rizzare la pelle dei tifosi romani. Fa venire il mal di testa e fa gonfiare gli occhi di lacrime. Resta una serie. Una soltanto. Contro Omegna o Jesi. Piemontesi o marchigiani saranno gli arbitri del destino virtussino, e potrebbero essere spietati. Spietatissimi. Mors tua, vita mea. Inappuntabile.
Nella terra di Leopardi, per due sere trasferitasi qualche chilometro più in là, in riva al silente Adriatico, con i suoi tramonti ancora privi di turisti e spiagge affollate, si è consumata quella che per ora, con tutta probabilità, è una delle pagine più nere e avvilenti della storia cestistica romana. Sotto la pioggia di triple e di rabbia di Recanati. Davanti agli occhi di quei tifosi che, giunti fedelmente dalla Capitale in entrambe le occasioni, hanno dato fiato alle loro ugole. Hanno gridato, alzato le mani al cielo e stretto i pugni di quei giocatori a fine partita. Anche ieri. Nonostante tutto. Nonostante il sempre caro ci fu Attilio Caja, abbia anch’esso dato fiato alla propria cavità orale. In malo modo, sia chiaro. Mentendo e sapendo di farlo, parlando di aggressioni e minacce laddove non c’erano né le une e né le altre. Sia sempre ben chiaro. Serviva una scusa per abbandonare la nave che imbarcava acqua. Detto, fatto.
Servirà un’impresa nell’ultima serie. Qualunque sia l’avversaria. L’impresa non dovrà essere tanto tecnica, quanto mentale. Conquistare la calma, la tranquillità, l’autostima. Doti che in questa sciagurata stagione virtussina sono totalmente mancate. Un’annata iniziata male, che sta finendo peggio. Segnali inquietanti che si sprigionano gara dopo gara. E al fato non può esser data la principale colpa. Come sempre, in ogni aspetto della vita, la sfortuna è un fattore collaterale, che agisce laddove crepe e fratture sono già ampie ed esistenti.
Per amore di questo sport, per il rispetto dei suoi tifosi, e qua ci colleghiamo a un discorso più generalista, bisognerebbe rivedere dei criteri base. Per evitare che piazze storiche scompaiano. Per scongiurare che sciacalli travestiti da nuovo che avanza si destino e festeggino tra le macerie altrui. Non c’è nulla di sportivo in tutto ciò. Poi, nella fattispecie romana, ci sarà sicuramente bisogno di una revisione completa della gestione. Perché quando si arriva, forse, al punto più basso di una storia che dal 1960 ha permesso agli sportivi dell’Urbe di far entrare la pallacanestro nelle proprie case e nella propria identità, si deve saper mettere un punto. Proprio nel rispetto dei tifosi e per non gettare nell’oblio quanto di buono si è fatto finora.
Restano le facce disperate del settore ospiti alla sirena finale. A far da contraltare alla grande festa recanatese. I leopardiani sono salvi con merito. In queste gare hanno dato tutto in campo. Anima, sudore, cuore, grinta. Perché è chiaro, non basta avere un nome glorioso per vincere le partite o mantenere la categorie. Bisogna avere gli attributi, ma soprattutto l’umiltà di calarsi in una realtà complicata come l’A2. Ecco, l’umiltà è l’altro aspetto che all’ombra del Colosseo va assolutamente ritrovato. Per questo, tornando all’apice dell’articolo, va azzerato tutto il background degli ultimi anni. No, non ci saranno PalaEstra, Pianella, Forum o PalaBigi ad accompagnare questo finale di stagione. Ciò non vuol dire prendere sottogamba gli impegni. Non vuol dire avere un approccio mentale tipicamente romano. Con quella boria e quella presupponenza che, da sempre, sono stati il vero e proprio freno a mano dell’Urbe Immortale. Oserei dire non solo nello sport.
C’è soltanto da rimboccarsi le maniche. Prendendo esempio da quel pubblico troppo spesso bistrattato e additato come freddo elemento, causa principale degli insuccessi della Virtus Roma. Loro hanno dimostrato ben altro in questa stagione. In cento, come in cinque. In giro per l’Italia. Tra umiliazioni e, lasciateci dire, vilipendi alla bandiera che spesso si sono configurati parimenti a una classifica deficitaria, oltre a sortite dialettiche poco fortunate subìte degli instabili alfieri già sopracitati.
Ora il vento è contro, e per superare la burrasca servono dei Capitani Coraggiosi, come forse neanche Rudyard Kipling ne riuscirebbe a dipingere.
Un ultimo assolo e poi mi taccio. Far precipitare il questore di Fermo in loco, richiedere una maggiore attenzione per i tifosi, vietare la vendita degli alcolici e aumentare il dispositivo di sicurezza, in maniera esagerata, per una gara del genere, è solo l’ennesimo segnale di come in Italia ormai si sia soltanto abituati a creare situazioni di inutile allarmismo. Pure laddove basterebbe del sano buon senso.
Simone Meloni