Mentre il profilo sontuoso del Ferraris si fa sempre più vicino e l’insidioso torrente Bisagno fiancheggia la mia passeggiata, ripenso inevitabilmente alla prima volta che entrai nel tempio del calcio genovese. Un ingresso in punta di piedi, perché come tanti ragazzini avevo sempre visto quello stadio in maniera rispettosa e affascinata. Lo stadio dove giocavano due squadre che non mi sono mai passate inosservate, con le loro tifoserie colorate, chiassose e passionali.

E Genova, almeno l’aspetto passionale, non l’ha perso. Te ne accorgi quando entrando in città col treno, oppure uscendo dall’autostrada, decina di bandiere rossoblu e blucerchiate fanno capannello dalle finestre. Oppure quando cammini per il Porto Antico o la Città Vecchia, dove davvero nessuno si lascia sfuggire l’occasione di mettere in mostra la propria fede calcistica. Una città che ancora ha una visione retrò del pallone, grazie a Dio, e che si fa subito voler bene da chi, in fondo, il calcio lo intende in maniera semplice e naturale.

“Genova per noi”, cantava Paolo Conte. E forse “per noi” mitomani di ciò che non c’è più, ancora un po’ lo è. Le bancarelle con le sciarpette del Doria si avvicendano, fin quando arrivo a ritirare il mio accredito per poi entrare nella pancia dello stadio. E’ suggestivo, questo impianto incastonato tra i palazzi, dove le scritte ventennali dei rispettivi padroni di casa, e persino degli ospiti, resistono senza esser scalfite del tempo e dal decoro urbano. Certo, le cose sono cambiate anche qui, almeno quando si varcano i tornelli. Barriere, gabbie e sistemi di sicurezza hanno preso piede e fanno a gara con il vicino carcere a chi è più foriero di repressione ed oppressione.

Quella prima volta che venni si giocava esattamente Sampdoria-Roma. Parecchi anni fa. C’era lo striscione degli Ultras Tito Cucchiaroni, c’era quello dei Fedelissimi, c’era una pezza dei marsigliesi, c’erano i fumogeni, le torce e c’erano i tamburi e i megafoni. Cose a cui, all’epoca, neanche facevi caso tanto era la normalità. Insomma, quel giorno io ricordo un gran bel tifo da ambo i lati, con uno stadio pieno che si alzò in piedi ad applaudire un magistrale gol di Totti da posizione più che defilata.

Oggi lo so per conoscenza dove sono gli UTC, e lo capisco per intuito che i loro cori si basano sul battito immaginario del tamburo. E’ triste tutto ciò, come è diventato triste il calcio ed i suoi tifosi. Persino entrare a Marassi mi fa pensare che forse non valga davvero più la pena. Mi viene da pensare alle categorie inferiori, con l’idea sempre più ferma che se si vuol godere di uno spettacolo più veritiero e genuino, bisogna accantonare definitivamente il professionismo. Io mi illudo fondamentalmente. Forse voglio vedere ciò che non c’è, quando parto per posti che hanno fatto la storia del tifo e del pallone in Italia.

“Lettera da Amsterdam”, parte l’inno della Sampdoria. La Gradinata Sud si colora di tantissime bandiere e bandieroni, bell’effetto. Persino qualche torcia viene accesa di nascosto e cautamente gettata in terra. Nel settore ospiti sono presenti un migliaio di tifosi romanisti. Inutile dire che la maggior parte sono i ragazzi che in casa, almeno per ora, non “possono” più entrare. Un migliaio di “fucking idiots” impossibilitati a seguire la propria squadra nel lager Olimpico, e vogliosi di liberare la propria frustrazione in questa serata genovese. A tal proposito da segnalare il bello striscione dei doriani che solidarizzano con il terribile momento dei supporters romanisti e laziali causato dalla divisione dei settori popolari.

Inizia la gara e con essa il sostegno delle due fazioni. Gli ultras blucerchati pompano il tifo dalla parte superiore, quella occupata dagli UTC, mentre al di sotto è un piccolo manipolo di Fedelissimi a tentare difficoltosamente di portarsi dietro il resto della ciurma. Tutto sommato il sostegno è buono, anche se ovviamente si risente dell’assenza di coordinamento tra i due anelli della curva. Gli UTC ce la mettono davvero tutta, con manate, sbandierate e cori a rispondere. Sarebbe ipocrita dire che anche qui, come in tutto lo Stivale, le cose non siano leggermente cambiate. I doriani restano una delle realtà più attive del panorama, ma è ovvio che anche loro abbiano risentito il decennio dei divieti e della repressione più bieca ed insensata che ha davvero depotenziato e destrutturato il movimento ultras italiano.

Sul fronte ospite la serata si inaugura con il classico “Quando l’inno s’alzera”, per poi passare ai più attuali cori contro il Prefetto tiranno e la sua folle e despotica scelta di dividere la casa del tifo giallorosso. Buona la performance dei capitolini, che sciorinano il loro classico repertorio a sostegno di una squadra che in campo prende il controllo del gioco ma non riesce a pungere con efficacia.

Nella ripresa arriva il primo vantaggio genovese. Eder calcia una punizione dalla media distanza e De Sanctis è tutt’altro che impeccabile. Esplode Marassi in una bella esultanza. Passano una decina di minuti e Salah trova il pareggio, stavolta per la gioia dei supporters giunti dalla Capitale. Nel finale è un goffo autogol di Manolas a regalare i tre punti ai ragazzi di Zenga. In questi ultimi minuti lo stadio diventa davvero una bolgia, fino all’esplosione finale per tre punti fondamentali.

Saluto la vecchia tribuna stampa del Ferraris e mi avvio verso la sala stampa. Quando ne esco l’orologio segna mezzanotte. Mi incammino lentamente verso Piazza della Vittoria, da dove il mitico pullman della Megabus mi porterà a Roma. Sei ore di viaggio in cui cadrò letteralmente tra le braccia di Morfeo risvegliandomi alla stazione Tiburtina. Di ritorno dall’ennesimo viaggio che mi lascia una sensazione di amaro in bocca per la consapevolezza che di questi tempi bisogna accontentarsi di quello che la povera Carmen Consoli chiamava “Amore di plastica”.

Testo Simone Meloni

Foto Roma Gerolamo Calcagno

Foto Sampdoria Simone Meloni