Alessandria è silenziosa anche il sabato mattina.
E non è diversa da tante altre città di provincia italiane.
Un centro storico fatto di vie strette che pian piano si allargano a diventare una periferia informe e sconclusionata.
Una città bella e malinconica.
Venendo dalla stazione, per arrivare al “Mocca” bisogna attraversarla tutta.
E sarebbe bello, se non fosse che il cielo leggermente velato di Torino si è lentamente trasformato in pioggia, sottile e battente, che mi ricorda Santander ma che sopratutto mi si attacca addosso costringendomi dentro un bar, a pochi metri dallo stadio.
Ed è da questo bar, parlando con il proprietario, che vedo le strade e i locali circostanti riempirsi lentamente di tifosi grigi.
Il “Moccagatta” di calcio ne ha visto. Costruito nel 1929, è stato la casa dei Grigi negli anni della serie A e nel pantano delle categorie dilettantistiche.
E conserva, nonostante gli anni, tutto il suo fascino intatto.
Soprattutto per me.
I palazzi tutt’intorno, la posizione, il bar sotto la tribuna con le fotografie di cent’anni di calcio alessandrino, il settore ospiti unico nel suo genere.
Io proprio non riesco a pensare che il calcio in Italia abbia realmente bisogno di stadi nuovi, moderni, funzionali, nonostante possa comprendere i problemi che i vecchi impianti hanno.
Traffico, settori scoperti, poco parcheggio e quello che più preferite.
Ma il calcio in Italia, a differenza della Germania, ad esempio, non è un evento sportivo. Non lo è mai stato.
Il calcio in Italia è una questione culturale.
Identità e campanile, soprattutto.
E della partita fanno parte tutti quei riti che ti legano alla tua città, al tuo quartiere, al tuo gruppo.
La birra nello stesso bar di sempre, prima e dopo.
Il nipote con il nonno. Sciarpa al collo e panino nello zaino. A piedi da casa, magari.
Insomma, ciò che serve è far tornare la partita una festa per tutti.
Poche regole, pochi limiti.
Libertà di divertirsi, molto banalmente.
Le solite abitudini di sempre, nello stesso stadio di sempre.
Niente cattedrali nel deserto, niente astronavi, niente centri commerciali.
E Alessandria-Padova è stata una bella conferma.
Perché i Biancoscudati non hanno mai digerito l’“Euganeo”, tanto che già si parla di un nuovo trasferimento al “Plebiscito”, e rimpiangono il vecchio e decadente “Appiani”, in pieno centro storico.
Dentro entrambe le tifoserie offrono una buona prestazione.
La Gradinata Nord fatica a coinvolgere tutto il settore e pecca un po’ di colore, ma non fa mai mancare il proprio supporto.
Dall’altra parte la Tribuna Fattori, aiutata dalla “torretta” del settore ospiti, risulta compatta sia agli occhi sia nel tifo.
I due gruppi si punzecchiano spesso ed è curioso pensando che l’ultimo confronto risaliva a 34 anni fa.
Il pareggio finale sorprendentemente accontenta entrambe le squadre.
Pillon mantiene la sua imbattibilità sulla panchina degli ospiti mentre i Grigi, grazie alla contemporanea sconfitta del Cittadella, sono campioni d’Inverno.
Io percorro la strada a ritroso e prendo al volo il Regionale che mi porta a casa con la convinzione che questo calcio malato ha ancora qualcosa da raccontare, negli anfratti dei campi di Provincia.
Gli stessi campi di sempre.

Gianluca Pirovano.