Se la memoria è un presente che non finisce mai di passare, come ha affermato il poeta messicano Octavio Paz, un giorno come oggi, ma di trenta anni fa, un uomo nato a Villa Fiorito, a sud di Buenos Aires, ha scritto una delle pagine indelebili della Storia non solo calcistica, ma dell’intera Argentina. Proverò a raccontarla, caro lettore, anche se dubito di poter riuscire a rendergli onore per ciò che è stata.

Città del Messico, 22 giugno 1986. Stadio Azteca. Il teatro della “partita del secolo” (Italia-Germania, 4-3) che si rese ancor più bello in occasione di una sfida che ha rappresentato molto più del mero successo sportivo, regalando al Mondo intero uno spettacolo dalla duplice matrice, ma una crasi perfetta delle caratteristiche più prorompenti dell’animo umano: il genio e la follia. L’ombra della guerra delle Falkland-Malvinas sovrasta l’incontro valevole per i quarti di finale della Coppa del Mondo fra Argentina e Inghilterra. In città campeggiano striscioni come “Vamos a matar los ingleses” e “Le Malvinas sono argentine”. Le chiamano in due modi diametralmente opposti, come uomini che rivendicano un figlio nato dallo stesso grembo materno. Falkland Islands sulle labbra britanniche, Islas Malvinas su quelle dei rivali rioplatensi, un arcipelago dimenticato da Dio che guarda con un occhio al Sudamerica e l’altro all’Antartide. Gli argentini difatti sostengono che ad aver scoperto per primi queste isole sia stato Ferdinando Magellano intorno al 1520, ai tempi al servizio della corona spagnola, da cui il paese sudamericano si dichiarò indipendente nel 1816. Gli altri, invece, rivendicano la scoperta del capitano John Strong del 1620, il quale decise di rinominarle in onore del visconte Falkland.

Vuoi per motivi prettamente nazionalistici, vuoi forse per dirottare l’attenzione, deviandola da un periodo di forte autoritarismo, fu così che nell’aprile del 1982 il generale Galdieri ordinò alle truppe argentine l’invasione. Il revanscismo della dittatura dei generali di Buenos Aires ebbe così inizio, scatenando la reazione della Corona britannica. Una vera e propria guerra-lampo, perché nel giro di due mesi gli inglesi riconquistarono quei territori, sferrando una dura spallata al regime argentino e lasciandosi dietro un cimitero di quasi mille fra figli, mariti e fratelli. Quasi il triplo le famiglie argentine che piansero un caro rispetto agli sfortunati colleghi di sventure inglesi.

Argentina-Inghilterra, di nuovo contro quattro anni dopo il conflitto. Non poteva essere una semplice partita con ventidue signori ad inseguire una sfera di cuoio. Non poteva, e così non fu. Il senso di ingiustizia che alberga nei cuori argentini può esser vendicato soltanto con una vittoria nei confronti dell’odiata potenza coloniale impersonificata dalla Lady di Ferro, Margaret Thatcher. Il calcio in generale, ma ancor di più negli Anni ’80, ha simboleggiato la valvola di sfogo di una popolazione vessata dall’iper-inflazione figlia del neo-liberalismo statunitense e dalla dittatura militare. Inoltre, fattore di notevole rilevanza per il proseguo della vicenda, la presenza di soli tre uomini nell’undici titolare dell’Albiceleste, rese ancor più profondo quel sentimento di comunione in funzione anti-britannica.

Dieci e venti circa di domenica 22 giugno, il sole sembra ancor più vicino a duemilaquattrocento e passa metri sopra il livello del mare. I giocatori argentini entrano nello spogliatoio dello stadio Azteca di Città del Messico. Il marcatore José Luis Cuciuffo prega Nostra Signora Vergine di Lujan, sa che troverà un posto nel cuore della difesa grazie all’infortunio del titolarissimo Daniel Passarella. Maradona, invece, inserisce la cassetta riservata al día del partido nel Sony rosso tramutando la musica in un’allegria simulata, tanta la tensione che si respira.

Dieci minuti e la squadra effettua il sopralluogo ad un’ora e mezza dal fischio d’inizio – rigorosamente alle 12:00 per non scontentare nessuno. Oltre al fuso orario, l’imparzialità dei regolamenti e le rispettive richieste, hanno portato alla designazione di Ali Bin Nasser, arbitro tunisino alla seconda apparizione nel torneo. Un assistente del ct Bilardo, Tito Benros, scorge dei piccioni sul terreno di gioco e investito di un’aura profetica esclama: “È fatta, vinciamo noi”. Rientrati negli spogliatoi, però, qualcuno non è altrettanto ottimista. “L’avete vista? Cos’è questa porcheria?”. Si riferisce alla maglietta, Ricardo Omar Giust, ala a tutta fascia del camaleontico 3-5-2 argentino. Un dirigente, Ruben Muschella, le aveva acquistate il giorno antecedente in un negozio locale, trentadue maglie blu Made in Mexico firmate Le Coq Sportif, con fori traspiranti artigianali e stemmi e numeri – di un inconsueto ma meraviglioso argento – aggiunti a poche ore dall’incontro. Le Coq Sportif aveva infatti fornito alla Selecciòn una sola divisa “Air-tech”, quella indossata contro Corea del Sud, Italia, Bulgaria, Belgio e Germania, e due maglie di cotone (una blu e una bianca). Gli inglesi giocano in bianco, come da consuetudine. L’Argentina si premura perciò di fornire ai suoi un completo che possa favorire la resistenza alla diversa pressione atmosferica e al cocente sole di mezzodì. La numero 10 di Diego Armando Maradona, indossata poche ore dopo, è attualmente valutata 350mila sterline. L’apoteosi del fai-da-te. Il proprietario sarà uno dei complici della Mano de Dios, si chiama Steve Hodge, centrocampista inglese lesto a scambiare la maglia a fine partita con il migliore in campo. Per distacco.

Ma proseguiamo con ordine. Undici e cinquanta minuti, le squadre si apprestano ad entrare in campo. In base al nuovo protocollo della FIFA i due schieramenti dovranno far il loro ingresso sul terreno di gioco su due file – come un saluto alla bandiera. Diego Armando Maradona arringa i suoi uomini: “Dale que a estos hijos de puta los vamos a matar. La cantidad de argentinos que mataron, la concha de su madre “. Ogni traduzione sarebbe superflua. Pumpido, Brown, Cuciuffo, Olarticoechea, Ruggeri, Batista, Burruchaga, Enrique, Giusti, Maradona, Valdano. Questo l’undici argentino a cui rispondono i Tre Leoni con: Shilton, Stevens, Samson, Butcher, Fenwick, Hoddle, Reid, Steven, Hodge, Beardsley e Lineker. Il 3-5-2 propositivo di Bilardo contro il tradizionale 4-4-2 di Sir Bobby Robson.

Albiceleste subito padrona del campo nonostante l’afa e un’Inghilterra che inizia prontamente a far sentire le unghie: al nono minuto i britannici hanno già collezionato il primo cartellino giallo per un fallo di Fenwick su Diego Armando Maradona. La prima frazione, complici le condizioni atmosferiche e soprattutto l’animosità dei ventidue atleti, vede Beardsley e Olarticoechea rispettivamente pronti a creare disordine nelle retroguardie avversarie, ma sia Pumpido, sia Shilton – bandiera del Leicester City prima dell’attuale ribalta mediatica e pupillo di Gordon Banks (autore della “parata del secolo” ai danni di Pelé nel Mondiale del 1970) riescono a mantenere inviolate le reti.

Cinquantunesimo minuto di gioco: Hodge sbaglia un facile disimpegno e Maradona si lancia a capofitto sul pallone a campanile per cercare di anticipare Shilton. Il numero 10, più basso del suo rivale di almeno 15 centimetri, realizza la rete del vantaggio beffando l’arbitro tunisino Ali Bin Nasser e il guardalinee bulgaro Bogdan Dotchev con un tocco di mano talmente netto e astuto da convincere tutti della sua validità. Tutti eccetto un relador (radiocronista) uruguaiano, tal Victor Hugo Morales, e il fotografo Alejandro Ojeda Carvajal, il quale riesce a catturar l’esatto istante della furbata maradoniana.

“Ahí tiene la pelota Argentina y el partido, ¿para cuando Argentina y el gol?, Vamos muchachos. La pelota viene para Batista, Batista para Henrique, Henrique cambia para el vasco, allá vino para Olarticoechea, que lo tiene a Diego como número diez, a Giusti como número nueve, a Burruchaga de ocho y Valdano de siete. La pelota va para Maradona, Maradona. Puede tocar para Henrique, siempre Maradona y su dribbling, se va, se va entre tres siempre Diego, Genial, Genial! Toco Para Valdano! Entró Maradona, saltó frente a Shilton… Cabeceoooó… mano… Goooooool, goooooool, goooooool, goooooool, arrrrrrgentino. Diego, Diego Armando Maradona, entro a buscar después de una jugada maravillosa. Un rechazo para atrás. Saltó con la mano, para mí. Para convertir el gol, mandando la pelota por arriba de Peter Shilton. El línea no lo advirtió, el árbitro lo miró desesperadamente, mientras los ingleses entregaban todo tipo de justificadas protestas, para mí. El gol fue con la mano, lo grito con el alma, pero tengo que decirles lo que pienso. Solo espero que me digan de Buenos Aires, si están mirando el partido en televisión ahora mismo, por favor, si fue válido el gol de Maradona, aunque el árbitro lo dio. Argentina está ganando por uno a cero. Que Dios me perdone lo que voy a decir: contra Inglaterra, hoy, aún así, con un gol con la mano, que quiere que le diga”.

“Contro l’Inghilterra, un gol del genere, cosa volete che vi dica?”. Victor Hugo Morales non riesce a celare le divampanti emozioni, in fondo un tocco di mano per mettere a tacere un acerrimo rivale è, calcisticamente parlando, una delle soddisfazioni più grandi considerando il giusto risentimento altrui.

Il genio con la numero 10 però ha in mente qualcosa di ben più magico: siamo al minuto cinquantaquattro. Undici secondi per percorrere sessanta metri palla al piede. Non sarebbe una cosa così difficile, se non fosse che dopo il maldestro appoggio di Enrique, Maradona controlla la sfera nella propria metà campo e con un dribbling largo fa secchi Beardsley e Samson. Accelerazione centrale, correndo incontro alla marea inglese, evita il ritorno di Beardsley e l’accorrente Reid con un cambio di direzione. A ridosso dell’area di rigore, nuova serpentina e slalom fra Butcher e Fenwick, quindi dribbling all’incolpevole Shilton e palla dentro la rete. Due a zero Argentina.

Ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota, Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial. Y deja el tercero, puede tocar para Burruchaga… siempre Maradona. ¡Genio, genio, genio! Ta, ta, ta, ta, ta… ¡Gooooooool, gooooooool! ¡Quiero llorar! ¡Dios santo, viva el fútbol, golaaaazo! ¡Diegoooool!!! Maradona! Es para llorar, perdónenme. Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos, barrilete cósmico, ¿de qué planeta viniste para dejar en el camino a tanto inglés? Para que el país sea un puño apretado gritando por Argentina. Argentina 2 – Inglaterra 0. ¡Diegol, Diegol!, Diego Armando Maradona. Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 – Inglaterra 0.

Sono i settantanove secondi più memorabili nella storia delle radiocronache sportive del nostro secolo. In voce ancora un incredulo Victor Hugo Morales, l’uomo venuto dall’altra parte del Rio della Plata, che ha raccontato ad un continente intero le gesta di un giovane talento del Boca Juniors diventato eroe nazionale. Quell’aquilone cosmico che ora, all’Azteca, ha spiccato il volo raggiungendo vette calcistiche mai osate da nessun altro prima di lui.

“Maradona ha mostrato le due essenze dell’Argentina: la furbizia, perché il nostro è un Paese in cui l’inganno è più onorevole del coraggio, mentre la seconda rete è un’autentica opera d’arte”, il commento di un ancor più incredulo Jorge Valdano. Ci aveva già provato Diego, proprio contro gli inglesi ma ben sette anni prima. Wembley Stadium, dove i Tre Leoni erano soliti ospitare i campioni del Mondo in carica. Un giovane Maradona si lancia a tutta velocità verso la porta inglese, ma dopo aver saltato ogni tipo di ostacolo, ritrovatosi da solo davanti al portiere la tocca di esterno e la palla sibila il palo. “Perché non l’hai scartato?”, lo ammonisce il fratello Hugo, detto El Turco, meteora ad Ascoli negli Anni ’80. Perché se l’avesse scartato quel giorno, probabilmente gli inglesi non gli avrebbero mai più concesso di lavare l’onta delle Malvinas con un gol del genere. Gli stessi britannici che, per forma mentis, non hanno commesso alcun fallo sul numero 10 lanciato a rete che, bussando alle porte del Paradiso, ha trovato al suo fianco una schiera di complici insospettabili.

Partita chiusa? Assolutamente no, perché i Tre Leoni reagiscono e prima Lineker trova la rete del 2-1, quindi su cross di Barnes il centravanti inglese è anticipato sulla linea di porta da un sontuoso Olarticoechea. “Thatcher, Thatcher donde estas? Maradona te anda buscando”, cantano i tifosi argentini in estasi dopo il triplice fischio di Ali Bin Nasser. Per il popolo che prega la Selección, la vittoria contro la compagine di Sua Maestà rappresenta un momento di catarsi nei confronti di una nemesi che trascende il terreno di gioco, schiantandosi contro il nervo scoperto del post-colonialismo.

“Il calcio è come una guerra, ma senza gli spari”, ha detto Eric Arthur Blair, meglio noto con lo pseudonimo di George Orwell, e Maradona aveva vinto la sua battaglia più importante. L’influenza inglese d’altronde è evidente nel grande paese sudamericano, basti pensare a club come il Newell’s Old Boys o gli All Boys, squadra della capitale che disputa le sue partite casalinghe nell’Estadio Islas Malvinas.

Una vittoria simbolo di un cerchio che si chiude su un conflitto che, come scritto magistralmente da Borges, ha rappresentato: “Una guerra fra due uomini pelati che combattono per un pettine”. E lui, Jorge Luis, sopraffina penna divina, è passato a miglior vita soltanto otto giorni prima dell’incontro, del “gol del sieclo”, de “la Mano de Dios”. Una sorta di passaggio di consegne, l’eredità della locura e del genio argentino affidata ad un piccolo e riccioluto ragazzo cresciuto fra i campetti di periferia. Un giovanotto che da solo si è caricato sulle spalle un Paese intero, prendendo a calci la potenza colonialista, scagliandosi contro l’imperialismo come fece uno dei suoi idoli, anch’egli argentino, ma di Rosario: Ernesto Guevara, detto El Che. Colui a cui Maradona dedicò, nei primi Anni 2000, il premio di miglior giocatore del secolo assegnatogli dalla FIFA, il miglior argentino di sempre secondo El Diez.

C’è stato un non so che di divino quel giorno allo Stadio Azteca, alcuni la chiamano Mano di Dio – termine coniato da un giornalista italiano dell’Ansa – gli altri The hand of the Devil, tutti gli altri Il gol del secolo. Una eterna lotta fra il bene e il male di stampo manicheo, riassunta in un piccolo uomo di 165 centimetri capace di azzittire i rumori ancor nitidi dei cannoni con la semplice forza del genio.

Gianvittorio De Gennaro.