“Scusi, sa mica dove mettono i tifosi dell’Atalanta?”.

“In Curva Sud”.

“Ok, mi dà un biglietto? Grazie”.

I soldi escono velocemente dal portafoglio e in men che non si dica il ragazzo con il cappello alla marinara su cui è impressa chiara la scritta “Bergamo” corre per raggiungere gli altri tifosi orobici che alla chetichella si stanno dirigendo verso la Curva Sud dello stadio Tardini.

Gli ultras dell’Atalanta tornano in trasferta. Una chimera di questi tempi. Un miraggio prolungato per mesi, spesso per anni. Che si concretizza allorquando le maglie di questo ottuso sistema della gestione dei tifosi si allargano sensibilmente, permettendo di tornare a respirare anche solo per una serata ciò che siamo stati.

Noi tutti.

Cosa è il tifo libero? Difficile spiegarlo. Un po’ come il concetto di calcio moderno. Due figure retoriche per alcuni versi distanti, per altri vicine e speculari. Per come lo intendiamo noi il tifo libero è quello che ti permette di entrare in uno stadio comprando il biglietto due minuti prima del fischio d’inizio, senza esibire alcun documento neanche fossimo in un check in aeroportuale. Tifo libero vuol dire poter portare torce, fumogeni, tamburi e megafoni senza che il funzionario di turno si preda la briga (e di certo il gusto) di dire, con un sorrisino beffardo: “No, questo non entra”.

Tifo libero è viaggiare senza dover essere iscritti a un programma di fidelizzazione, perché il tifoso – in quanto tale – non ha bisogno di essere fidelizzato a un bel niente. Non è un cliente del supermercato né uno che sta facendo la raccolta punti alla Agip per vincere i teli per andare al mare.

Tifo libero vuol dire poter sognare senza esser racchiusi in vincoli burocratici. Significa portare il nome della propria città dall’altra parte del Paese con tutti i propri criteri, il proprio bagaglio culturale e folkloristico.

Si può dire che i bergamaschi siano “talebani” con la loro linea coerente contro la tessera e sui divieti posti continuamente in essere nei confronti dei tifosi di calcio? Certo, sì può dire e pensare tutto. Ma prima di muovere questa critica bisogna sempre tenere in considerazione alcuni aspetti e porsi una domanda: merita più rispetto chi si ostina per la propria strada o chi l’abbandona – spesso rinnegandola – a cuor leggero?

Per farla breve: non è infame chi si è tesserato. Ma non può essere nemmeno lo scemo del Paese chi ha deciso di non farlo seguendo menadito la linea scelta all’inizio.

Potremmo stare a discuterne per mesi. E in passato ho già affrontato l’argomento sottolineando come la tifoseria nerazzurra nelle sue battaglia abbia sempre pagato in prima persona, mettendoci sempre la faccia e non tirandosi mai indietro quando Questori, Osservatori o Prefetti del caso hanno deciso di stringere la morsa per dare un chiaro segnale su quali debbano essere le gerarchie paramilitari in uno Stato che troppo spesso dimentica i principi che tutelano la libertà di movimento e d’espressione.

Dunque: possono piacere o meno, si può condividere o meno la loro politica, ma chiunque faccia parte – anche marginalmente – di questo movimento, sa quanto Bergamo sia stata e sia tutt’oggi una piazza in grado di spostare, di creare opinione, di fare aggregazione e di affondare le proprie radici in una comunità che valica ampiamente il recinto di gioco della Brumana.

È per questo che ho deciso di raggiungere Parma. Ho affrontato il traffico dell’autostrada, sono uscito anticipatamente dall’A1 percorrendo un tratto di Via Emilia, eludendo buona parte della colonna. È bastato per arrivare quando il sole stava per calare e gli ultras lombardi si intravedevano da lontano, con gli ultimi raggi che di sbieco insistevano su di loro.

Ho aspettato persino qualche giorno per scrivere questo pezzo. Perché volevo farlo con calma, ripercorrendo minuziosamente questa domenica. Perché io – ora che ci penso – l’ultima volta gli atalantini in trasferta li vidi a Roma, in un lontano 2006. Undici anni fa. Un’era geologica.

Cosa vuol dire ritrovarmeli di fronte? È sicuramente un balzo nel passato. Un bacio silenzioso alla mia adolescenza, quando andare a Bergamo e giocare contro di loro era sempre quel qualcosa in più. In grado di raddrizzarti la domenica.

Ho riflettuto su quanto il mondo ultras sia una sorta di Italia in miniatura. Un mondo dove ognuno parla il suo dialetto, dove spesso ci comprendiamo poco ma che alla base conserva un linguaggio comune. Anche se differenziata da accenti, idee e gente tanto diversa. E proprio come l’Italia bisogna diffidare (mi scuso per l’utilizzo improprio di questo termine, sic!) dal personaggio “medio”. Quello che ha annacquato questo universo. Bisogna invece conservare i propri dialetti e le proprie cadenze. Così come i propri usi e costumi.

Più li vorranno annientare, più occorrerà difenderli. È questo che vedo negli occhi di quel ragazzetto che ha appena acquistato il biglietto per il settore ospiti.

La solitudine dello stadio Tardini viene rotta da una selva di braccia nude, levate sin dall’inizio al cielo, forse nel tentativo di tagliare la cappa d’umidità che già cinge d’assedio la Pianura Padana. Sono i ragazzi della Nord lo spettacolo di questa sera, ancor prima del Quarto di Finale che si sta per svolgere. Lo capiscono presto tutti i presenti, quando un paio di cori contro la Fiorentina squarciano il silenzio e danno il la alle danze.

Rivalità mai sopite. Rivalità che hanno scritto le pagine più eccitanti della nostra storia calcistica e che ovviamente cavalcano leggendarie nell’anima dei ragazzi atalantini che – per ragioni anagrafiche – non hanno mai affrontato una trasferta all’Olimpico, al Franchi o al San Paolo.

Quei ragazzi che oggi hanno avuto miglior sorte dei loro “colleghi” doriani. Altri che un certo modo di tifare lo hanno sempre difeso e sponsorizzato. E che per la sfida contemporanea contro la Juventus a Sassuolo hanno raggiunto il Ricci armati di striscioni, tamburi e megafoni. I funzionari di turno hanno negato l’ingresso a tutto ciò. Malgrado la mediazione della società. Malgrado si trattasse di una partita con poche decine di spettatori, in grado di divenire animata e gradevole proprio grazie agli ultras (come spesso avviene). Ma con la stoltezza umana non si può ragionare, né tanto meno venirne a capo.

Se poi gli stolti sono supportati da leggi e regolamenti appositi, allora resto solo da farsi il segno della croce e augurarsi che a presenziare cancelli e tornelli ci siano persone con del sale in zucca, dotate di buon senso. Non è stato il caso dei blucerchiati. Che hanno deciso di rimanere fuori. Scelta a mio avviso sacrosanta.

Dicevo invece degli orobici, che per loro fortuna non hanno trovato ostacoli sul proprio percorso, potendo deliziare i ragazzi in campo e il pubblico della tribuna con quello spettacolo chiamato “tifo”.

E tutto sembra tornare indietro di qualche anno. Il loro tifo compatto, le loro manate, la loro versione del “Despacito” tenuta praticamente 50 minuti su 90. Tanto da entrarmi nelle orecchie e ricantarla nel tragitto di ritorno. Tanto da apprezzarla, benché sia l’ultimo degli amanti del copia e incolla delle arie spagnoleggianti e detesti profondamente canzoni come quella succitata. Eppure il bello di determinate realtà è il saper trasformare lo sterco in oro.

L’Atalanta subisce gol e sarà la rete che propizierà l’eliminazione dei nerazzurri. Ma a loro poco importa. Hanno da sfogare mesi e mesi di passione repressa e canti tenuti nella gola. Vogliono ricordare che la Bergamo Ultras non solo esiste ancora, ma è viva e vegeta. Con tutte le sue battaglia, con tutti i suoi colori e tutta la sua passione.

Calda, lucente, densa. Come la miriade di torce e fumogeni accessi. Come quell’odore che si propaga nell’aria e ti dà linfa vitale per apprezzare questo calcio sempre più ostaggio delle sue stupide sovrastrutture e dei suoi infimi (e infami) divieti.

E sono proprio le ultime torce ad illuminare questa serata parmigiana. I giocatori dell’Atalanta raccolgono l’applauso del proprio pubblico. La Nord restituisce loro una carezza simbolica e urla a gran voce due parole: Europa League.

Quell’obiettivo tanto atteso. “Siam bergamaschi non conosciam confine” recita il loro coro. E nel vecchio continente torneranno a viaggiare con i nerazzurri nel cuore. Torneranno a cantare oltre i confini e portare quell’impronta italiana che tutti ci hanno copiato e tutti ci invidiano ancora.

Come dice una persona che ben conosco: “L’Atalanta è il calcio popolare”. E allora è giusto che nell’era di Schengen e delle frontiere aperte il popolo torni a prender per mano la propria Dea accompagnandola in quella che – comunque andrà – sarà una cavalcata storica.

Simone Meloni