La prima notizia è che se il mattino ha l’oro in bocca, il mio ha senza dubbio le scarpe da ginnastica e una mountain bike sotto le terga. Destinazione partitella. Più precisamente Morena, popolosa zona situata pochi chilometri fuori dal Grande Raccordo Anulare a Sud di Roma.

L’occasione è quella di tornare a seguire una partita nelle retrovie calcistiche, in quei campi frequentati da pochi, ma che spesso, pure per chi è abituato a macinare partite di Serie A, sono linfa vitale per dar senso e continuità alla propria passione. Chi ha iniziato a queste latitudini non lo deve mai dimenticare; neanche un’eventuale finale di Coppa del Mondo a bordo campo può avere lo stesso sapore primordiale di campi sgangherati, dove spesso manca anche l’acqua per irrigare la terra, e a farla da padrone ci sono personaggi al limite del reale che generalmente “affollano” gli spalti.

Certo, pure qua tante cose sono cambiate. Sono arrivati i campi di terza generazione e da qualche parte si permettono anche di chiedere cifre cospicue per varcare i cancelli d’entrata. Ma tutto sommato ancora si respira.

Devo fare una premessa. Schietta quanto dovuta. Se è vero che amo alla follia i campionati dilettantistici e le categorie che difficilmente si prestano ai canoni dei calciofili da divano, è pur vero che il proliferare massiccio – quasi stucchevole, permettetemi – di piccoli drappelli al seguito di squadre di quartiere o di zona che mai prima avevano avuto un tifo, ha finito quasi per annoiarmi, dandomi spesso l’idea che ogni quadrante debba adempiere a questa “moda”, figlia sì di repressioni allucinanti nella massima categoria ma, in alcuni casi, diciamocelo pure, anche della mera voglia di mettersi in mostra.

Vuoi la vicinanza. Vuoi la voglia di non far passare una domenica senza partite e vuoi la curiosità di vedere all’opera i ragazzi degli East End affiancati dai gemellati di Mestre, fugo tutti i miei dubbi inforcando la bicicletta e percorrendo con una certa velocità il pezzo di Anagnina che mi porta a destinazione.

La prossimità da casa mi ha dato l’opportunità di vedere altre volte all’opera i supporter del Morena, sempre con un dovuto spazio temporale tra una partita e l’altra. Pertanto posso dire di poter stilare una vera e propria “cartella medica” su di loro. Il paragone ippocratico è scherzoso, ma neanche tanto se si pensa a come i protagonisti del nostro mondo vivono il pallone e tutte le sue sfaccettature.

Quando manca un’oretta all’inizio della partita sono quasi tutti al bar. Chi già con l’amaro in mano e chi con qualche birra, scherzando e cantando per scaldare i motori. Posso sicuramente dire, già da qua, che rispetto alla primissima volta che li vidi hanno assunto una conformazione più confacente a un vero e proprio gruppo organizzato. Sì perché tornando a quanto accennato sopra, se facessimo il conto dei gruppuscoli nati negli ultimi dieci anni, oggi forse conteremmo sulle dita di una mano quanti sono ancora in attività. E non sono francamente convinto che servirebbero tutte e cinque le falangi.

Di contro, sempre continuando sulla linea della franchezza, non mi sento di poter prevedere quanta aspettativa di vita possa avere questo genere di gruppi. Ovviamente la discriminante è una: il collante tra squadra e tifosi. Quello che permette, per fare un esempio, a tifoserie abituate a palcoscenici importanti ma anche quelle che dispongono semplicemente di una lunga tradizione calcistica e curvaiola, di seguire la propria maglia anche dopo fallimenti e radiazioni, con conseguenti ripartenze spesso ben al di sotto del professionismo. La differenza è chiaramente data da una continuità storica che ti fa nascere tifoso di quella squadra e permette il naturale ricambio di tutti i tipi di pubblico esistenti (dagli ultras alla tribuna). Senza trascendere nello sputtanato “Da padre in figlio”, è chiaro però che il discorso di tramandarsi una fede, legato alle radici intrinseche e intrecciate di appartenenza geografica e calcistica giochi un ruolo fondamentale.

Chi ha fatto vita di gruppo, e ancor più chi la fa ancora, sa bene che ci sono momenti di piena in cui tutto va bene, dai numeri, al tifo, mentre ci sono dei momenti di secca da affrontare con cervello e raziocinio. Se nel giro di due/tre anni i ragazzi degli East End sono passati a essere una delle tante tifoserie del loro genere a una di quelle che attualmente gode di maggiore salute, significa che la strada è quella giusta. Ma mai dare qualcosa per scontato. Quando gestisci gruppi del genere due sono le cose fondamentali: la prima è non montarsi mai la testa e non farsi prendere troppo da questo mondo iper-virtuale che inneggia con fare spasmodico al muro giallo di Dortmund come fossero i Grobari o la Fossa del Milan negli anni ’80, facendo passare tifoserie ben più belle, continue e sostanziose per nullità. La seconda è puntare sempre sulla propria unicità e su quello che si rappresenta.

Gli spalti sono uno spazio di aggregazione e libertà troppo importante per i nostri ragazzi. E giuro, mi colpisce sempre molto pensare che malgrado tutta la repressione, tutte le battaglie mediatiche e tutto il fango gettato in questi anni sul tifo organizzato, ovunque ci sia sempre un germoglio ultras ponto a fiorire al primo raggio di sole. Forse ecco, questa è la più grande eredità che i nostri predecessori potevano lasciarci.

Bando alle ciance, la partita sta per iniziare e tutto il gruppo si porta verso i cancelli.

Ne approfitto per entrare in campo e indossare la pettorina prima che l’arbitro (classico tipo molto serioso, il target dei direttori di gara dall’Eccellenza in giù) mi cacci malamente dal manto verde.

Uno striscione per celebrare il gemellaggio Morena/Mestre saluta l’ingresso delle squadre, mentre la società ha preparato dei cartoncini con i colori del club veneto per omaggiare i ragazzi arrivati a onorare il rapporto di amicizia. Una bella iniziativa che dà il senso della misura su quanto per i club di questa categoria avere una tifoseria sia davvero un qualcosa di eccezionale.

Con le squadre in campo si può ufficialmente aprire la partita del tifo. Quella che sarà davvero interessante, malgrado la vittoria in rimonta dei padroni di casa.

Non faccio mai grandi giri di parole parlando di tifo. Non ho mai nascosto quanto mi annoi descrivere battimani, cori a rispondere e quant’altro, non lo farò neanche ora. Mi limito però a sottolineare come tutto il lavoro fatto da questi ragazzi si veda nelle loro movenze sincronizzate, nei loro cori cantati con tanto orgoglio ed entusiasmo e nel battito del loro tamburo, grande protagonista degli ultimi anni. Tornato in voga più che mai: forse c’era bisogno dei divieti per ricordare agli italiani che mai e poi mai debbono rinnegare ciò che sono sempre stati e ciò che ancora sono per tante persone al di là delle Alpi: esempio di tifo da imitare a tutti i costi.

Aiutati da un paio di bandieroni e da diverse bandierine i biancazzurri sono pressoché impeccabili e credo non ci sia neanche bisogno di tessere un eloquio in loro favore, tanto sono esplicite le foto.

Da segnalare, invece, qualche minuto di tifo dedicato a Federico Aldrovandi, il cui volto affisso su una bandiera della Spal è stato vietato il venerdì precedente allo stadio Olimpico. Il popolo degli stadi non solo non dimentica, ma su questo genere di cose riesce persino nell’impresa di coalizzarsi.

Piccola postilla sulla squadra ospite: a inizio stagione qualcuno aveva provato a intessere del tifo attorno alla compagine proveniente dall’omonimo quartiere Fonte Meravigliosa, contiguo all’Eur. Tuttavia data l’assenza odierna e il difficile riscontro circa le partite precedenti direi che è il tentativo è fallito ancor prima di cominciare.

Come detto in campo la spuntano i padroni di casa, mentre sugli spalti si continua a cantare e festeggiare ben oltre il triplice fischio. Il freddo allenta un pochino la sua morsa e mi dà l’opportunità di percorrere la strada del ritorno senza troppi strati di maglie e cappelli, sfruttando la strada in discesa per prendermela comoda.

Anche questa domenica non è passata senza l’odore del tifo!

Simone Meloni