Chissà se quel bambino, con la faccia rivolta verso la Tribuna Tevere mentre risponde alle domande di un incuriosito cronista irpino, riuscirà mai a vedere l’Avellino all’Olimpico.

Chissà se riuscirà mai a rivedere l’Avellino. A dirla tutta.

Non ce l’ha fatta neanche il sodalizio campano. La Corte del Coni ha confermato quanto già deciso dal Consiglio Federale poco più di una dieci giorni fa. E ora le possibilità di vederlo ancora tra i cadetti danzano su un sottilissimo filo di lana. Tanto fragile quanto difficile da tenere teso. Sarà il TAR a dire l’ultima sulla travagliata estate dei biancoverdi. Sarà il TAR a metter l’ultima pietra tombale su un’estate buia per il nostro calcio. Una delle più brutte e mortifere degli ultimi anni. E il fatto che – di contro – passerà alla storia come una delle più prolifere e radiose, solo per l’arrivo di un CR7 qualunque, è un netto segnale: esiste in Italia un solo club, qualche pietra che ancora si sorregge e un infinito cumulo di macerie che di tanto in tanto vengono spazzate via.

“Visto che, alla stregua di quanto emerso dalla discussione orale e dalla documentazione prodotta dalla ricorrente, quest’ultima, sotto il profilo sostanziale apparirebbe in possesso dei requisiti di idoneità e sostenibilità finanziaria; considerato, peraltro, che il C.U. n. 49 nel quale è indicata una scansione procedimentale enormemente ristretta, ma nondimeno vincolante, non è stato impugnato nei termini previsti, il Collegio non può valutare la legittimità di tali criteri formalistici e respinge il ricorso”. 

È questo il passaggio che lascia vive le speranze dell’Avellino e del suo legale Edoardo Chiacchio, che a caldo ha dichiarato: “La prossima partita la giocheremo al Tar del Lazio. Non sottovalutiamo un passaggio della sentenza, dove il Collegio dice che il ricorso poteva essere accolto. Inviterò da subito la società a rivolgersi ad un ottimo avvocato amministrativista. Oggi i procedimenti dinanzi alla giustizia sportiva, purtroppo, si chiudono. Ma non è finita.  Sono stanco e anche provato per questa sentenza. Ma non mi abbatto ed invito anche i tifosi a non farlo. Perché possiamo riportare l’Avellino in Serie B. Ci sono gli estremi affinché tutto questo possa accadere”

Di certo, comunque finirà questa storia, è arrivato il momento di fare chiarezza sul modus operandi di alcuni presidenti e pretendere maggior linearità nelle loro gestioni. Il numero uno dell’Avellino, Walter Taccone, non è nuovo a situazioni simili. Negli anni i supporter irpini hanno spesso dovuto superare le forche caudine di ricorsi e penalizzazioni e questo – per quanto Taccone abbia riportato in città la Serie B, dopo il doloroso fallimento del 2009 – non può essere ignorato.

Se la statura di un management, si delinea anche dalla regolarità con cui esso viene condotto, nessuno si offenderà se affermo che una parziale bocciatura dello stesso, almeno a livello morale e della percezione – si era avuto già da diverso tempo.

C’è tanta storia del nostro calcio gettata nell’immondizia a occhi chiusi e cuor leggero. Ci sono gestioni societarie complici e responsabili e una morale profonda per quanto cruda: risulta difficile dar ancora credito a questo sport. I tifosi assumono sempre più la parvenza di corpo estraneo. Quasi di troppo. Nessuno controlla il “controllore” e le battaglie intestine tra Leghe, Federazioni e club hanno accelerato sempre più l’espansione di tutti gli annosi mali contenuti nel fu magico pallone.

La Reggiana, il Bari, l’Avellino, il Cesena, il Modena. E ne cito solo alcuni. E mi limito solo all’ultimo anno calcistico. Sono nomi che contano qualcosa per il nostro pallone. Sono nomi che trovi costantemente sugli almanacchi. Spesso in Serie A. Sono città dove futuri campioni hanno mosso i loro primi passi e modelli calcistici hanno preso forma per poi esser esportati nel resto del Paese. Sono società con seguiti importanti, con tifoserie che da decenni danno il cuore e le proprie emozioni. Permettendo anche al calcio cosiddetto “dei grandi” di vivere e sopravvivere.

È ridondante, inutile e persino sciocco – ne sono cosciente – star qui a invocare una “normalità” in seno all’establishment. Perché invocheremmo un qualcosa di utopico e perché sappiamo che il calcio – come la politica – fa leva su determinati poteri e sul peso esercitato da essi. È evidente, nella fattispecie dell’Avellino, che Taccone, da diverso tempo, non sia esattamente un personaggio gradito nella stanza dei bottoni. Proprio a causa delle numerose situazioni “sinistre” sopraelencate.

Eppure bisogna battere su questo tasto. Occorre non creare il terreno utile a ritrovarci gli anni prossimi nelle stesse condizioni. Con gli stessi fallimenti e lo stesso caos nell’organizzazione dei campionati. E sarebbe pure ora (ma questo lo dico perché ci credo, non perché penso che i dirigenti del calcio lo sappiano o se ne preoccupino) di rispettare i tifosi e non farli soffrire anche durante la calura agostana.

A quel bambino che sogna l’Olimpico – che è sì tifoso dell’Avellino, ma potrebbe essere tranquillamente barese, reggiano, cesenate o modenese – hanno raccontato di Juary e Barbadillo, della quaterna rifilata al Milan il 12 settembre 1983 e di una squadra che per dieci anni tenne in vita un popolo dilaniato dal sisma del 1980. Lo hanno fatto sognare e sperare. Perché anche lui per una volta avrebbe voluto vedere i Lupi primeggiare contro una “big”.

Per questo oggi era a Roma anche lui. A cantare con i grandi. A piangere senza sosta quando la sentenza è arrivata. E vi assicuro, dell’avvento di Cristiano Ronaldo non gliene fregava davvero nulla.

Questione di priorità.

Simone Meloni