È stato un grande onore ricevere questo libro da Domenico Mungo ed è un onere ancora maggiore doverne parlare. Sento grave il peso della responsabilità di fronte a cose che ritengo più grandi di me e su cui non oso pronunciarmi per non ritrovarmi nudo o ridicolo. O entrambi. La politica, quella nell’accezione pura e apartitica del termine, è una di queste. Non ho mai vissuto stagioni di militanza politica, ovattato nella bambagia della periferia della provincia meridionale più sperduta, dove la politica era affare da collusi mafiosi mentre i militanti giovani e pieni di ideali venivano bene giusto per fare un po’ di attacchinaggio: superato l’esame di maturità avrebbero capito da sé che un altro mondo era possibile, ma solo tagliando un arto ormai in cancrena. Doloroso ed estremo come atto di liberazione, ma necessario.

La mia generazione di ultras aveva inventato tutto dal niente e in ossequio ad un’ortodossia tutt’ora ritenuta valida in tante piazze (e con le doverose eccezioni in altre), aveva sempre ritenuto che politica e stadio dovessero restare l’una ben lungi dall’altro. Per esperienza propria e localistica soprattutto, prima ancora che come Verbo assoluto. Per quel pochissimo lasso in cui i due mondi si lambirono, nella fase embrionale, le uniche altissime (?) aspirazioni della politica furono quelle di usarci come soldatini. Scegliemmo di essere “solo” o sopra di tutto Ultras, ché già era difficile far capire agli altri come stare in una curva, figurarsi discettare attorno a Marx o Evola con persone che manco capivano la sovrapposizione del terzino.

Il libro di Domenico parla di quanto avvenne nelle strade attorno al G8 di Genova nel 2001 e io a Genova non c’ero. Avevo tentennato perché tanti di quei ragazzi conosciuti in giro, proprio grazie allo stadio, vi si stavano dirigendo carichi di aspettative, ma non era la mia guerra e alla fine optai per non partire. A Genova morì Carlo Giuliani, l’acme simbolico di quei giorni, che furono soprattutto una estesa sospensione di ogni diritto civile, di ogni libertà personale ed una delle più grandi messe in opera di quanto elaborato, nel corso degli anni precedenti, in quella grande palestra di repressione che era stata lo stadio. I manganelli tonfa, usati oltretutto al contrario, i lacrimogeni CS, l’uso improprio o l’abuso più bieco del potere, le cariche indiscriminate, gli arresti immotivati usati come rappresaglia, gli inermi su cui infierire, le umiliazioni più arroganti e vomitevoli, questo è tanto altro ancora è stato Genova.

E “Avevamo ragione noi” fa questo, ci inchioda di fronte alla nostra responsabilità collettiva, ci mette davanti al confine, traccia una linea. O meglio la rimarca, a 15 anni di distanza da quei giorni, per definire in maniera netta noi e loro. E non ci sono tante interpretazioni filosofiche, inclusive, clementi o  strumentalmente “vallegiuliesche” da fare: loro sono quelli che comandano, alzano il manganello, armano le pistole e premono il grilletto, noi siamo quelli che stanno davanti alla canna fumante o a farci spaccare la testa. Le posizioni sono polarizzate nelle questioni di potere, non puoi star nel mezzo: o ce l’hai o lo subisci, il resto sono illusioni, brandelli di carne elargiti ai cani per continuare a farli sbranare tra loro.

Mungo rivive quei giorni con una lucidità spaventosa e disarmante. Li canta introducendo ogni capitolo con una colonna sonora ipnotica, sempre azzeccata, spesso inquietante. Li danza saltando ritmicamente, in ogni capitolo, da una all’altra delle 8 grandi potenze che si rinchiusero nel loro castello protetto dalla zona rossa. Infine li dipinge grazie alle illustrazioni di Paolo Castaldi, tutte molto belle, ma se posso permettermi, cito quella in cui Carlo Giuliani annega in un abisso liquido come la più bella di tutti. O di sicuro è quella che soggettivamente mi ha catturato di più in termini di tempo speso a guardarla e intensità emotiva suscitatami.avevamoragionenoigiuliani

Non sono tutte storie che si svolgono nel presente narrativo del libro, cioè intorno al luglio 2001, anzi non mancano i salti in avanti nel tempo, le regressioni al passato per contestualizzare quella attualità o le “sliding doors” attorno ad azioni e reazioni particolari, su ciò che poteva essere e non è stato, oppure viceversa non doveva succedere ma è successo. In mezzo, il fulcro è l’omicidio di Carlo Giuliani che, come il più sgradevole ma necessario dei replay, continua a tornare e tornare e tornare ininterrottamente.

Anche le inquadrature cambiano, cambiano i punti di vista che si fanno racconto: dal black block al manifestante pacifico, dall’ultras all’aspirante giornalista, dal poliziotto all’anarcociclista disertore per scelta, dagli idealisti estremi ai bifidi che stavano solo facendo propaganda per future candidature in Rifondazione. Ogni voce concorre a stratificare la memoria collettiva dall’alto della maggiore oggettività possibile: di distinguo da fare ce ne sono davvero pochi e chi ha accettato per buone le verità delle televisioni, citando la Canzone del Maggio, può pure continuare ad illudersi di essere assolto se vuole.

Devo essere sincero e Domenico mi perdonerà (anche se avevamo già parlato della cosa), lo avevo letto una sola volta prima di questa, in “Sensomutanti, l’amore ai tempi del daspo”, e ne ero uscito insoddisfatto, con un che di incompletezza che mi aveva portato a tenere in stand-by la lettura dei suoi lavori successivi. Quel libro rappresenta però la pietra angolare, l’opera prima di una trilogia fra stadio, piazza e terreni di coltura della repressione di cui, questo “Avevamo ragione noi” rappresenta invece la chiusura del cerchio (per i più curiosi, in mezzo c’è “Avevate ragione voi”).

Ancor più, “Avevamo ragione noi”, rappresenta la verticalizzazione poetica e narrativa perfetta, una sorta di prova di maturità ampiamente superata: come poche altre volte e per pochi altri autori, ogni parola mi è sembrata scelta e cesellata con maniacale cura, infine messa esattamente dove doveva essere.

Il problema di fondo è che alla fine della lettura si arriva con lo stomaco in subbuglio, con la nausea che soffoca la gola come gas CS e l’indignazione che torna a far montare la rabbia a spuma: Genova 2001 ha fatto questo, dicevo in apertura, ci ha messo di fronte ad uno specchio, all’ineluttabile consapevolezza che non ci si può consumare d’ignavia, che dovevamo, dobbiamo o dovremo far qualcosa, anche solo delle semplici scelte di campo chiare e coerenti fra pillola rossa e pillola blu.

Quando si volta l’ultima pagina, sembra di aver concluso una guerra, la stessa guerra di 15 anni fa, una guerra senza storia, ad armi schifosamente impari, con il monopolio assoluto della violenza vestito di blu ed oltretutto santificato dalla suprema ragione di stato. Una guerra che è stata una mattanza, una macelleria messicana come l’ha definita qualcuno. Una guerra di frustrazione, d’istinto, poco cervello e molto cuore. UNA guerra inutile, già scritta, una guerra persa in partenza ma che andava combattuta.

“Non rinnegare mai a te stesso ciò per cui hai combattuto. La sconfitta non rende ingiusta una causa”.

Grazie a Domenico, grazie a chi Genova c’era, grazie a chi in un modo o nell’altro combatte per ciò in cui crede.

Nel mio disincanto politico che mi porta a vedere e vivere sempre tutto in maniera epidemica, fuori da ogni catechesi ortodossa, consiglio di astenersi dalla lettura tutti i puntacazzisti e i barricadero arroccati dietro la linea del loro partito, magari uno dei tanti partiti che ha ordito la rete della tonnara di Genova, e se ancora esiste lo deve solo alla grande menzogna della delega popolare. Ingenuamente oggi rischio l’etichetta di compagno, tanto quanto in passato ho dovuto tenermi quella di camerata per altri ugualmente pretestuosi motivi, ma per chiunque abbia ancora un barlume di capacità critica propria, questo libro va letto senza remore.

Matteo Falcone.