A Catanzaro non capiti per caso. Sembra una frase fatta o, peggio ancora, l’inizio di uno di quei racconti melensi che richiamano ai bei tempi che furono. Ma è fondamentalmente la realtà. Soprattutto se si viaggia su rotaia. Strana storia quella del capoluogo calabrese che – dal 2008 – ha visto demolita la stazione ubicata in centro città ad appannaggio di uno scalo decentrato di oltre dieci chilometri (in zona Germaneto) che avrebbe dovuto migliorare e snellire i collegamenti col resto del Paese in virtù di una presunta e veloce espansione urbanistica. Risultato? Città isolata a livello ferroviario, collegamenti diretti con Roma e Milano tagliati ed ennesima opera pensata e realizzata con i piedi. Oltre che con un congruo dispendio di soldi pubblici. Si cambia a Lamezia e ci si affida a un pullman di linea per il centro città o, nella migliore delle ipotesi, al passaggio di qualche conoscente.

Controsensi prettamente italiani a cui si aggiunge il sempiterno ritardo strutturale che riguarda il nostro Sud. Senza volerla portare su binari sociologici o di spicce considerazioni, ciò che mi colpisce sempre della Calabria è il contrasto tra la maestosità dei suoi paesaggi e la capacità dell’uomo di inquinarli o rovinarli irrimediabilmente. La verità è che, come per tante cose in Italia, anche qui non si è mai saputo (voluto?) raggiungere l’equilibrio. Trattare con amore parti del proprio Paese non deve per forza di cose voler dire svenderle al turismo di massa o renderle parchi divertimento a cielo aperto, snaturandone completamente la genuinità e il fascino (gli esempi sarebbero davvero infiniti). L’optimum si raggiungerebbe avendo rispetto a 360 gradi per ciò di cui si dispone (dall’ultimo dei cittadini al primo dei dirigenti regionali e comunali) e – ovviamente – smettendola di scendere costantemente a patti con figure extra istituzionali che, qua come nel resto d’Italia, affondano le loro radici con scopi tutt’altro che benevoli e costruttivi. Ma qua entreremmo in un terreno sconfinato dove davvero si rischia sempre di ragionare per stereotipi o luoghi comuni. E questo perché di certe commistioni se ne parla sempre poco, oppure se ne discute in maniera romanzata preferendo tramutare il dibattito in copioni utili a realizzare l’ultima fiction Rai. Si gira la testa dall’altra parte. E magari si preferisce vedere generazioni di ragazzi e ragazze abbandonare il posto natio per andare a far grandi le economie e le società di altre latitudini. Un’emorragia che descrive appieno il freno a mano con cui camminano alcune regioni dello Stivale.

Eppure, facendo un giro tra i bei vicoli del centro storico, viene quasi naturale chiedersi perché in pochi conoscano la Calabria per qualcosa che va oltre la “scappatella” estiva. Oltre il mare e oltre la spiaggia. Perché in pochi abbiano coscienza del suo bagaglio storico, di radici che ci restituiscono testimonianze vecchie millenni e storie che giocoforza hanno indirizzato parecchi usi e costumi. Viene da chiedersi se molti calabresi siano coscienti del tesoro che hanno costantemente sotto i piedi. La sensazione che si ha – nessuno me ne voglia – è che da queste parti (più che in altre zone del Sud) qualcuno abbia spinto affinché lo sviluppo del terziario trovasse ostacoli insormontabili. E anche la diffusione della cultura fa parte di ciò (la cultura non si può mai diffondere e ampliare con la costante emigrazione, aggiungo). Inoltre bisogna fare i conti con i tratti distintivi di un popolo molto differente dai suoi vicini campani e siciliani. Molto più chiuso e abbarbicato su sé stesso. Sia chiaro, non è una critica e ovviamente si parla in linea generale. Ma mi sento di dire che la somma di tutte queste cose, in alcuni ambiti non abbia certamente giovato alla Calabria.

Che poi a pensarci bene Catanzaro è davvero una città strana. Che suscita curiosità in me, ovviamente, proprio per le sue stranezze. Basti pensare al fatto che il suo quartiere più grande sia Catanzaro Lido, vale a dire la zona cittadina disposta sulla costa (di solito, nel resto della Calabria jonica, esistono sempre due comuni attigui: quello sul mare e quello sulla montagna/collina, vedasi ad esempio Cirò e Cirò Marina) che tuttavia è quantomeno differente dal centro storico posto a 320 metri di altezza e dal quale si dominano entrambi i mari che bagnano la regione. Leggenda vuole – tanto per dirne un’altra – che nella zona lidense sia disconosciuto il tipico “morzello”, una prelibatezza tutta catanzarese che prevede una seleçao di interiora di vitella cucinate nel sugo e ben disposte nella pitta, una forma circolare di pane. Tipico spuntino per manovali e operai. Insomma, la proverbiale colazione dei campioni. Questo tuttavia per sottolineare la particolarità di una città che, al contrario di quanto succede in buona parte del resto del mondo, per varie ragioni gestionali e baronali ha sviluppato il suo centro abitato verso l’alto anziché verso il mare. E qui, ad esempio, tornerebbe in auge tutto il discorso sul nuovo scalo ferroviario di Germaneto.

Tornando al motivo della mia visita, Catanzaro è una di quelle tappe che per innumerevoli situazioni mi è sempre sfuggita. Uno degli obiettivi che mi sono posto all’inizio di questo campionato per far sì che nella mia personale cartina geo/calcistica il Ceravolo potesse finalmente esser contrassegnato da una crocetta rossa. Eppure, tornando indietro di circa venti anni, non è neanche corretto dire che io non abbia mai avuto l’onore di vedere lo stadio dove le Aquile hanno scritto pagine importanti per il calcio di provincia, con i loro sette campionati di Serie A e una finale di Coppa Italia disputata contro la Fiorentina nel 1966 e finita con una sconfitta ai supplementari, con il 2-1 viola siglato su un contestatissimo rigore. Ricordo ancora in maniera nitida, infatti, quando in una di quelle torride estati trascorse a queste latitudini costrinsi mio padre a scorrazzarmi sin davanti all’impianto catanzarese, trovando però le porte chiuse e non avendo neanche l’opportunità di osservare il terreno di gioco e gli spalti. Ero in piena dipendenza calcistica e gli almanacchi, i vecchi album Panini e le videocassette dei campionati anni ’70 e ’80 rappresentavano le guida per buona parte delle mie azioni e dei miei desideri.

In realtà contribuì proprio mio padre ad accendere la miccia con i suoi racconti delle sfide disputate dalla Roma contro il Catanzaro, sempre dure e faticose, e dei gol puntualmente realizzati da Massimo Palanca. Di cui resta celebre la tripletta segnata il 4 marzo 1979 che permise ai calabresi di espugnare l’Olimpico per 3-1 (dopo che all’andata era stato sempre “Piedino” a decidere l’incontro). Altre epoche e altri personaggi, soprattutto al cospetto di una storia recente che in termini calcistici, per i giallorossi di Calabria, è stata spesso dolorosa e sanguinolenta.

Oltre a quella giornata agostana negli anni ho provato diverse volte a programmare una sortita al Ceravolo. Tentativi incredibilmente saltati per le più disparate ragioni. Tanto da rendere questa semifinale di Coppa Italia una mia personalissima sfida col fato. Ci sono voluti anni, ma alla fine ho vinto io!

Dicevamo della storia recente delle Aquile. Un misto tra sfiga, negligenze, fallimenti (sia sportivi che societari) e clamorosi insuccessi. Dalla stagione 1982/1983 – ultimo anno di massima divisione – sono passati ben 39 anni. Se si tolgono due stagioni in B a metà anni duemila (peraltro culminate con una retrocessione seguita dal ripescaggio e poi da un’altra retrocessione) credo che si debba dare atto a questa piazza di aver dato sempre grandi attestati di fede ricevendo poco o niente in cambio. Sarà pur vero che i rapporti d’amore non possono esser scanditi dal merito, ma va pure detto che il credo fideistico della gente catanzarese è qualcosa di ammirevole. A prescindere dalle ormai frasi retoriche su quanto sia importante seguire “al di là del risultato” e a prescindere dalle rivalità o dalle simpatie calcistiche, credo sia doveroso annoverare la tifoseria giallorossa come una delle più stoiche e perseveranti nel nostro panorama.

La cosa da cui rimango colpito è la serenità con cui i supporter giallorossi prendono coscienza di questa scalogna endemica. Se ne facciano quasi beffe ridendoci su ma non permettendo agli altri di farlo. Esattamente come l’innamorato in grado di fare autoironia ma capace di riempirsi di rabbia qualora sia un amico a prenderlo in giro. Perché il “Magico” – come lo chiamano in città – è talmente viscerale che non va neanche discusso. Ti accorgi della grandezza e di quanto sia radicato questo sentimento quando pure dopo una partita infrasettimanale di Coppa Italia Serie C la gente in città si ferma a chiacchierare di calcio, schiumando rabbia per questa o quell’altra decisione del tecnico, commentando l’arrivo ormai imminente di Iemmello o una decisione avversa dell’arbitro. Si percepisce che l’US Catanzaro è Catanzaro. E viceversa. E questo è un elemento che farà sempre la differenza. Al forestiero quale io sono rimarrà comunque dentro la sensazione di appartenenza. Magari non conoscendo tutto il resto, non sapendo divergenze interne alla tifoseria e acredini che in curva o allo stadio sono normali. Ma il tutto è “governato” da un sentimento molto più grande. Quello per la squadra.

Dopo aver immortalato i murales al di fuori dello stadio posso finalmente entrarvi. La sensazione è ovviamente bella e soddisfacente. Come ogni volta che metto per la prima volta piede in uno di questi templi del calcio italiano. Oltretutto fatta eccezione per la poco estetica tribuna in cemento realizzata nei Distinti, ritengo che l’impianto sia davvero bello. Edificato nel 1919 – e intitolato a al presidentissimo Ceravolo nel 1989 – conserva molto di quel fascino retrò degli stadi di un tempo, non risultando però troppo dispersivo. Immagino che di fronte a questa mia affermazione in molti storceranno la bocca, ormai desiderosi di impianti all’inglese o creati per il tifoso/consumatore. Io continui a preferire questi vecchi monumenti che trasudano fascino e storia. Unico rimpianto non aver potuto vedere il celebre pino marittimo che fino al 2008 ha caratterizzato la Curva Ovest!

Il pubblico atteso non è certo quello delle grandi occasioni, sebbene ritengo che numericamente la Ovest non sfiguri affatto. Inoltre i complimenti di giornata li meritano i tifosi patavini. Malgrado la gara infrasettimanale, l’orario infelice (15:30), le restrizioni, le quarantene e il valore della partita, si presentano nel settore ospiti in 72. Segno di un entusiasmo per una trasferta inedita, soprattutto in un annata che vede i veneti inseriti in un girone con ben poche piazze stimolanti da un punto di vista del tifo organizzato. In questi anni ho avuto spesso modo di incrociare gli ultras biancoscudati sulla mia strada e penso che sarebbe ingiusto non riconoscergli un’ottima costanza e una discreta crescita a livello di gruppo. Per loro, inoltre, pesa davvero come un macigno il fatto di giocare nell’inospitale stadio Euganeo e non in un impianto adatto a fare aggregazione e tifo. Ecco, quando si parla di strutture da rifare o migliorare si prenda su tutte ad esempio lo stadio del Padova, un palese esempio di come spesso si utilizzino male i soldi in Italia.

Dicevo della Ovest, cuore degli ultras di casa: ovviamente a farla da padrone ci sono gli striscioni degli Ultras Catanzaro, gruppo che essendo nato nel 1973 rientra appieno tra quelli più longevi ancora in attività. Le tante diffide prese negli ultimi anni hanno ovviamente pesato e anche per una sigla così importante andare avanti non è stata esattamente una passeggiata di salute. A vedere il gruppo oggi direi che tuttavia c’è stato un buon ricambio generazionale, che se lavorerà bene sarà in grado di tenere in vita il discorso di curva. Unica critica che mi sento di fare è sulla sinergia con il resto della curva. Forse, oggi, sarebbe stato importante riuscire a far spostare il resto della gente nei pressi del gruppo, in maniera da creare maggiore unità a livello visivo e sicuramente una più efficace compattezza a livello canoro. Benché gli ultras calabresi abbiano cantato e siano riusciti comunque a dar vita a una buona prestazione. Da segnalare l’assenza dei Volti Noti, gruppo che ha scelto di non seguire sino al ripristino della capienza al 100%.

Nulla da segnalare tra le due tifoserie che si ignorano per tutta la partita. Del resto l’ultimo incontro era datato 1989.

In campo – in piena armonia con la storia calcistica catanzarese di cui sopra – il Padova si impone 0-1 conquistando la finale grazie all’1-1 maturato in Veneto. Malgrado la Coppa Italia di Serie C sia storicamente una competizione tutt’altro che bramata da tifosi e società, da un paio d’anni dà l’opportunità alla vincente di accedere direttamente alla prima fase dei playoff. Se per i biancoscudati – secondi in campionato – questo appare abbastanza scontato, per il Catanzaro sarebbe sicuramente stata una certezza in più. Tenendo anche conto della difficoltà del Girone C dal secondo posto in giù (la testa della classifica occupata dal Bari direi che difficilmente muterà da qua alla fine).

Il sole sta lentamente tramontando creando un bel contrasto con le nuvole che lentamente hanno cominciato a far capolino nel cielo. Cammino per un altro po’ all’interno dello stadio adesso vuoto e silenzioso. Mi sorprendo che a volte questi luoghi riescano ancora a suscitarmi emozioni. Accade sempre più di rado, ma quando accade mi regala qualche minuto di effimera gioia.

C’è il treno notturno ad attendermi. E questa sì che è una cosa retrò. Retrò come quella giornata afosa con mio padre fuori lo stadio Ceravolo. Tentando invano di entrare. In fondo l’unico spirito che ancora può corroborare qualsiasi fantasia e qualsiasi voglia di raccontare i tifosi e tutto il mondo che li circonda può essere solo quello.

Testo e foto Simone Meloni