Architetto di formazione, Matteo Balduzzi opera nel campo dell’arte pubblica e della fotografia, intesa principalmente come mezzo di relazione tra le persone, l’ambiente, la memoria individuale e collettiva. È il curatore del Museo di Fotografia Contemporanea di Milano-Cinisello Balsamo, per cui a partire dal 2005 ha ideato e curato numerosi progetti caratterizzati da un intenso dialogo con il territorio e dal lavoro con gli autori delle più giovani generazioni. Fra queste, “Chi non salta. Calcio. Cultura. Identità” inaugurata il 12 giugno e aperta al pubblico fino a domenica 24 ottobre. La mostra, che prese il via parallelamente agli Europei di calcio, è un progetto che indaga il ruolo del calcio nella cultura italiana aprendo alla riflessione sul gioco del calcio come espressione dell’identità individuale e collettiva.
Protagonisti di questo percorso sono i lavori di trenta artisti diversi, di diverse generazioni e dalle diverse espressioni artistiche, dalla fotografia alle installazioni ai video. Fra i trenta selezionati anche i nostri collaboratori Sebastien Louis e Giovanni Ambrosio che hanno raccolto questa interessantissima intervista con il curatore della mostra.
Da dove nasce l’idea della mostra?
L’idea nasce da due o tre elementi complementari, contemporanei. Nasce dal clima durante il lockdown in Lombardia, che è stato durissimo, un po’ oppressivo. Tutti pensavamo che l’estate scorsa, a giugno, sarebbe scomparsa la pandemia, si sarebbe ritornati alla normalità, e i campionati europei di calcio (che si sarebbero dovuti inaugurare l’anno prima), avrebbero potuto anche rappresentare un momento di festa, di folla, di vicinanza fisica, di vicinanza simbolica. Oltretutto i campionati europei sarebbero stati itineranti, quindi in qualche modo avrebbero celebrato anche l’Unione Europea, che durante la pandemia, almeno all’inizio, aveva dimostrato il lato più solidale, meno tecnocratico. Almeno in apparenza.
“Chi non salta” doveva essere la mostra dell’estate, che tradizionalmente è la mostra più leggera, pensata per un pubblico più ampio, non soltanto quello della fotografia. Pensavamo quindi che il connubio fra calcio, campionati europei, fine della pandemia ed estate potesse avere anche un suo valore simbolico, di festa.
Sappiamo invece cosa è successo poi nella realtà, cioè che il decorso della pandemia non è andato come speravamo, l’estate è stata solo apparentemente spensierata e il museo è rimasto chiuso per un altro anno. Forse oggi ci troviamo in un momento carico degli stessi significati simbolici, ma con un po’ meno illusioni. Non abbiamo quella sensazione liberatoria che ci porta a pensare che tutto sia finito, anche perché usciamo da un anno molto duro. Pero, quando quest’anno ci siamo domandati se mantenere quel progetto dell’anno scorso, alla fine abbiamo detto di sì, che tutto sommato poteva essere interessante ripensare al progetto.
Uno dei motivi per cui abbiamo detto di sì, mantenendo il progetto anche un anno dopo, è perché nel frattempo il progetto si era arricchito. Con una serie di contatti, di ricerche e di opportunità. Nel frattempo avevamo messo insieme un mix di lavori e progetti che, a prescindere dell’occasione dei campionati europei dell’estate, offrivano spunti di interesse perché incentrati su una fotografia che non parla solo di fotografia. Cioè non una riflessione teorica su cos’è la fotografia oggi, eppure nel complesso, nella loro diversità ci mostrano esattamente cos’è la fotografia.
Un terzo elemento è il dialogo con la collezione. Nel fare questa scelta che ha portato al progetto espositivo, abbiamo riguardato le nostre collezioni. Scoprendo sei o sette progetti legati al calcio che non erano mai stati visti insieme. Molti di questi non erano mai stati neanche esposti tutti interi. Ovviamente il calcio è una cosa importante nella vita delle persone, quindi anche nelle collezioni del Museo di Fotografia Contemporanea ci sono diverse cose legate al calcio.
Il quarto elemento è perché proprio grazie ad un progetto sul calcio, il museo è andato avanti nel suo importante lavoro di rapporto col territorio, di partecipazione alle sue dinamiche sociali. All’interno della mostra ci sono infatti progetti partecipativi, ci sono momenti relazionali, c’è una mostra in piazza sul calcio a Cinisello Balsamo, che abbiamo fatto insieme alle squadre di Cinisello. Ci sono punti coerenti tra di loro, che ci hanno fatto decidere di proporre quest’estate una mostra sul calcio.
Perché il titolo “Chi non salta”? C’era un’altra idea prima, più offensiva, possiamo dire…
Sì, il working title, quando si comincia a ragionare un po’ su quello che potrebbe essere un titolo, una formalizzazione del concetto. Il primo titolo addirittura avrebbe potuto essere “Ma chi cazzo siete voi?”. Sarebbe stato un titolo molto crudo, che senz’altro avrebbe destato un certo scalpore, nel bene e nel male avrebbe funzionato sui media. Era senz’altro parte dei discorsi sull’identità che ci sono sulla mostra. L’affermazione dell’identità è sempre in bilico fra la coesione, la comunità, il gruppo e l’esclusione dell’altro. Non sono mai stato un fanatico della retorica dell’identità. L’identità è una nozione ambigua. Tutte le volte va ricontrattata tra i gruppi sociali. L’identità fine a sé stessa provoca l’esclusione, il razzismo, la pulizia etnica e via di questo passo. Diciamo che con “Ma chi cazzo siete voi?”, che è uno dei cori culto delle curve, avremmo girato il coltello nella piaga. Avremmo mostrato come l’identità può anche generare scontri o conflittualità. Diciamo che il titolo avrebbe spostato troppo l’attenzione sulla dinamica ultras e sull’identità come arma, tra virgolette. Mentre la mostra non parla solo di quello. È stato scartato più perché esprimeva solo un pezzo della mostra, che per la paura di utilizzare un titolo provocatorio.
Alla fine perché ha prevalso invece “Chi non salta”?
“Chi non salta” in qualche modo porta dietro lo stesso concetto: “Chi non salta è nerrazzurro”. Quindi reca una sorta di definizione dell’identità per negativo, però è molto corale, porta verso qualsiasi altra aggregazione di massa, dalla discoteca alla piazza. Si muove su un territorio un po’ meno esclusivamente da curva ultras, è uno slogan – se vogliamo – della società tutta, con una dimensione meno di conflitto e più di festa.
In Italia negli ultimi anni ci sono state poche mostre sulla tematica del calcio ed è paradossale, visto che la passione per il calcio è molto forte nel paese. C’è solo un piccolo museo sul calcio a Coverciano, a differenza per esempio della Germania dove c’è stata sempre un’attenzione molto forte su questo sport.
Un paio di mostre sul calcio in Italia ci sono state. Diciamo che ad un certo livello arte contemporaneo e calcio si avvicinano. Hanno a che fare con modelli di business simili, hanno a che fare con un’idea di star system simile e probabilmente anche i finanziatori, i circuiti economici si assomigliano. A partire da Catelan ci sono stati tanti artisti che hanno lavorato col calcio; un fenomeno così mediatico, popolare. Quello che forse manca, come spesso succede nel nostro paese, è l’elaborazione da parte del mondo della cultura in genere di questo fenomeno. Il fenomeno è relegato o all’ambito puramente sportivo, oppure estremizzato ai vertici per cui un curatore-star, un’artista-star fa un progetto sul calcio, come Parreno che fa il video su Zidane, icona con icona. Manca invece una professione culturale di base perché manca la cultura in Italia, per ragioni credo soprattutto di residui di quell’ideologia per la quale il fenomeno calcio non viene ritenuto degno di essere affrontato. In un posto come l’Italia, con la nostra storia di piccoli comuni, di rivalità medievali, sarebbe giusto avere una mostra, un piccolo museo sul calcio in ogni provincia. Non necessariamente una grande mostra come quella che potrebbe fare il Mucem o il Pompidou – che poi non farebbero mai, perché sono “troppo artistici” – ma in un contesto come quello italiano ci dovrebbe essere una mostra come questa a Cinisello incentrata sul sociale e la partecipazione anche a Palermo, e poi un po’ alla volta un piccolo progetto a Napoli, poi un piccolo museo, ecc. M’immaginerei tutto ciò come giusto corollario nel rapporto fra calcio, cultura e società in un paese come l’Italia. Anche se penso che il mondo della cultura non sia ancora pronto per questo.
Per fare una mostra sul calcio bisogna per forza essere appassionati di questo sport? Qual è il vostro percorso da tifosi, se ce n’è uno, e da dove viene questa passione per il calcio?
Bisogna senz’altro essere appassionato o comunque molto curioso verso questo sport. Io sono anche appassionato di calcio, però per fare una mostra devi essere appassionato assolutamente per quello che fai. Puoi vedere magari in alcuni elementi delle cose interessanti che non conosci. Cioè una mostra può essere anche un percorso di conoscenze. Delle volte si fanno delle mostre di qualcosa che non conosci o conosci poco, ma senti che qualcosa ti incuriosisce. Nel caso del calcio, io personalmente ho un rapporto che è andato molto ad ondate negli anni. Nel senso che mio padre era tifoso, era molto tifoso, di un tifo moderato ma fermo. Lui viveva a Trento da ragazzino e il suo sogno di ragazzino di provincia, era una volta all’anno venire a Milano a vedere il Milan. Senza neanche passare da piazza Duomo e tornare fra le sue montagne. Quindi questa passione in famiglia c’è stata. Quando ero giovane, il Milan era in serie B e lo stadio era gratuito e quindi alle medie io andavo a vedere il Milan spesso, semplicemente perché era gratis. Il Milan era in serie B, era un disastro all’inizio degli anni ‘80.
Dopo quella fase, ho praticato atletica leggera per 15 anni e vissuto al contrario il rapporto col calcio. Odiavo il calcio, odiavo i calciatori di 18 anni che guadagnavo 8 milioni di lire al mese, mentre noi vincevamo delle gare e prendevamo una penna e 30.000 lire. Ci allenavamo tutti i giorni, conoscevamo la fisiologia e questi qui erano dei selvaggi pettinati con la macchina tamarra e guadagnavano. Quindi un po’ di rivalità c’era e per molti anni non ho seguito tanto il calcio anche per quello.
Al museo un carissimo collega era un grande tifoso del Milan, così abbiamo deciso di portare qua la mostra “European fields. The landscape of lower league football” di Hans van der Meer nel 2006, un progetto bellissimo sul calcio amatoriale in tutta Europa. Nel frattempo ho visto il Milan vincere l’allora Coppa dei Campioni con il gioco più bello di questi 20 anni, per poi disinteressarmi di nuovo. Ho visto a volte partite in curva, a volte al secondo anello, a volte in distinti. Ecco, non ho mai avuto diciamo una connotazione esatta.
Tutto un piano della mostra è dedicato agli ultras. Una tematica molto contradditoria in Italia e spesso snobbata dal mondo della stampa, della cultura, ad eccezione del lavoro di Daniele Segre nel lontano 1979. Come mai avete dedicato questo spazio agli ultras?
La mostra è strutturata in due grosse categorie, più o meno: ossia il calcio osservato ed il calcio praticato. È una mostra sul calcio come fenomeno sociale, quindi esclude la Champions League, le star, i personaggi. Ed è anche guidata un po’ dalla figura di Pasolini, uno dei pochi intellettuali che oltre a disquisire di calcio in modi molti diversi, sia dal punto di visto semantico che dal punto di vista del rito, era un appassionatissimo giocatore di pallone. Giocava a calcio nella Nazionale Attori, giocava a calcio durante i tour di registrazione dei suoi film; scendeva per strada in giacca e cravatta e giocava a calcio con i ragazzi delle borgate romane.
A me è sempre piaciuta molto l’idea di scardinare gli intellettualismi. Specie quelli della sinistra marxista di allora, non soltanto con i discorsi ma proprio giocando a pallone con la camicia buona ed i pantaloni del vestito migliore. Perché questa è proprio una passione primordiale, quasi un richiamo ancestrale, che quando vedi un pallone rotolare ti porta inevitabilmente a chiedere: posso giocare? Ed è un gesto che supera immediatamente le barriere culturali, sociali, linguistiche.
Su questa falsariga, appunto dalla passione di Pasolini per il calcio, abbiamo diviso la mostra in questi due percorsi. Il piano dedicato agli ultras, in realtà ha dentro anche altri elementi sul calcio osservato e su questa idea di identità e di coesione. Senz’altro gli ultras rappresentano uno degli aspetti più importanti. C’è una certa predominanza ultras, ma non è tutto su quello. Volevo mettere un progetto di Matteo de Mayda, nato due anni fa a Roma per i Mondiali, quando è andato a fotografare tutte le comunità straniere mentre guardavano le partite della Coppa del Mondo, mostrando luoghi d’incontro e riti di ogni singola comunità. È stato a casa degli islandesi, è andato a vedere le comunità marocchine che si incontravano nei tendoni, insomma ha seguito ognuna di loro osservando come il calcio polarizzasse le loro parole, gesti ed emozioni. E in questo modo molto semplice raccontava la vastità, le diverse identità. Poi con Matteo abbiamo cambiato lavoro perché voleva fare qualcosa di nuovo, voleva andare in Macedonia del Nord, e quindi non abbiamo approfondito così tanto quel discorso di identità nazionale. Però nel suo caso non si tratta solo di ultras, ma c’è proprio l’idea che tutto un paese nato trent’anni fa dalle ceneri dell’ex Jugoslavia, di fronte ai campionati europei rimette un po’ in gioco, a volte con retorica, a volte in modo più dubbioso, la propria identità nazionale.
Il lavoro, molto interessante, di Previdi sulla società di oggi, fa invece vedere quanto una certa estetica ultras sia stata assunta da studenti dell’università che giocano una partita ogni quattro anni. Persone che non hanno niente di ultras. È come se ci fosse la forma della fede, senza niente della fede. Che rinvia all’estetica degli ultras, ma di ultras non c’è niente: sono quattro matti che per pura goliardia si vestono da ultras.
Il reportage di Battistessa è altrettanto interessante perché lui, negli anni ‘70, legge lo stadio, la struttura sociale. A differenza del lavoro di Segre non entra nel fenomeno sociale, ma rilega lo stereotipo tipico degli anni della contestazione per il quale la società è una struttura rigida, gerarchica di potere e lo stadio mette in luce le stesse strutture della società. Ci sono i borghesi che vanno nei Distinti vestiti bene, i popolari che ospitano i ceti poveri, i facinorosi e la polizia che li randella, ecc. C’è una narrazione parallela che non fa che confermare gli stereotipi della società. Mentre invece Segre è il primo che, piuttosto che appiccicare un’etichetta, si chiede: “Chi son veramente questi?. Il lavoro di Battistessa non è sugli ultras, ma sul tifo normale, però quando entri nella sala ti accoglie il coro di Ruth e ti ritrovi davanti ad un lavoro molto denso e in cui l’immaginario ultras, vuoi o non vuoi, è preponderante.
Hai imparato qualcosa di nuovo con il lavoro sugli ultras, c’è stata qualche rivelazione o qualche sorpresa su alcuni aspetti che non conoscevi?
Avendo alcuni amici ultras e non avendo mai avuto avversione sociologica o ideologica, sono sempre stato molto curioso di un mondo che conosco poco. In qualche modo ho imparato un sacco di cose, ma non cose che mi hanno ribaltato la prospettiva. È come se alcuni indizi che io avevo, si siano in qualche modo manifestati un po’ più pienamente. Sono entrato un po’ di più in questo mondo grazie soprattutto al vostro lavoro, a Giovanni Ambrosio e a te. Ho avuto delle conferme, dei piccoli segnali che mi sembravano interessanti, non banali e soprattutto lontani da quello che è lo stereotipo. Ecco, io ricordo benissimo il fenomeno degli hooligans, non è direttamente ascrivibile nella galassia degli ultras, però a meta degli anni ‘80 quello che era successo all’Heysel ha instillato nella società italiana l’equazione immediata: hooligans assassini, ultras assassini, reprimiamoli tutti. Credo che lì per lì anch’io ho avuto quel sentimento, poi in realtà la curiosità ha prevalso e sono molto contento di avere approfondito pezzi di questo universo.
Avresti mai immaginato che fosse una cultura globalizzata fino a questo punto e che l’Italia ne fosse il centro?
Dai tanti segnali che avevo colto, come la solidarietà degli ultras, le loro forme di impegno sociale, non mi sorprende. Perché dove c’è una forte fede, non è strano che ci siano poi forme di volontariato, di aiuto verso il prossimo. Mi mancava forse la varietà, la quantità di questi modelli, e anche la loro estetica. Perché un conto è dare per scontata l’estetica ultras avendola sempre vista.; un conto è ragionare su come si sia formata e poi mano a mano si sia diffusa in giro per il mondo ed è quello che ho scoperto con il vostro lavoro, in Nord Africa, in Estremo Oriente, con questi filoni di mondo ultras di cui qualcosa mi era sfuggita.
La tematica migratoria è presente con le opere di Ghana-Palermo o “Io sono Rummenigge”. Una tematica d’attualità in tutt’Europa e in Italia. Vi troviamo tutto il potere “integrante” del calcio. Il calcio è infatti uno strumento potente per l’integrazione, non solo dello straniero, ma anche dei ceti sociali più emarginati. Lo stadio e il campo sono fra i pochi luoghi interclassisti, intergenerazionali e interculturali.
Quando si parla di integrazione si dimentica troppo spesso la questione del ceto sociale, questione su cui io insisto molto col nostro lavoro del museo, considerando anche il fatto che il museo stesso è a Cinisello Balsamo. Lo straniero, che in qualche modo è riconducibile a “nemico politico”, nel bene o nel male è una presenza consolidata nell’immaginario comune. Si può essere favorevoli o contrari all’integrazione, alle politiche integrative, ma insomma è un tema presente. L’incomunicabilità della società invece, a livello di quelle che una volta erano le classi sociale, in realtà è un tema affrontato pochissimo ed al quello tengo molto. Il mondo della cultura invece di fare tantissimi laboratori con le varie etnie, tutte un po’ standardizzate, dovrebbe interrogarsi di più su come fare a raggiungere in modo trasversale ceti sociali molti diversi. Ed è appunto uno dei motivi di questa mostra e delle linee guide del progetto del museo. Abbiamo lavorato tantissimo, tentando di coinvolgere fasce molto trasversali di popolazione dentro la creazione dei progetti artistici. Da questo punto di vista il calcio è eccezionale, perché ha una sua intrinseca semplicità ed è presente dappertutto. Una parte della mostra riguarda il paesaggio, ed è una cosa sulla quale non si riflette tanto spesso, ma il campo di calcio è uno spazio in qualche modo libero. Uno spazio di dialogo, di incontro, di discorso aperto, disponibile in tutte le città d’Italia, del mondo forse. Uno spazio che non ha bisogno di infrastrutture, di permessi, di regole, di accessi, ed in qualche modo il campo di calcio è anche una piazza. Nella mostra ci sono anche alcuni esempi di quanto questo segno diventi già di per sé una piattaforma di dialogo. E quindi credo che, come sempre, quando nella società si mette a disposizione un luogo libero, poi le cose tendono anche a succedere da sole. Forse è un po’ troppo ottimistica la visione di piazza, che è un’altra cosa molto italiana, storica, cioè di un luogo in cui semplicemente dando la possibilità d’incontro, poi l’incontro avviene. Comunque il calcio, da questo punto di vista, è veramente una lingua che ha dei suoi codici che non ti richiede di avere due Master per potere interagire.
Nella mostra i protagonisti del calcio non sono proprio quelli che son al centro del campo, difatti sia con l’obbiettivo di Paola Di Bello, che osserva la città attraverso le porte di calcio, o nel lavoro di Hans Ven der Meer, vediamo tutto da un’angolazione totalmente diverso.
Quello che di solito l’arte usa del calcio apre a una riflessione molto interessante sull’aspetto legato allo show, noi per scelta della mostra, parliamo invece del calcio degli altri. Ci sono un sacco di sterrato, cemento, pietre e nessun prato verde. Ci sono persone che guardano le partite, tifosi, ultras e non ci sono invece i grandi personaggi tipo i politici. Per ricercare questa forte coerenza, pur negli spazi e nei budget limitati, in alcuni casi, abbiamo deciso di sacrificare e non esporre alcuni lavori molto belli sul calcio ma che portavano da un’altra parte. Ci sono anche stati proposti lavori molto poetici se vogliamo, su giocatori del Milan persi nella nebbia. Lavori che avevano un taglio di interesse più fotografico ma su un tipo di calcio che non avevamo interesse a proporre. Anche di modo che non ci fosse ambiguità. Che fosse evidente, uscendo dalla mostra, di aver visto soltanto persone normali.
La storia fotografica italiana del calcio è molto importante, lo vediamo per esempio con l’opera di Lucania che ha lavorato su questo. Ultimamente, questa dimensione antropologica sembra sia però venuta a mancare.
Ultimamente non lo so, nel senso che credo ci sia stato un buco. Lavori puramente antropologici degli anni ‘50 non potevano prescindere del calcio, nell’Italia del post Neorealismo. Oggi magari le vediamo anche con un po’ di “colonialismo” quando riguardiamo ragazzini del Sud in pantaloncini che giocavano a pallone nelle piazza sterrate dei paesi. Aldo Girardi non ha fotografato esclusivamente il calcio, ma quando andava in giro con De Martino non poteva evitare il calcio. C’è molto calcio negli anni ‘60, la fotografia umanista in Italia, spesso non ad opera di professionisti ma di colti amatori, era capace di cogliere la vita nelle città, i giochi, i primi segnali di benessere economico, le domeniche fra amici o parenti. Questa fotografia trasuda calcio, fra le periferie che cominciavano ad espandersi, i ragazzini con i palazzoni in costruzione dietro. Poi negli anni ‘80 la fotografia italiana si è concentrata sul paesaggio in modo quasi esclusivo. E lì il calcio è proprio sparito. Finito il reportage, non si è stato capaci di raccontare il calcio con un linguaggio che non fosse narrativo.
Negli ultimi anni lo scenario è molto cambiato, come cerchiamo di raccontare in questa mostra. Il lavoro di “Ghana Palermo”, di un autore molto giovane come Giulio Iacoluto, si basa molto sul linguaggio; Matteo di Maida anche utilizza un linguaggio molto contemporaneo per parlare di calcio. I linguaggi sono quindi più mescolati, c’è meno mainstream e quei 5/6 lavori sul calcio di fotografi giovani, son interessanti anche perché non hanno nulla di già determinato a priori.
Cos’è il calcio nel 2021? Non parlo dello sport professionistico che fa parte dell’industria del tempo libero ma, come nei diversi lavori della mostra possiamo vedere, della pratica di inclusione sociale che va al di là di uno sport. All’inizio, quando abbiamo pensato di fare una mostra sul calcio, non voglio dire che è stato come pensare a una mostra sulla vita o sull’amore. Ma è di fatto una galassia complessa, estesa in tutto il pianeta, per cui è molto difficile dare una risposta univoca. Io credo che la nostra mostra sul calcio, che ha questo sguardo così netto, abbia proprio voluto fornire un punto di vista sul calcio complementare agli altri. In realtà c’è una comunicazione fra questi diversi livelli. Anche se è chiaro che è un mondo ormai completamente finanziario, però poi, nell’immaginario delle persone, restano scolpiti i goal. C’è in tal senso un laboratorio che vorremo fare con Emmanuele Meschini, che usa il calcio per raccontare la storia di un quartiere di Trieste. Vogliamo fare un reenactment di goal famosi, per esempio provare a lavorare con ragazzi giovani per rifare il goal di Tardelli. Ora, il goal di Tardelli, uno che ha dieci anni non l’ha mai visto, non sa cos’è. Con il passaggio generazionale, vorremmo comunque provare a vedere come funziona con i ragazzi di oggi. In questo incrocio tra immaginari, ricordi. Il calcio è tutto. Non vorrei comunque che passasse che la tesi di questa mostra sia contrapporre questo calcio buono a quell’altro calcio cattivo, ma semplicemente che di questo calcio nei media se ne parla poco, così come se ne parla e lo si rappresenta poco nell’arte, per questo c’era e c’è più bisogno di fare una mostra su questo. Ma non perché l’altro non conta, bensì solo perché l’altro c’è già ed è sovra-rappresentato.
Intervista raccolta da Sebastien Louis.
Foto di Giovanni Ambrosio.