Il 9 agosto del 2009 siamo a Trieste. Coppa Italia. Un centinaio, da Foggia. Entriamo con una telecamera puntata in faccia. Cantiamo Storia d’amore di Celentano per tutto l’intervallo e prima dei supplementari. Usciamo dal settore che è notte. Un tizio ferma due dei nostri, gli chiede i documenti, appunta i loro nomi. Qualche giorno dopo arriva il daspo. Possesso di artifizi pirotecnici. Le immagini non chiariscono granché. La Questura di Trieste annulla il provvediento. Ma il procediemento penale va avanti. A 850 chilometri di distanza, senza imputati in aula. Articolo 6-ter, legge 401/1989. “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive”. Qualche giorno fa, per i due – che nel frattempo non vivono più a Foggia – giunge l’istanza di carcerazione. Nel silenzio dettato dalla dimenticanza tipica delle cose secondarie, l’iter processuale era infatti andato avanti, implacabile e ignorato. Ai due, ai loro familiari, si comunica che la Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso dei legali. Pene confermate: 7 e 10 mesi di reclusione. Il 20 dicembre del 2014 c’è Foggia-Barletta. La celere, schierata in forze, irrompe in Curva Nord mentre il settore è ancora pieno e le porte sono chiuse. Carica. A fine partita, per diverse ore, ci sono incidenti nelle vie che circondano lo “Zaccheria”. I tutori della legge, in scacco, fermano chiunque abbia una sciarpa rossonera al collo. Per uno dei nostri scatta l’arresto. Poco prima di Natale, il processo per direttissima. Resistenza, lesioni, danneggiamento. Si rifiuta il patteggiamento. Comincia lo stillicidio delle udienze, durante le quali gli agenti si contraddicono spesso e si discute del riconoscimento di gente travisata. Il PM chiede 8 mesi. Il giudice condanna a 10. Così, tanto per gradire. Per far capire chi comanda.
Una storia di fantasmi raccontata troppe volte non fa più paura. Una battuta fatta troppe volte non fa più ridere. Non diciamo niente di nuovo. Ma è bene non fare l’abitudine all’abuso, anche se l’abuso viene perpetrato con metodo e sistematicità. Non dobbiamo, noialtri, mai perdere il senso delle cose. E della misura. E neppure l’indignazione e il disprezzo profondo nei confronti di questi esecutori, di questi ingranaggi del sistema, di questi killer dalle mani pulite. Condannare a sette e a dieci mesi di galera gente che ha acceso una torcia in un campo sportivo, oltretutto senza pericolo per il prossimo e a otto anni di distanza, significa non avere alcun rispetto per la vita degli individui. Condannare a dieci mesi un soggetto che i testimoni non hanno saputo riconoscere, dare un segnale agli altri che stanno subendo lo stesso procedimento dinanzi a un altro giudice, significa giocare con la propria presunzione d’onnipotenza. Significa ritenersi inattaccabili. Significa che, nelle aule di tribunale, il “reato da stadio” ha una corsia privilegiata, un trattamento speciale.
Gli Ultras sono, da anni ormai, il nemico pubblico numero uno, in questo Paese assuefatto e fintamente pacificato. Volevamo soltanto, qualora ve ne foste dimenticati, ricordarvelo.
Avanti, Ultras!
Ciurma Nemica Foggia