21 giugno 1987. È il 38′ di Lazio-Vicenza, ultima giornata del campionato di Serie B. I biancazzurri devono vincere. Vincere e basta. Per scongiurare la retrocessione in Serie C. Per scacciare indietro il fantasma dell’esser inghiottiti dal buco nero del calcio. I ragazzi di Eugenio Fascetti sono partiti con un forte handicap. Penalizzati di 9 punti per i fatti relativi al calcioscommesse. L’Olimpico è pieno in ogni ordine di posto. Durante la partita i romani ci provano, prendendo a “pallonate” la porta dei veneti, ma la sfera non ne vuol sapere di entrare. E la paura cresce.
Rassegnati, con le mani nei capelli. I tifosi osservano così lo scorrere dei minuti. La palla arriva a Podavini, che la calcia in porta senza troppe velleità. La traiettoria lenta e destinata fuori impatta i piedi di Giuliano Fiorini. Si gira, riesce a eludere un avversario e si esibisce in una spaccata che, col piede destro, precede l’uscita del portiere berico. La palla supera la linea di porta. È gol. È il gol che tutti aspettavano. È il gol che manda Fiorini sotto la Curva Nord, tra mille abbracci, a fondersi con l’immenso striscione degli Eagles Supporters. La rete che fa scendere le lacrime sulle gote dell’attaccante modenese. La Lazio è agli spareggi. Taranto e Campobasso saranno gli ultimi arbitri di una folle cavalcata, trascorsa praticamente sempre a rincorrere.
I capitolini perderanno col Taranto. Ma batteranno il Campobasso. Un gol di Poli, con la testa, farà da vero e proprio spartiacque tra l’inferno e il paradiso. Dopo una nottata insonne, dopo il pullman della squadra mandato in fiamme nella precedente partita. Dopo quel fiume di passione che si mosse con la forza della disperazione sull’Autostrada del Sole. Ed è giusto cominciare da là. Prima ancora che dalla banda “di matti” del 1974 o dai campioni portati a Roma sul finire degli anni ’90 da Sergio Cragnotti. È giusto cominciare dalle parole emozionate di Fabiana Fiorini, la figlia di Giuliano: “In famiglia porteremo sempre nel cuore la Lazio”. Perché dai momenti di estrema sofferenza possono nascere nuove ere e rimanere scolpite per sempre storie di calcio indelebili, in grado di influenzare intere generazioni di tifosi.
Certo, lo dico chiaramente, una manifestazione del genere è forse un “unicum”, e quindi per tanti versi resta irripetibile la sua prima edizione, andata in scena un paio di anni fa. Eppure, è altrettanto vero, in tempi come questi con una Roma stritolata da decisioni proibizioniste in fatto di stadio (e non solo) e un calcio sempre più distante dal suo “popolo”, che vedere 50.000 persone affollare l’Olimpico, con bandiere, torce, striscioni e cori, è sempre un qualcosa di positivo. Benché le barriere siano là, a ricordare come, forse, da quel passo epocale e straziante per un certo modus vivendi, non si tornerà mai più indietro.
Ma di questa serata è meglio evocare l’aspetto aggregativo. Quello che ha permesso a tanti di tornare allo stadio con prezzi modici, senza una folle repressione e con la possibilità di non sedere nelle stesse gradinate ove, distante di pochi metri, “alberga” quel Claudio Lotito divenuto ormai una della maggiori icone di un certo tipo di calcio italiano. Lo stesso che, diciamocela tutta, ha svuotato gli stadi e ridotto i tifosi a cavie da laboratorio. Non a caso tanti dei cori sono proprio contro il patron della Lazio. Ma oltre all’aspetto “contro”, c’è un aspetto “pro” che va sottolineato.
In campo scendavano, oltre alla squadra del 1987, anche quella dello scudetto 2000 e quella del tricolore 1974. Forse le tra rappresentative più significative nell’ultracentenaria storia del club nato in Piazza della Libertà, sulle sponde del Tevere. È vero che prima di arrivare a quegli spareggi di Napoli, a quella “drammatica” salvezza e al pianto di Fiorini, ci sarebbero da citare le imprese del 1974 e quelle del 2000. Quest’ultima, arrivata anche grazie al gol di un signore presente stasera sul manto verde dell’Olimpico: Alessandro Calori. L’autore della rete che permise al Perugia di battere la Juve sotto al diluvio del Curi, e alla Lazio di scavalcarla in classifica facendo conoscere a quel torneo un pazzo epilogo. Un torneo segnato da pesanti polemiche inerenti alle conduzioni arbitrali.
Il gol, regolare, annullato al Parma contro la Juve al Delle Alpi, fu la goccia che fece traboccare il vaso. La grande manifestazione indetta dalla Curva Nord l’11 maggio 2000. Lo scudetto strappato l’anno prima dal Milan (il gol annullato a Christian Vieri contro i rossoneri grida ancora vendetta). Le cariche selvagge di polizia e carabinieri (anche Cragnotti tuonò: “Non giustifico le violenze, ma le forze dell’ordine hanno reagito in maniera sproporzionata”). Le contestazioni a Moggi. A quel sistema che, qualche anno più tardi, si rivelerà veramente inquinato E lo scudetto del 14 maggio 2000. In quel Lazio-Reggina. Al termine di quell’attesa infinita. Andata oltre i 90′, ma lunga realmente 26 anni. Nessuno ha dimenticato e, seppur al netto di tutti i suoi errori, l’ovazione per Cragnotti è più che comprensibile. Così come quella per i tanti protagonisti di quella cavalcata e di quel periodo.
Ora, pensate voi chi ha vissuto la paura di veder sparire la Lazio. Pensate chi si è sobbarcato trasferte, viaggi e umiliazioni casalinghe negli anni ’80. Immaginateli al Villa Park di Birmingham, mentre alzano la Coppa delle Coppe, o a Montecarlo, quando Marcelo Salas, battendo l’estremo difensore del Manchester United Van der Gouw, regala loro la Supercoppa Europea. C’è un filo sottile ma robusto che lega la sofferenza alla gioia dei laziali. Ed è quello su cui verte una serata come questa.
I paracadutisti aprono l’evento, calando in campo dall’alto. Poi è il turno di Olimpia e, infine, delle squadre in campo. Con i tifosi ad essere i veri protagonisti. I canti, i colori e, per una sera, la ritrovata unità e il ritrovato sentimento che permette a tutti di usufruire di un luogo pubblico così semplice e poetico come lo stadio. Malgrado lo abbiano trasformato in un lager. C’è il tifo della Nord, ma anche la voce della Tevere e della Monte Mario, per una sera unite in un unico cuore pulsante.
E chi vince? La squadra del 1974. Ovvio. Che domande facciamo? Loro a perdere non ci sono mai stati. Anche stasera li guardava dall’alto Tommaso Maestrelli. “Er Maestro” ha soffiato sui suoi ragazzi, anche su chi non ci può più essere. Anche su Giorgio Chinaglia, simbolo di una lazialità verace e senza fronzoli. C’erano i sentimenti e le bandiere di quel Lazio-Foggia, lontano ormai 42 anni. Anche negli occhi dei bambini e di chi quegli anni non li ha vissuti. Perché la storia è un tormento che torna sovente, raccontando, insinuandosi e istaurando rapporti indistruttibili. “La storia dà torto e dà ragione” diceva De Gregori. E quando si parla di romanzi calciofili, siamo sempre dalla parte della ragione.
Simone Meloni