Non ricordo esattamente quando è stata l’ultima volta che ho messo piede in un palazzetto per una partita di basket. È un po’ come l’ultima partita di pallone che giochi con gli amici di scuola per strada. Non sai che è l’ultima e quando te ne accorgi, anni dopo, finisci per non rammentarla più. Dispersa nel mare di ricordi e momenti di vita vissuta.

La pallacanestro per diverso tempo ha rappresentato una bella alternativa al al calcio ma – sebbene tutt’oggi ne conservi la passione – a un certo punto è scomparsa dalla mia vita senza far rumore. Probabilmente la caduta libera – e successivamente la scomparsa – della squadra che ha rappresentato la mia città ha influito in maniera decisiva, ha appannato quel sentimento di entusiasmo che ho sempre provato mettendo piede in un palazzetto. Sentore che peraltro da calciofilo non è poi così scontato, sebbene personalmente non abbia mai interpretato la passione per il calcio come ghettizzante nei confronti degli altri sport. Non a caso sono un amante delle polisportive balcaniche e del loro seguito.

Torno a vedere dal vivo la palla a spicchi quasi casualmente e in un palazzetto tutt’altro che “battuto” considerata la sua complicata posizione geografica. Il post Torres-Reggiana, infatti, è l’occasione buona per assistere al match tra la Dinamo Sassari e Scafati, esordendo ufficialmente al PalaSerradimigni ed entrando in contatto con la realtà cestistica isolana, salita alla ribalta negli ultimi anni grazie alle ottime stagioni che l’hanno portata a conquistare il primo scudetto della sua storia (2014) e a essere il primo club sardo a trionfare in campo europeo, con l’Eurocup conquistata nel 2019.

Ma cosa è la Dinamo Sassari esattamente? Incuriosito dal suo nome, anni fa lessi con un certo interesse la sua genesi, trovando degli ottimi spunti di riflessione dal punto di vista sportivo/storico. La Polisportiva Dinamo nasce esattamente il 23 aprile 1960, su spinta di dieci studenti del Liceo Classico “Azuni” di Sassari che già da diverso tempo si riunivano per praticare la pallacanestro nel campo della scuola di San Giuseppe. Per volersi differenziare dai nomi di ispirazione cattolica (es. Libertas) in voga all’epoca presso le squadre cittadine, i ragazzi optarono dapprima per Virtus, salvo poi utilizzare la declinazione greca del termine: Dynamis. Volendo avvalorare la loro formazione classica. Tuttavia per la difficoltà nel reperire lettere greche per comporre maglie e uniformi, si scelse per il più semplice Dinamo. La cosa fece sì che molti sodalizi parrocchiali si rifiutassero di giocare contro la compagine neonata, enfatizzando un nome a loro inviso, che soprattutto all’epoca richiamava ai club gestiti dai Ministeri dell’Interno dei vari regimi comunisti dell’Europa Orientale.

Una curiosità: la società nacque come Polisportiva perché nei primi anni era attiva anche una sezione pallavolistica impegnata nei campionati CSI. Malgrado la sua successiva dissoluzione il nome rimarrà invariato negli anni.

Dopo l’affiliazione alla Federbasket (1963) il club comincia a crescere a piccoli passi, con la partecipazione alla Serie C del 1967 che verrà ricordata sia per il cambio di colori sociali (da biancoblu ad amaranto) che per l’eliminazione in Coppa Italia avvenuta per mano della Brill Cagliari (all’epoca unica squadra sarda ad aver raggiunto la massima divisione). Con l’arrivo dell’Avvocato Dino Milla alla presidenza (1974) il club comincia a crescere con più costanza. Arriva la prima sponsorizzazione, griffata L.I.S.A. Parodi, un’azienda che aveva il proprio raggio d’interesse nella zona industriale di Porto Torres, nonché la stabilizzazione sportiva tra Serie C e Serie B. Nel 1981 il sodalizio si sposta al nuovo PalaSegni (attuale PalaSerradimigni,) mentre nel 1989 approda per la prima volta in A2, battendo ai playoff un altro astro nascente del basket italiano, la Mens Sana.

Il vero salto di qualità – almeno a livello economico – avviene senz’altro nel 1990, con il Banco di Sardegna che diviene main sponsor (imponendo peraltro il secondo cambio di colori sociali, stavolta in biancoverde). Gli anni novanta vedono la Dinamo alternare fortune sportive (tra cui una finale playoff persa con Rimini) a due retrocessioni (la prima “vanificata” dal titolo di Forlì acquisito). Mentre con l’avvento degli anni duemila i sassaresi conoscono la definitiva consacrazione: nel 2005, dopo 33 anni, l’Avvocato Milla cede il controllo a Luciano Mele. In quel periodo ritornano sulle maglie i colori biancoblu. E, di fatto, si apre l’ascesa al massimo periodo di fortune cestistiche della città di Sassari, culminato con i successi di cui sopra.

Un cammino del genere, ovviamente, sottintende anche la parallela crescita del seguito e della fedeltà nei confronti del club. E, da persona curiosa, la prima domanda che mi sono fatto è: la Dinamo Sassari rappresenta davvero tutta la Sardegna? Che può sembrare un quesito stupido, ma se poi si pensa all’atavica rivalità con Cagliari e a quello che possa voler dire rappresentare “un’intera regione” in un Paese campanilistico come l’Italia, tanto stupida non è. È chiaro che con il boom di successi in parecchi possono aver seguito l’onda del momento. Avviene in ogni sport, il basket non fa certo eccezione. Ma credo che se la si guarda dal punto di vista del tifo organizzato – o quantomeno più costante – forse è alquanto azzardato voler estendere il raggio di “identificazione territoriale” anche al di fuori dei confini sassaresi. Per quanto sia ovvio che da un punto di vista del marketing faccia comodo a tanti (società in primis) far passare questo messaggio.

Tuttavia parliamo di una realtà, quella sarda, che è sicuramente molto più complessa di quanto si pensi da descrivere. E che per molti – al di fuori da logiche storiche o del campanile – può esser tranquillamente rappresentata da qualsiasi successo provenga dall’isola, a prescindere da città o zona. Il basket, nessuno si offenda, rispetto al calcio mantiene sempre un po’ più di “morbidezza” su talune tematiche e, al di fuori dei gruppi ultras, poggia comunque su un pubblico generalmente meno oltranzista e popolare (fatte chiaramente quelle dovute eccezione che in Italia esistono e nella stessa città riescono tranquillamente a soppiantare il football per seguito e calore).

Entrando più nello specifico e approfondendo ciò che più ci interessa, avevo la curiosità di conoscere da vicino il tifo organizzato locale. Sono sincero: sui sassaresi non sono mai riuscito a farmi un’idea chiara. Lo striscione del Commando ha girato e gira parecchio, ma (nessuno si offenda a questa mia affermazione) dietro di esso non ho mai ben capito se ci fosse più una parvenza di club rispetto a un gruppo ultras vero e proprio.

Dopo le annate di gloria e successi la Dinamo, pur mantenendo un buon livello, da qualche anno è protagonista di campionati tranquilli che però non sembrano riuscire a rinverdire i recenti fasti. Attualmente i biancoblu veleggiano nella zona medio-bassa e questo ha prodotto un’indebolimento dell’entusiasmo del pubblico. La verità è che, come avviene ormai in ogni parte del nostro Belpaese, successi e buoni risultati producono l’imborghesimento del pubblico “normale”, che troppo in fretta dimentica come si è arrivati sul podio e sempre con troppa veemenza pretende di primeggiare, anziché sostenere a oltranza i propri colori. Magari anche facendo sacrifici e andando oltre la semplice logica del risultato.

Faccio questo ragionamento perché la cosa che mi sorprende del PalaSerradimigni è la poca partecipazione dei presenti (al contrario di quanto mi era capitato di percepire in passato vedendo alcune partite alla televisione), malgrado i ragazzi della curva ci provino in ogni modo a stimolare le gradinate. Ed è proprio nel secondo tempo che decido di mettermi sotto di loro, per cercare di inquadrarli bene e avere una maggiore percezione della curva di casa.

Da qualche tempo il Commando è affiancato dalla Peach Crew (di cui, peraltro, ho notato diverse scritte e adesivi per la città), che sembra essere l’ala più giovane e volenterosa del tifo locale. Una “coppia” a cui va dato atto di sbattersi per tutti i quaranta minuti, non smettendo mai di cantare e incitare i propri colori. Lo zoccolo del tifo organizzato, come detto, prova a scuotere un palazzetto amorfo in alcune occasioni. Molto apprezzabile la percezione del divertimento curvaiolo, cosa che sovente viene meno in luogo di prestazioni e gruppi talmente seriosi da somigliare più a un’esercito che a una tifoseria.

Su fronte ospite da segnalare l’assenza degli ultras scafatesi. Anche se onestamente non me la sento proprio di criticarli se si pensa all’orario (20:30) in cui si è giocata la partita e, quindi, alla difficoltà nel tornare sulla terraferma. Seguire con costanza una squadra di basket in trasferta è forse ancor più difficile rispetto al calcio (gli orari e i giorni sono davvero impossibili e il seguito non è certo corposo come quello del football). Non a caso le tifoserie sempre presenti a queste latitudini si contano davvero sulle punta delle dita.

Il match finisce con la netta vittoria della Dinamo, che torna a conquistare i due punti facendo felice il proprio pubblico. Come sempre nel basket, molto bello l’abbraccio tra squadra e giocatori dopo la sirena finale.

Quando il palazzetto si svota anche per me la giornata comincia a volgere al termine. Ho avuto modo di assaporare a tuttotondo la Sassari sportiva. Spaziando dalla Torres alla Dinamo. Due realtà così diverse e così lontane, che costituiscono però un fil rouge davvero imponente per questa città. Istituzioni sportive delle quali il capoluogo può andar fiero, riconoscendovi una grande identità e riuscendo a formare tifosi, ultras e semplici appassionati. So che va diversamente, ma penso che in una città come Sassari davvero nessuno avrebbe bisogno di strizzare l’occhio ai grandi club della Serie A o ignorare i successi sportivi sotto canestro.

Mi allontano lentamente dal palazzo. Costruito a poche decine di metri dallo stadio. L’uno a guardare l’altro. Malgrado tutto resta affascinante pensare che rispetto alla mia quotidianità al di là del mare ci sia questa masnada di uomini in grado di scrivere pagine di storia e una squadra di basket che finora ha saputo crescere, scalare le categorie e non finire nel triste mulinello che ha inghiottito tanti marchi celebri della nostra pallacanestro.

Posso raccontare anche questa giornata. Da cui esco più “ricco” e ancor più curioso di conoscere aneddoti e storie finora a me mancanti.

Simone Meloni