Quando col buon Marco decidiamo di assistere al match tra Torres e Reggiana – facendo il nostro debutto allo stadio Acquedotto – dobbiamo innanzitutto tenere presente le cervellotiche e repentine scelte della Lega Pro, brava a programmare match per poi spostarne, spesso, data e orario pochi giorni prima. Cosa che ovviamente avviene anche in questo caso, con la sfida in oggetto che inizialmente avrebbe dovuto svolgersi alle 17:30 ma che i prodi compari di Mr. Ghirelli anticipano alle 14:30.

Tra i pochi stimoli che mi invogliano veramente a viaggiare in Italia ci sono quelli relativi agli stadi nuovi e a partite per me inedite. Quando la destinazione è la Sardegna le cose spesso combaciano. Sebbene Giove Pluvio non prometta nulla di buono, ci presentiamo di buona lena a Fiumicino, imbarcandoci sul nostro volo con destinazione Alghero. Come sempre accade in queste occasioni, le chiacchiere passano veloci parlando di ultras tra il serio e il faceto e guardando con una certa ironia tutto il circondario di persone “normali”, impegnate a viaggiare per lavoro, sentimenti o impegni personali. Noi no, noi andiamo alle partitelle. E ovviamente siamo nettamente i migliori (sic!).

Malgrado una discreta pioggia ci accolga nella città cantata da Giuni Russo, avvicinandoci al capoluogo i rubinetti si chiudono, lasciando spazio addirittura a qualche sprazzo di sereno. Sassari non è la città che un italiano medio si aspetta dalla Sardegna (o meglio, dall’idea sommaria che ha di essa). Qui non c’è il mare e non si snodano turisti tutto l’anno. Proprio per questo la troviamo subito attraente, fascinosa. Sassari ti lascia dentro un’idea quasi primordiale, di città che nel suo cuore è rimasta ferma di qualche decennio. Dove magari trovi un palazzo o una costruzione decadente, ma che dalla sua decadenza ti sa raccontare una storia. Ti sa ancora rammentare di non esser divenuta preda della commercializzazione estrema.

I suoi vicoli e le sue piazze sprizzano genuinità e – malgrado appare evidente che non si siano avvicendate giunte comunali in grado di valorizzare questo patrimonio – lo stacco con la zona che circonda l’abitato antico (oggi caratterizzata da centri commerciali e locali posh) è netto e alquanto complesso da capire. Sembra aver subito il processo inverso rispetto a molti centri urbani di media/grande entità, laddove la percentuale di persone meno abbienti o immigrati è concentrata nell’area periferica. Sassari ha un’anima complessa, che ovviamente andrebbe approfondita ben oltre questo semplice articolo. Un mix tra i carruggi genovesi e l’aria ammiccante di alcune cittadine spagnole, arroccate sulla Sierra Nevada.

Del resto parliamo di un posto dove sono passate innumerevoli culture e dominazioni, lasciando traccia e forgiando questo lembo di Sardegna, che storicamente viene riconosciuto come Logudoro; zona a nord-ovest dell’isola che nel Medioevo costituiva lo Stato sovrano del Giudicato di Torres (il club sassarese porta sulle maglie il suo simbolo, una torre merlata). Nome che ovviamente ricorrerà sovente durante questo articolo e che rappresenta un vero e proprio motivo di vanto per la città, non solo in ambito sportivo. Giusto per completezza, va ricordato che in suddetto periodo storico la Sardegna è stata suddivisa in quattro Giudicati, oltre a quello di Torres esistevano, infatti, quello di Gallura, di Arborea e di Cagliari. Stati e giurisdizioni sorti alla dissoluzione dell’Impero Bizantino.

Parlare di Sassari implica, giocoforza, lambire anche la vicina località di Porto Torres. L’antica Turris Libisonis, da cui il capoluogo prende vita nell’Alto Medioevo, a causa del massiccio spostamento nell’entroterra per difendersi dai continui assalti saraceni. Tàttari – come viene chiamata in sardo, facendo riferimento al nome storico della città, Thathari, che a sua volta dovrebbe essere la trasformazione di Sassaris, Sassaro, Sasser o Sacer (il sardo tende a trasformare il suono “ss” in “th”), letteralmente “ciottoli di fiume”, evocando la densità di corsi acquiferi nelle valli circostanti – con i suoi 120.000 abitanti è oggi la seconda città dell’isola.

Partiamo da uno stereotipo per dipanare tutto il restante discorso. Descritti come chiusi e spigolosi, i sardi indubbiamente al primo impatto mantengono una certa diffidenza nei confronti di ciò che proviene dal di fuori dell’isola. E se questo a qualcuno può sembrare poco simpatico, in un mondo che soffre di iper comunicazione (anche quando non è richiesta), a me tutto sommato non solo è piaciuto, ma l’ho trovato persino importante per sopravvivere e mantenere una determinata identità.

E comunque non bisogna mai fermarsi alle apparenze, ma superarle per conoscere bene chi si ha davanti. Quando si pensa alla Sardegna occorre contestualizzare una terra che è isola, ma più isolata della Sicilia. Per fare un paragone nei confini nazionali. Un posto che tra andata e ritorno non basta mezz’ora di traghetto per raggiungerlo, ma oggi come secoli fa, ha bisogno di traversate significative (o comunque voli tutt’altro che economici, soprattutto per la parte settentrionale). C’è poi tutto un iter storico che rende questo luogo forse più “autonomo” e staccato dal resto del Paese. Basti pensare a quanto il dialetto (e le sue varie sfaccettature, a seconda della latitudine ne esistono quattro varianti: logudorese, sassarese, gallurese e campidanese) sia complesso e articolato. E basti pensare che in una città come Alghero, tutt’oggi, si parla e si scrive catalano (a causa della cacciata di sardi e genovesi da parte degli aragonesi nel 1372 e la loro sostituzione con catalani e valenciani). Figli di dominazioni passate dunque, ma anche dell’isola isolata che nel tempo non ha sentito più di tanto degli influssi esterni.

Sapete qual è una delle prime cosa che sono abituato a vedere in una nuova città? La stazione ferroviaria. Da questa ritengo che si capiscano tante cose di un popolo. Quanti viaggiatori ci passino, che linee esistono e quale materiale componga i treni. E sì, lo sappiamo tutti che la strada ferrata sarda non sia propriamente un’eccellenza italiana, tuttavia preserva quel fascino di chi, in un certo senso, non vuol adeguarsi alla frenesia dei nostri tempi. E, sebbene i pendolari mi malediranno, pensate quanto possa essere bello e unico attraversare tutta l’isola da Sassari a Cagliari, scorgendo nuraghi qua e là, trovandosi immersi nella zona centrale e in tutto il suo fascino rurale e sbucando in questo mare che bagna quattro lati fungendo da naturale bastione. Ci vogliono tre ore e mezza per coprire quei 214 chilometri su rotaia. Ma se avete tempo, voglia e passione, provateci. Sul treno (regionale a massimo due carrozze, ovviamente) si prendono sempre appunti fondamentali da un punto di vista antropologico.

Direte: cosa c’entra tutto questo con la partita? Risposta: tutto questo, personalmente, è prettamente correlato alla stessa, al tifo e all’ambiente. Se non passeggio per la città che ospiterà l’incontro, se non ne conosco almeno un pezzetto di storia, se non assaggio del cibo locale e se non parlo con qualcuno che in questo posto è nato e cresciuto, ho fatto un viaggio a vuoto. Anzi, lo dico sinceramente e di concerto con il mio compagno di viaggio: mi è dispiaciuto non poter raggiungere l’isola in nave. Il vero viaggio per la Sardegna è quello!

Ed ora…lo stadio!

Da queste parti la Società per l’Educazione Fisica Torres 1903 è ovviamente un’istituzione. E malgrado i fallimenti, le retrocessioni rocambolesche e l’esser sempre arrivata a un palmo dalla gloria della cadetteria (nella mente degli sportivi locali resterà per sempre impressa la stagione 2005/2006, con il Napoli battuto 2-0 tra le mura amiche e i playoff per la B persi in semifinale contro il Grossetto, anche a causa del clamore suscitato – a scapito e insaputa del club – dal terremoto Calciopoli, che coinvolse indirettamente la Torres per la richiesta di favorire la “sua squadra del cuore” fatta a Luciano Moggi dall’ex Ministro dell’Interno, Beppe Pisanu; ve lo ricordate? Quello che firmò l’omonimo decreto, il fautore di tornelli, steward e biglietti nominativi per intenderci. Sempre una morale integerrima questi personaggi!), la sua storia dice che è il club più antico dell’isola. Nonché quello dove ha esordito nel professionismo Gianfranco Zola (in rete gira un bellissimo video del derby con il Cagliari stagione 1988/1989, con Magic Box a tirare le fila della squadra). Pertanto una visita allo stadio Acquedotto (chiamato così dagli anni settanta per la presenza della conduttura idrica nei pressi dell’ingresso e ribattezzato nel 2001 Vanni Sanna, in onore dell’ex calciatore, allenatore e dirigente torresino scomparso in quell’anno) è d’uopo.

La Torres ha fatto il suo ritorno nel calcio professionistico proprio quest’anno e attualmente naviga in acque relativamente calme, distanziando a sufficienza la zona salvezza. Essere tifoso sassarese non è propriamente facile, essere ultras deve risultare davvero complicato. Come summenzionato, per spostarsi da/per la Sardegna i prezzi non sono certo agevolati, figuriamoci quando minimo ogni due settimane si deve seguire la squadra nel continente (come dicono da queste parti). Eppure da tanti anni i ragazzi della Curva Nord (guidata dalla Nuova Guardia) non ne saltano una, evidenziando come il discorso ultras portato avanti nel corso degli anni sia riuscito a inculcare non solo il fideismo attorno ai colori sociali, ma anche una continuità a prescindere da tutto. A fari spenti, senza proclami. Senza interesse nel “far vedere”, ma con il solo intento di dar sostanza al proprio pensiero ultras.

Oltre agli anni della Serie C, i rossoblu hanno conosciuto e bazzicato il dilettantismo in ogni sua forma, basti pensare al fallimento del 2008 che costrinse il nuovo club a ripartire dalla Promozione. Stagioni che hanno preceduto la nuova scalata al professionismo in cui la tifoseria ha scritto pagine importanti e si è sempre contraddistinta per il suo modo d’essere: ruvida, verace, tosta e sempre presente. Non voglio fare un’ode melensa ai torresini, ma non posso non ammettere di apprezzare questo loro modo retrò (quasi anni novanta) di vivere la curva. Da fotografo e narratore del tifo organizzato ovviamente apprezzo il modo più “aperto” che ormai quasi tutti hanno di confrontarsi con l’esterno, ma sovente si scade nell’eccesso. Nel protagonismo. E si rischia di divenire macchiette di sé stessi. Da queste parti invece mi sembra di carpire il seguente messaggio: “Noi siamo gli ultras della Torres e siamo fatti così. Se vi piace bene, se non vi piace peggio per voi. Non dobbiamo render conto a nessuno”. Che poi, a pensarci, è anche una bella cartina al tornasole del popolo sardo.

Lo stadio Acquedotto (perdonatemi se lo chiamo ancora così, ma sin da bambino mi ha fatto sempre impazzire come nome) attira le nostre attenzioni. Realizzato in una vera e propria fossa, circolare, con la pista d’atletica e numerosi murales al suo esterno, è uno di quegli impianti che trasuda calcio da ogni centimetro. Costruito nel 1921 e un tempo omologato per 12.000 posti, oggi può contenere 7.480 spettatori. La media stagionale si attesta attualmente sulle tremila unità e anche oggi questi saranno i numeri.

Entrare sul tartan non è esattamente impresa facile. Ma tra commissari di campo zelanti (quasi desiderosi di non farci entrare, lo vogliamo dire?) e dirigenti invece gentili e intenti a risolvere ogni disguido, alla fine riusciamo a farcela, proprio pochi minuti prima che il direttore di gara dia il via alle ostilità.

Nel settore ospiti fanno capolino i circa 150 reggiani arrivati in Sardegna. Numeri che fanno degli emiliani una delle tifoserie più corpose giunte da queste parti negli ultimi anni. Non scopro certo io il loro valore, tuttavia è sempre bene rimarcare la solidità di chi ormai da oltre vent’anni riesce difficilmente a togliersi qualche soddisfazione (l’unico anno di B è coinciso con le porte chiuse causa Covid) ma che, di contro, porta sempre ottimi numeri e nel panorama nazionale si è ritagliato un ruolo importante. Piccola critica giornaliera: bella la sciarpata/sbandierata iniziale e bel tifo per tutto l’incontro, ma in alcune occasioni ho come l’impressione che i granata tifino un po’ col freno a mano, non riuscendo a dare una spinta vocale forte perché sovrastati dal suono del tamburo (strumento che apprezzo, ma che forse in questa situazione andava limitato a una sola unità?). Ripeto, si tratta solo di una constatazione, perché poi complessivamente ci sta poco da dire su presenza e prestazione canora. E aggiungo: gli ultras della Regia sono quel genere di tifoseria forgiata dalle delusioni, che dei bocconi amari ingoiati ha fatto tesoro e ha tratto forza.

Dall’altra parte, la Nuova Guardia accoglie l’ingresso delle squadre con qualche torcia e una sbandierata. Dietro le classiche insegne del tifo sassarese i rossoblu sfoggiano una buona prestazione canora, fatta di tante manate e dal classico repertorio locale, che ovviamente conosce il suo apice nel canto “Ajò Torres Ajò”, realizzato sulla simpatica canzoncina dei Sette Nani. Nota di merito (ma questo anche per i dirimpettai reggiani) per aver continuato a cantare anche nell’unico quarto d’ora in cui è caduta (copiosa) la pioggia. Praticamente nessun ombrello aperto e forse ancor più fomento nel dimostrare quanto il curvaiolo, anche in questo, debba essere una spanna sopra il semplice tifoso. In un mondo del tifo che spesso più che alle sciarpate dedica tempo alle “ombrellate” per due gocce d’acqua, la tempra dei supporter in questione merita un plauso!

In campo gli ospiti riescono ad espugnare Sassari nella ripresa, con i gol di Montalto e Pellegrini che, in virtù dei risultati di Cesena ed Entella, regalano il primato ai granata. Tuttavia dopo il fischio finale ci sono applausi anche per una Torres che si è dimostrata arcigna e capace di lottare contro una squadra accreditata alla vittoria finale.

Ora un timido sole sembra voler asciugare la portata del piovasco che per qualche minuto si è abbattuto sullo stadio. Il pubblico comincia a defluire e la notte prende possesso di questa giornata novembrina. L’autunno è di fatto arrivato anche da queste parti e ora non fa nulla per nascondersi.

Gli striscioni vengono smontati, un rito che mi lascia sempre un dolce sapore in bocca. Nella mani di chi si prende cura di quel pezzo di stoffa c’è la storia di tutto un movimento e la custodia di uomini e ragazzi che credono nei propri ideali e professano con la fede la ferrea difesa della città, del territorio e dell’essere ultras a una certa maniera, anche oggi, che l’essenza spesso va sparendo in luogo di teatrali messinscena a favore di camera.

Gli stretti vicoli di Sassari sono illuminati da lampioni che riflettono la luce giallastra sulle mura duecentesche. Quelle mura simboleggiano oggi la strenua passione a cui ho potuto assistere e che ho percepito in questa giornata. E il fatto che tra le fila rossoblu si noti una vasta presenza di gente grande, più che a un problema di ricambio generazionale (che comunque non è facile quando non si ottengono continui e ingenti risultati sportivi e si deve faticare il triplo a causa di costi e logistica) mi fa vedere dei sognatori che non hanno mai smesso di chiudere gli occhi e inseguire la propria bandiera. Portando sulla terraferma tutta la loro sana follia. E menomale che al mondo ci sono ancora questi folli!

Simone Meloni