“E la notte, quei ricordi della sera con i fumi degli spini e la barbera”. Solfeggiava sarcasticamente Rino Gaetano nella sua “A Khatmandu”. Ricordi svaniti, sfumati, che sembrano fantasticherie ingurgitate nella culla d’infante e digerite con il passare degli anni. Credo fosse la stagione 2006/2007. Non so perché mi sia venuta in mente. Non so perché l’abbia associata a questa ventosa e soleggiata giornata di metà agosto. Sarà l’approssimarsi della stazione Termini (“Tra i Fori e la Stazione c’era Via Cavour“, tanto per far riecheggiare la strofa di cui sopra) e un’autolesionista voglia di tornare indietro con la mente. A memoria dei tempi andati e delle emozioni vissute. Con la volontà, almeno per qualche ora, di far fuori con un colpo di spugna il plumbeo clima calato sulla mia città, una saracinesca che forse ha tagliato definitivamente le nostre speranze, i nostri  sogni e la nostra cultura. Quella del tifo, sì. Ma anche quella di cittadini che hanno un minimo saggiato la libertà di spostarsi da una posto all’altro, annusando a polmoni aperti l’acre odore dei binari sfregati da treni in fase di frenata, e quell’olezzo fetido dei vagoni notturni, che ci hanno visto in terra, sui portabagagli e persino sotto i sedili che si univano per dar vita a un letto spartano.

Ciò che è stato sempre normale, ora non lo è più. E non faccio del vittimismo, ma narro la dura realtà dei fatti. La stazione Termini, la “mia” stazione, quella che per anni mi ha scosso l’anima facendomi pensare e sognare nuovi punti di approdo, nuove tifoserie, nuove città e nuova gente da conoscere, è cambiata in maniera irreversibile. Di pari passo con la città che la ospita è stata ridotta a mero check-point, con barriere, polizia e controlli ovunque. Un vero e proprio bunker. Per “ragioni di sicurezza” ci hanno detto. “La brava gente non deve temere nulla”. Un po’ le stesse motivazioni per le quali all’Olimpico, qualche chilometro più a nord, comuni cittadini verranno fotografati come comuni criminali all’entrata di un altrettanto comune carcere.

Quella volta si andava a Messina. Appuntamento la sera precedente. Un sabato sera, un sabato italiano, un sabato da tifoso. Salimmo su un Intercity Notte, ci fecero scendere a Cassino perché privi del biglietto, aspettammo il primo Regionale per Roma e poi, da solo, vista la stanca rinuncia dei miei compagni di viaggio, mi imbarcai nuovamente su un altro Intercity, “battente bandiera Trenitalia”, per parafrasare ironicamente il poliedrico Manuel Fantoni di “Borotalco”. Stavolta con successo. Bene, mentre cammino sulla banchina non posso far altro che tornare con la mente a quegli istanti. Anche se sto andando a Latina, anche se ci sono solo trenta minuti di viaggio, e anche se tutto è così cambiato. Quasi da divenire irriconoscibile. Non solo non ci sono più quei ragazzi in partenza, pur se ne rivedo i volti e le movimenze. La società, in pochi anni, è divenuta un tale grande laboratorio sociale alla luce del sole, che mi sento persino a disagio nel vivere la contemporaneità.

Rifletto, ad esempio, sulle folli modalità di vendita per un’innocua amichevole. Settore ospiti solo per i residenti nel comune di Roma e provvisti di tessera del tifoso, tribune aperte ad ambo le tifoserie, ma con necessità di esibire la card ministeriale, salvo uno spazietto concesso alla vendita libera nel giorno del match, che ovviamente si rivelerà pressoché inutile, a causa del massiccio acquisto in prevendita. Il tutto, ovviamente, condito dalle immense difficoltà per i tifosi romanisti nel reperire i tagliandi del settore loro destinato. Tra malfunzionamenti nelle ricevitorie, informazioni trapelate con il contagocce, in pieno stile carbonaro, e terminali bloccati, si consuma l’ennesimo festival dell’assurdo correlato ai nostri eventi sportivi. Però sono i tifosi il problema, sia chiaro. Loro sono i razzisti, i violenti e i mostri a tre teste da combattere e, all’evenienza abbattere. Poi poco importa che un romanista di Prossedi (provincia di Latina) o di Caprarola (provincia di Viterbo) non possa assistere a un evento pubblico nel settore ospiti perché è geograficamente discriminato. Un applauso a chi ha prodotto ciò, a chi ci sta facendo tornare nel Medioevo e a tutta la stampa di regime che foraggia, corrobora e aiuta questo sistema marcio fino al midollo osseo, spargendo il seme del terrore e della disinformazione anche in occasione di una sfida senza rivalità alcuna, che fino a una decina di anni fa neanche avrebbe meritato una riunione del Gos (sic!), forse anche perché un organo del genere nemmeno aveva ragione desistere. Ma evidentemente non c’è davvero nessun problema maggiore. Ora avete anche la biometria in vostro aiuto, i cattivoni con sciarpa e bandiera hanno le ore contate. Come le zanzare con il più potente dei repellenti.

Latina Scalo, il capotreno annuncia la fermata. Ci sono passato al ritorno da tanti viaggi, voleva dire essere quasi arrivati. Voleva dire sentire già l’odore della colazione dopo una nottata di treno e le ultime goliardate compiute da gente di ogni estrazione sociale. L’aggregazione nella sua più bella sfaccettatura. Un qualcosa che oggi si deve assolutamente ghettizzare, per non far pensare e ragionare. Il problema è ben al di là dell’ultras, del tifoso e del calcio. Ce ne renderemo conto quando sarà troppo tardi, come ci è sempre successo. “E non finisce mica il cielo” cantava Domenica Rita Adriana Bertè, al secolo Mia Martini, imbeccata da un impeccabile Ivano Fossati. Con la sua malinconia e la sua nostalgia atavica forse fotograva al meglio lo stato d’animo che attanaglia alcuni di noi. Perché senza la Curva Sud, così come senza la Nord, non finisce il cielo, è vero. Ma finisce la nostra gioventù. Terminano i nostri sogni e un po’ tutti ci inaspriamo sentendo così lontana una casa che ci ha svezzato, cresciuto e dato tanto come l’Olimpico. Non sarà mai più nostra probabilmente.

L’autobus cammina lento verso il capoluogo dell’Agro Pontino. Dista una decina di chilometri dalla ferrovia. I canali irrigano i tanti campi ai bordi delle strade e le viuzze poderali si stagliano a destra e a manca. Dietro di me i Monti Lepini rammentano l’infanzia, quando andando al mare, direzione Borgo Sabotino, mi chiedevo quanto fossero alti e se mai nevicasse in quei luoghi. La stessa curiosità che, in fondo, anni dopo mi spinse a trovare nel tifo un modo magnifico e magnificente per studiare, vedere e amare un’Italia massacrata dai suoi gestori e dai giustizieri delle libertà e dei rapporti umani.

Sto andando fuori traccia? Non credo. Seguite il filo del discorso, come l’autobus segue la retta via per Piazza del Popolo. Pochi metri dallo stadio Francioni. I colori giallorossi e nerazzurri tendono a mischiarsi, alcuni blindati della polizia controllano con sguardi severi, ma il clima è, logicamente, più che rilassato. Lo ammetto, io non sopporto i tifosi del calcio. Mi spiego: se non ci fossero le curve, io odierei quasi tutti i supporter, soprattutto in queste occasioni. Lo so, lo so. È tutto ovvio e scontato: la signora che non è mai entrata sulle gradinate oggi si veste in pompa magna. Così come il ragazzo che non conosce neanche l’esistenza dell’US Latina, perché pensa che al di sotto della Serie A non ci siano altre squadre, altre categorie e altri tifosi. Attaccati all’inferriata che separa la Gradinata dalla porta carraia, tutti sono in attesa di un saluto di Totti, o di un cenno da parte di De Rossi, Salah, El Shaarawy o Strootman. Butto un occhio, e ironicamente, vedendo passare Scaglia e Paponi nell’indifferenza, quasi mi sento più a mio agio. Lontani dai bagliori e dai clamori. Tanti non hanno mai messo piede al Francioni neanche per un semplice Latina-Varese, e oggi invece reclamano il posto segnato sul biglietto. Con le loro macchinette fotografiche, i loro video per 90′, i loro commenti quasi schifati verso chi non ha scelto di tifare una squadra blasonata ma il club della sua città. Ecco perché odio i tifosi di calcio, perché in fondo sono lo specchio della società: tutto facile, tutto subito e tutto scontato.

“Ecco il panino con la frittata che hanno preparato mamma e nonna Livia”. La frase di un papà al suo bimbo mi restituisce un po’ di sentimento e un po’ di normalità. E mi piace questa coppia, perché il bimbo, sentendo i primi cori del settore ospiti chiede al papà perché all’Olimpico tutto ciò non ci sia. “In casa protestano, perché vengono trattati male”. Giusto, spiegazione più che esauriente. Ma il ragazzino è curioso. Guarda, scruta e vedendo una torcia fare capolino tra i romanisti, chiede entusiasta al babbo cosa sia, incassando attentamente la risposta. Segnale chiaro per chi sostiene che “i tifosi devono smetterla di credere che il sostengo passi per striscioni e fumogeni”. Potrei rispondere in mille modi, ma lo faccio così: guardate il volto entusiasmato di quel bambino, e ditegli che sta sbagliando, perché ciò che vede è illegale e quasi criminoso. Chi sono i veri criminali? Chi sono i veri vessatori? Ai posteri (se saranno ancora pensanti e autonomi) l’ardua sentenza!

Nella società del perenne ghetto e della repressione ormai divenuta regola e non eccezione, anche giornate come queste sono fondamentali per dar sfogo a tutto il proprio malessere. E i tifosi hanno un solo modo per farlo: cantando. Da una parte e dall’altra. Lo stadio è chiaramente pieno in ogni ordine di posto. Le barriere, a queste latitudini, sono state da tempo abbattute. Perché, a 70 km dalla Capitale, è evidentemente possibile rispettare la dignità dei cittadini, e non opprimerli per poi sfidarli apertamente con scuse e pratiche degne del miglior aguzzino per farli passare sempre e comunque come la colpevole feccia della società.

Non perdiamoci in ciance. Parliamo della prestazione canora. Ottima quella dei giallorossi, voce tenuta attiva praticamente sempre, bei boati con i cori a rispondere e manate che coinvolgono tutto il settore. Buono l’utilizzo della pirotecnica, che anche oggi non ha mietuto vittime o feriti.

Nella Curva Nord gli ultras pontini fanno il loro, tifando con costanza ed esponendo uno striscione in memoria di Antonio De Falchi che suscita l’applauso dello stadio intero. È chiaro che la vicinanza fa sì che a Latina tanta gente abbia tifato e tifi la Roma. In passato c’era anche una sezione del Cucs Come avveniva in quasi tutte le province del Lazio. Tuttavia è giusto che oggi, chi ha sempre sostenuto i pontini, lo faccia con ancor più orgoglio, esibendo i propri colori.

La gara non è certo indimenticabile, e la risolve un gol di Fazio nel primo tempo, permettendo alla Roma di espugnare l’impianto di Piazzale Prampolini. Finisce così, con gli applausi a scena aperta per Totti ma anche per un Latina volitivo, che fa ben sperare i propri tifosi. De Rossi richiama la squadra, invitandola ad andare a salutare il settore ospiti. In pochi lo seguono, molti sono già sotto la doccia. Ma questa è ormai routine. Il pubblico deve essere sempre più distante. Anche se è lo stesso che le distanze le colma in ogni modo e con ogni mezzo. Perché corre dietro a un sogno che non morrà mai, ma che forse non tornerà mai più a risplendere.

Simone Meloni.