Lo diciamo sempre, ormai l’avrete capito: le interviste sono il nostro pallino, anche se poi, nella prassi editoriale, riusciamo a raccoglierne e pubblicarne sempre meno rispetto alle nostre ambizioni. Anche perché prima delle mire personali, anteponiamo sempre il rispetto delle dinamiche ultras che – come biasimarli – tendono a rifuggire il confronto diretto con la stampa, fosse anche stampa specializzata, viste le imboscate tese loro in questi anni dai professionisti dello scoop. Per questo (e anche perché, in verità, continuiamo a portare avanti questo lavoro con approccio professionale ma svolto solo per passione e nel tempo libero) spesso passano lunghi mesi fra un’intervista e l’altra. Invece questa volta, dopo soli tre giorni dall’intervista al “Commando Neuropatico” Sancataldese, vi offriamo questa nuova intervista alla Curva Sud Montevarchi.
Buona lettura.
Partiamo dal principio, dalla radice di ciò che domenicalmente difendete e sostenete: la vostra città. Quanti abitanti conta Montevarchi? Quali particolarità storico-geografiche caratterizzano, avvantaggiano o penalizzano il tifo per le aquile rossoblu?
Montevarchi conta in tutto circa ventiquattro mila abitanti, sparsi tra capoluogo e frazioni, ed è la città più popolosa del Valdarno. Ci troviamo a metà strada tra Firenze, Arezzo e Siena, e la vicinanza al capoluogo toscano ha chiaramente attratto moltissimi ragazzi del Valdarno, che hanno preferito seguire la Fiorentina, soprattutto negli anni d’oro del tifo viola. Per quel che ci riguarda più direttamente negli anni c’è stata una buona rappresentanza, nella nostra Curva, di ragazzi provenienti dai comuni limitrofi, quali Terranuova, Cavriglia e Loro Ciuffenna.
Veniamo al tema calcistico, per riscaldarci e passare poi a questioni più strettamente ultras. Ci fate un breve resoconto storico del calcio a Montevarchi? Quali i momenti di gloria e quelli di più cupa crisi che hanno segnato l’animo del tifoso Montevarchino? La tradizione calcistica ha in qualche modo inciso a formare il suo seguito di tifo?
Per quello che riguarda la formazione del tifoso montevarchino molto hanno voluto significare gli anni ’80 e ’90, tra C1 e C2, in cui ci siamo trovati davanti vere tifoserie. In generale il montevarchino ha sempre seguito le sorti della sua squadra. Quello tra la maglia rossoblu e la città è sempre stato un rapporto intenso, anche prima della guerra. Il Montevarchi, che è la squadra più vecchia della Toscana essendo nata nel 1902, ha sempre oscillato tra Serie C e Dilettanti. Epici sono gli spareggi a Firenze contro la Pistoiese e a Empoli contro la Massese.
Parliamo ora di ultras e di tifo vero e proprio. Quando nascono i primi gruppi organizzati a Montevarchi? Quali i primi ad avere un’impronta più strettamente ultras? Quale insomma è la storia dei progenitori del tifo cittadino?
Gli anni ’70 erano gli anni del Club Asso di Fiori, primo gruppo di ultras a Montevarchi, seguito dalle Brigate Rossoblu 1984 e Ultrà Giglio 1988: i due gruppi storici del tifo montevarchino. Negli anni successivi sono nati altri gruppi ultras, come GAS, Crazy Group, Alcool Pestello, Virus, UCS 1902 e Gruppo Drinke, anche se si cercava sempre una gestione più unitaria possibile.
Il 2007 si può ritenere un anno zero nella storia del vostro tifo. I tre gruppi principali di allora optano per l’auto-scioglimento o la sospensione, e da lì comincia un percorso del tutto nuovo per voi. Come cambia la scena montevarchina?
Era arrivato il momento di prendere delle decisioni importanti. Erano accaduti fatti che ci hanno obbligato a guardarci negli occhi, tutti, indipendentemente dall’appartenenza o meno ad un gruppo. Abbiamo deciso di chiudere l’esperienza di gestione della Curva legata ad una modalità che potremo definire in stile anni ’90, con più gruppi autonomi, per passare ad una gestione più possibile collegiale, coordinata e che si identificasse nell’intero settore. È stato uno scioglimento di gruppi storici, è vero, ma più che altro è stata una profonda riorganizzazione della Curva.
Giusto quattro anni dopo, nel 2011, il Montevarchi fallisce ed anche quello è un momento cruciale, tanto nella storia calcistica che in quella ultras.
Da un certo punto di vista è stata quasi una liberazione. Il declino calcistico del Montevarchi è cominciato nella stagione 1999/2000, con la retrocessione dalla C1 alla C2. Da allora si sono susseguite tre retrocessioni, pur con un ripescaggio nel mezzo, e gestioni societarie da mal di stomaco, con personaggi assurdi. È stata un’agonia che ci ha portato ad essere, noi per primi, i maggiori sostenitori di una soluzione radicale che passasse dal fallimento, unico modo perché la società tornasse in mani più affidabili e conosciute. Nel 2004 abbiamo promosso un corteo cittadino aperto dallo striscione “Il Montevarchi ai montevarchini”, perché non ne potevamo già più delle gestioni di cui sopra… Ci son voluti altri sette anni per arrivare al nostro obbiettivo. Da un punto di vista ultras siamo passati dalla totale contestazione degli ultimi anni, con totale diserzioni delle partite casalinghe, fino all’entusiasmo di giocare in seconda categoria pur di riappropriarci della nostra identità di tifosi di una squadra montevarchina, in tutto e per tutto.
Il percorso ultras che inizia a muovere i primi passi in quegli anni è del tutto nuovo, anche per esempio nell’impronta stilistica, visto che cominciate ad ammiccare al tifo di stampo anglosassone. Qual è equilibrio giusto all’interno di questa che sta diventando una moda, spesso dagli eccessi perversi?
La nostra non è stata una scelta prettamente stilistica, ma una diretta conseguenza della nostra decisione di scioglimento dei gruppi principali e cambio nel coordinamento della Curva. Sicuramente è stata facilitata da quella che magari poteva essere la moda del momento, ma chi ci conosce sa bene che siamo quanto di più lontano possa esistere dall’essere ossessionati da uno stile. I gruppi di prima non ci sono più e quindi non ci sono più neanche gli striscioni di trenta metri. Le persone sono comunque le stesse, ma ci identifichiamo tutti come Curva Sud, anche se “sopravvivono” e convivono storie e provenienze diverse. Da qui l’esistenza degli stendardi.
I disciolti “Ultras Giglio” prendevano il nome dall’omonimo “Bar Giglio”. Non era raro negli anni addietro che un gruppo fosse accomunato da un punto di ritrovo, una comitiva, un quartiere. Per voi oggi è ancora così? Avete una sede o la ritenete incoerente con la scelta “british”? Resta una comune matrice di provenienza e di ritrovo settimanale? Oppure la vostra composizione è più eterogenea e disimpegnata, ed è la curva alla domenica, con i suoi ideali, a far da catalizzatore e tenere insieme anime diverse?
Il Bar Giglio è la nostra seconda casa ancora oggi. È sempre stato il ritrovo storico per ogni generazione della nostra Curva e per noi è naturale che sia ancora così. È un fatto di affetto e di tradizione. Non escludiamo di avere una sede, in futuro; come abbiamo detto sopra, non siamo seguaci di nessuno stile che ce lo impedisce e, anzi, il fatto di vivere l’esperienza ultras in modo quotidiano potrebbe farla diventare anche una necessità, ma per ora ci piace così.
Il ricordo che molti hanno di voi, proveniente dal passato, è di una tifoseria dall’identità politica ben definita. Oggi, almeno ad un primo sguardo, questa impronta si è attenuata o sbagliamo? Quanto ha contato e quanto conta la politica in Curva per voi?
L’unico striscione che campeggia nella nostra Curva, oltre agli stendardi, è un vecchio striscione degli anni ’80 con scritto “Il tempio del tifo” e con stampato il volto del Che. La nostra storia racconta di iniziative importanti legate all’antirazzismo, al Chiapas e all’antagonismo e i nostri gemellaggi hanno trovato ragioni comuni anche in questo. Non siamo mai stati una curva che ha fatto della propaganda politica la propria bandiera, anzi abbiamo sempre preferito far parlare i fatti.
Quali sono le vostre amicizie e i vostri gemellaggi attualmente? Mantenete tutti gli stessi rapporti di sempre o qualcosa è andato perduto? C’è al contrario qualche rapporto recente? Tra questi esistono rapporti con tifoserie di altri sport o di altre nazioni? Sono infine gli stessi per tutti i gruppi o qualcuno ne coltiva di propri?
Tralasciando i gemellaggi europei di cui parleremo meglio quando scaleremo le vette del calcio continentale (chiaramente stiamo scherzando!), ci teniamo a dire con orgoglio che i nostri fratelli sono gli stessi da tantissimi anni. Il gemellaggio con gli empolesi risale al 1988, mentre con l’Armata Rossa Perugia avvenne nell’anno seguente. Successivamente il rapporto con la tifoseria perugina si è allargato al gruppo degli Ingrifati. Ogni anno tutta la Curva coltiva questi rapporti con presenze (ricambiate), durante i rispettivi campionati, le iniziative e i memorial estivi. Dal 2000 esiste una splendida amicizia con i lancianesi, con i quali, nonostante la distanza e la differenza di categoria, cerchiamo di vederci spesso. Da ricordare anche l’amicizia con i disciolti Ultras Ancona, conosciuti ai tempi di Movimento Ultras. Inoltre, grazie all’amicizia nata durante i Mondiali Antirazzisti, partecipiamo da qualche anno al torneo organizzato dai Rude Boys & Girls Sampdoria.
Ci siamo avventurati nel campo dei rapporti: tenendo da parte il derby del Valdarno, di cui parleremo dopo, quali sono le vostre maggiori rivalità in termini locali ed extra-regionali? C’è qualche ruggine che il tempo ha fatto dimenticare? C’è qualche rapporto di affinità che, invece, è stato rovinato dall’usura del tempo?
La nostra principale rivalità, quella più sentita da tutta la Curva, è con la tifoseria dell’Arezzo. In Toscana, ad esclusione dei fratelli empolesi, si può dire che abbiamo pessimi rapporti con tutti, chi più, chi meno. Negli anni ’80 i derby regionali erano bellissimi e gli scontri erano all’ordine del giorno e nel corso del tempo ci sono stati episodi di “tensione” un po’ con tutti. Con carraresi e pratesi, invece, abbiamo avuto occasione di confrontarci anche negli anni successivi… ed è sempre un bel piacere. Per quello che riguarda i rapporti con le tifoserie fuori regione, sono storici gli scontri con gli alessandrini nel ’95, anche se non ci incontriamo da molti anni.
Nonostante non sia a conoscenza di tutti, la rivalità tra Montevarchi e San Giovanni Valdarno ha radici storiche profondissime e in passato ha portato a derby anche piuttosto cruenti. Potete dirci qual è lo spirito che anima questa rivalità e quali sono stati gli episodi più salienti? Pensate che oggi si riesca a mantenere ancora un modo verace di vivere il derby o, per tanti motivi, non è più possibile fare paragoni con le ruggini d’annata?
La Toscana è terra di Campanile, lo è sempre stata e sempre lo sarà. Montevarchi e San Giovanni distano quattro chilometri ed è naturale che, dalla notte dei tempi, le nostre due città si siano trovate a rivendicare una superiorità prima storica e poi calcistica. Per quello che riguarda il lato “sportivo” forse non tutti sanno che negli anni ’40, in un dopo derby, ci scappò anche il morto. La rivalità è stata fortissima e condita da scontri fino ai primi anni ’80 e poi, a causa dei nostri successi sportivi e della loro decadenza, non ci siamo rincontrati fino al 2000. Va detto, in tutta onestà, che la nostra generazione ultras è cresciuta e si è riconosciuta per anni nel derby con l’Arezzo, e il derby con la Sangiovannese era per noi praticamente una novità di cui avevamo sentito solo parlare. Alla fine del derby di andata della stagione 2000/2001 li aspettammo lungo il tragitto che portava dallo stadio alla stazione, ci scontrammo con la Celere ma con i sangiovannesi non ci fu contatto. Solo dopo venimmo a sapere che preferirono farsi quattro chilometri a piedi piuttosto che andare verso la stazione e affrontarci. Da allora per noi i sangiovannesi sono questi. Se vogliamo fare un discorso più generale, a causa delle leggi liberticide e della repressione, è sicuramente più difficile vivere in maniera spontanea qualsiasi derby e qualsiasi partita che si porti dietro un carico emotivo. Una volta erano derby di popolo, ne parlavano dai bambini nelle scuole agli anziani al bar, e le scazzottate una naturale e tollerata conseguenza per “regolare” le rivalità; adesso l’esasperazione del “servizio d’ordine” non consente più di vivere queste partite in maniera genuina.
La credenza comune è quella che vuole le categorie minori come oasi di libertà, dove in molti vorrebbero andare a respirare aria pulita dalla tanta repressione di Serie A e B. La vostra esperienza lo conferma o smentisce? Come vivete, in generale, il rapporto con le forze dell’ordine a queste latitudini?
A parte che noi un anno in Serie A o Serie B ce lo faremmo parecchio volentieri, ma di sicuro sì, possiamo confermare che i campionati dilettantistici sono piccole oasi di libertà. Non esistono biglietti nominali, non esistono tessere del tifoso: è quasi tutto come vent’anni fa. Lo vediamo anche quando andiamo dai nostri gemellati, che con le loro squadre militano nelle maggiori serie: tutto un altro mondo. Ma specifichiamo una cosa: non è tutto oro quello che luccica. Dal 2011 ad adesso ci è capitato solo una volta di incontrare una “tifoseria”, per il resto delle partite ci siamo noi, qualche vecchietto e i parenti dei giocatori. Non è proprio l’ambiente ideale per ricercare degli stimoli ultras o per crescere nuove generazioni. Per quello che riguarda i rapporti con le forze dell’ordine: non avendo la possibilità di confrontarci con altre tifoserie è sicuramente un rapporto più disteso che negli anni di categorie superiori. Non sono mancati però episodi nei quali ci siamo dovuti confrontare con loro in questi ultimi anni. È vero che la fede non conosce categorie ma neanche la repressione: un petardo è un peccato mortale anche in Seconda Categoria.
Il caro-biglietti invece, problematica universale anche questa? Quale altro luogo comune, in base al vostro vissuto, sentite di dover sfatare sulle categorie inferiori? Cosa invece è senza dubbio migliore delle categorie maggiori?
Quanto al caro biglietti probabilmente siamo l’unica tifoseria che in questi anni ha contrattato il prezzo dell’ingresso allo stadio in ogni trasferta, direttamente al botteghino, e sinceramente abbiamo sempre trovato disponibilità. Trovarsi decine di tifosi in trasferta per loro è già un evento eccezionale e tanti hanno capito che per noi l’importante era trovare un bar ben fornito.
Con le categorie superiori, resta su un binario parallelo, vicino eppure distante, anche la questione della lotta al “calcio moderno”, alla tessera del tifoso e tematiche affini. Quanto di tutto ciò interessa davvero un ultras dei dilettanti? Molte volte non rischia di diventare solo una posa, uno scimmiottamento dei “grandi” senza un reale riscontro pratico?
Noi, da sempre, abbiamo partecipato alle iniziative indette da Movimento Ultras prima e singole tifoserie poi, a difesa del nostro mondo, indipendentemente dalla categoria in cui militavamo. L’abbiamo fatto sempre perché lo ritenevamo giusto e non per altro. Poi chiaramente ogni tifoseria la domenica si trovava e si trova a vivere la propria lotta. Noi, militando in categorie (parecchio) dilettantistiche, non abbiamo passato le domeniche a fare cori contro la tessera del tifoso o il decreto Amato, pur avendo magari idee precise in merito: sarebbe stato ridicolo. Per noi la nostra lotta in quel momento era più che altro la sopravvivenza della nostra identità e del mondo ultras a Montevarchi.
Restando in argomento, in passato siete stati coinvolti in prima persona e per lungo tempo in “Movimento ultras”. Cosa vi resta di positivo di quell’esperienza e cosa non rifareste? In cosa ancora credete o per cosa combattete, magari nel vostro ambito locale?
Con molta umiltà possiamo dire che è stato bellissimo il confronto e la conoscenza con realtà che altrimenti non avremo mai potuto conoscere. Questo per noi è stato un sicuro arricchimento e rifaremmo tutto dall’inizio alla fine. Ci dispiace che quell’esperienza sia finita e si sia esaurita. Per quel che riguarda l’ambito locale non abbiamo mai organizzato particolari iniziative: è difficile essere profeti in patria. Lavoriamo in silenzio per essere un punto di aggregazione e di riferimento importante per tanti ragazzi, anche e soprattutto per chi altrimenti non saprebbe dove sbattere la testa.
Avete una vostra idea sul perché questi tentativi unitari nazionali finiscano sempre per naufragare miseramente? Credete si debba o si possa in qualche modo riprendere il filo di quel discorso per far fronte comune, salvando il mondo ultras italiano dalla sua stessa deriva e dalle spinte repressive?
Chiaramente non essendo noi una tifoseria “di riferimento” del mondo ultras, la nostra opinione ce la siamo fatta parlando e confrontandoci con ultras amici, o analizzando i fatti filtrandoli per quella che è la nostra esperienza del mondo ultras. Noi pensiamo che in questo momento un fronte comune sia difficilmente realizzabile. Purtroppo le varie leggi repressive, soprattutto la tessera del tifoso, sono riuscite nel loro principale intento: dividerci. Ormai la tessera è diventata una questione ideologica a prescindere, e molti considerano valida una tifoseria in base al fatto che l’abbia sottoscritta o meno. Tutti sappiamo, onestamente, che i valori di una tifoseria si misurano in ben altro modo. Magari un giorno sarà possibile tornare a parlare di un fronte comune, di tutti gli ultras o quasi, ma non in questo momento. Quando torneremo a valutarci secondo i veri canoni ultras allora forse se ne potrà riparlare.
Prima di passare ad altro, volevamo chiudere il cerchio sui rapporti: come interpretate e vivete quello con la vostra dirigenza? All’epoca del fallimento il vostro ruolo fu abbastanza centrale, ma oggi come la vedete? Ognuno fa il suo “lavoro” ed intervenite solo a mali estremi? Oppure credete sia più opportuno far sentire la vostra voce in maniera più continua nella vita del club?
Chiaramente i rapporti sono molto più distesi adesso rispetto agli anni pesanti della contestazione. Adesso la dirigenza è composta interamente da imprenditori di Montevarchi, e in un paese di ventiquattromila abitanti può succedere che il presidente sia il tuo vicino di casa. Ognuno fa il proprio lavoro, noi facciamo gli ultras e loro i dirigenti. È successo di avere un confronto anche acceso, per esempio riguardo ai nostri lanci di “materiale pirotecnico” e alle multe che hanno dovuto pagare per questo, ma in generale siamo rimasti nell’ambito del rispetto e della fiducia reciproci. Non esiste una rappresentanza diretta della Curva all’interno della dirigenza, non sapremmo cosa farci e non sarebbe giusto in una società “classica” come la nostra. Esistono bellissimi esempi di calcio popolare anche vicino a noi (come il Centro Storico Lebowski), ma è un’altra storia e lì non c’è distinzione tra tifosi e dirigenti.
Nell’ottica odierna si crede che quella del calciatore sia una bandiera ormai ammainata. In molti stadi i cori personali ai calciatori sono ormai più unici che rari. Per voi esistono ancora, o sono mai esistite in passato le bandiere? La dimensione dilettantistica vi permette di avere un rapporto più genuino e meno divistico con loro, oppure a priori tifate esclusivamente per la maglia?
Uno dei giocatori simbolo della nostra rinascita è stato un ragazzo che la mattina si alzava presto per andare a portare il pane con il furgone, eppure la domenica sputava sangue per la nostra maglia e questo per noi è già abbastanza. Siamo arrivati in Serie D con squadre composte principalmente da ragazzi che, come noi, sono costretti ad andare a lavorare per guadagnarsi da vivere e con cui riesci ad avere dialoghi “normali”. Senza fare nomi, un giocatore di un paio di anni fa ha fatto anche qualche giro notturno con noi per attaccare i volantini delle trasferte. Giocatori storici e importanti ce ne sono stati molti e da questo punto di vista siamo anche piuttosto sentimentali, perché onestamente il coro al bomber o capitano di turno non è mai mancato, e molti hanno lasciato ricordi importanti. L’unico che comunque si può considerare una vera bandiera è e rimane l’allenatore-giocatore Costanzo Balleri, detto il Lupo. Dal ’67 al ’91 ha giocato e allenato il Montevarchi, non continuativamente, ma ha instaurato con la città e con varie generazioni di tifosi rapporti veramente importanti.
Ai tempi della corrispondenza, collezionando fanzine, ricordo benissimo la vostra “Meninhos de rua” (che in Brasile sono i “ragazzi di strada” delle favelas, ndr), un paio di pagine fotocopiate e tenute insieme alla buona con un punto metallico, ma contenenti un potenziale comunicativo non indifferente. Oggi a cosa è affidata la vostra comunicazione? Avete ancora una fanzine? Preferite i comunicati? Più in generale, visto che da sempre l’opinione pubblica demonizza la categoria ultras con la mala-informazione, non è meglio usare e saper usare i pochi mezzi informativi a propria disposizione?
Meninos de rua è stata una bella pagina della nostra storia, in qualche numero ha raggiunto anche le dodici pagine ed era bello durante l’intervallo vedere tante teste chine a leggere la fanzine. Adesso non abbiamo più la fanzine e la pagina Facebook la usiamo solo per “comunicazioni di servizio” o poco più. Se abbiamo da dire qualcosa di importante ci affidiamo ai comunicati. Senza menarcela troppo, forse ai tempi di MdR, facevamo anche una sorta di controinformazione ultras che riguardava la nostra esperienza, e più in generale tutto il mondo ultras italiano. Vivevamo momenti diversi e c’era in generale una diversa coscienza dell’essere ultras. In ogni caso la controinformazione rimane sempre e comunque materiale da addetti ai lavori. Al cittadino medio non importa niente di sapere che, per esempio, domenica scorsa la polizia ha caricato senza motivo, mina le sue certezze e continuerà sempre a credere che i cattivi siamo noi. Ci possiamo raffinare nella comunicazione quanto vogliamo, ma in generale non c’è né la voglia né l’esigenza di avere un’idea obbiettiva del mondo ultras, soprattutto adesso che per la legge siamo carne da macello.
Mezzi di informazione a propria disposizione, oltre a quelli auto-prodotti in “reale”, ci sono poi quelli virtuali offerti dalla rete in varia forma: forum, siti, facebook, ecc. Il doppio taglio di quest’arma è che spesso diventa spazio alla mercé di qualsiasi idiota a cui viene data libertà di esprimere un’opinione, e che molte volte finisce per alimentare lo stereotipo ultras=ignorante cavalcato dall’opinione pubblica. Lottare per appropriarsi degli spazi, anche informativi o anche solo virtuali, oppure rifiutare possibilità e potenzialità per rinchiudersi in una logica del far parlare le proprie gesta, per quanto auto-referenziale possa sembrare: quale la vostra linea?
Mettere la testa sotto la sabbia e far finta che il mondo sia ancora quello del ciclostile e delle fotocopie non ha senso. I social hanno dato voce a tutti, compresa una vasta schiera di webeti pronti a scagliarsi contro tutto e tutti, quasi da far impallidire i cosiddetti “ultras da tastiera”. Noi cerchiamo di auto-regolamentarci da questo punto di vista e se qualcuno trascende lo fa a livello personale, ma in generale possiamo dire che da noi è un fenomeno sotto controllo.
La trasferta, universalmente riconosciuta come la prova del valore di una tifoseria. Quale la tappa più importante della vostra storia, lontano dalle mura amiche? Quali i punti più bassi, quelli in cui magari “portare avanti la baracca” era veramente ardua, ma in cui tenere duro ha avuto un senso a lungo termine?
Nella sua storia il Montevarchi ha vinto a Genova, a Firenze e in altri grandi campi e quelle, per chi le ha vissute, sono state trasferte memorabili. In generale possiamo dire che per noi è stata storica la trasferta di Lugo di Romagna del 1995, in cui conquistammo la C1, con ben due treni speciali, macchine e pullman, per un totale di 3.500 montevarchini in trasferta. Poi non è che ce l’abbiamo avuti sempre questi 3.500 montevarchini in trasferta: abbiamo fatto anche “esodi” di una macchina soltanto o pullman a due piani per il sud Italia, con partenze a orari anticipatissimi solo per allungare la trasferta e divertirci. Con la stessa voglia di tifare siamo orgogliosi dei cinquanta in trasferta a Salutio in Seconda Categoria, in una frazione di un paesino di provincia, con uno “stadio” le cui tribune erano composte da un’unica distesa di fango. Non abbiamo neanche vinto ma lì è iniziata la nostra rinascita.
Continuando con le rievocazioni, quali le vostre coreografie più belle? Il tempo vi ha portato a mettere in secondo piano il lato folkloristico del tifo, come successo altrove?
Al di là dell’importanza estetica di una coreografia, per noi è stato importante semmai tutto il processo di realizzazione necessario. Per la coreografia del centenario del Montevarchi del 2002 abbiamo lavorato a nottate intere per dipingere i bandieroni e tagliare i coriandoli, alla vecchia maniera, e quello sicuramente è un bellissimo ricordo. L’abbiamo vissuto insieme e questo era l’importante. Per alcuni anni siamo sopravvissuti ai pessimi risultati della nostra squadra buttandola sulla goliardia, travestendoci in stile carnevalesco in più di un’occasione, passando dai messicani di Castelnuovo Garfagnana, ai cuochi di Forlì fino alle suore di San Marino. È stato divertente e ci è servito per andare avanti in quegli anni di decadenza societaria.
Nel mondo ultras, senza ipocrisia, oltre quello numerico e del colore, anche il confronto fisico è un modo attraverso il quale ci si misura con gli avversari. Non di rado la tradizione orale di una tifoseria racconta di epici faccia a faccia con i rivali di sempre, spesso esaltando i momenti di gloria e a volte minimizzando le magre figure. Quali sono gli eventi che restano nella memoria e nei racconti verbali a Montevarchi? Onestamente, quali realmente esaltanti e quali invece da archiviare come cocenti disfatte, ma da cui trarre insegnamento?
Parzialmente abbiamo già riposto a questa domanda. Diciamo che gli scontri degli anni ’70 e ’80 sono stati spesso oggetto di racconti epici come per tante tifoserie. Per i derby con l’Arezzo si è sempre mosso mezzo paese e non ci siamo mai fatti trovare impreparati, d’altro canto ammettiamo senza alcuna vergogna che abbiamo fatto anche le nostre magre figure. Ogni tifoseria ha i suoi scheletri nell’armadio e noi non abbiamo nessuna remora ad ammettere i nostri. Lo scioglimento dei gruppi nel 2007 è nato da una sonora figura di merda. Dovevamo farci trovare preparati e non lo siamo stati. La vita va avanti e dagli errori si può solo imparare.
Dopo questa serie di domande per indagare il passato, recente e remoto, vogliamo chiudere con una domanda, che è anche una riflessione, sul futuro: come vedete appunto il domani del movimento ultras cittadino e locale? Ci sono ancora margini di spazio e libertà per poter vivere questo ideale appieno, o ci si dovrà accontentare di muoversi nelle pieghe che il sistema repressivo lascia ancora aperte? Godere giusto di scampoli dell’azione e del pensiero ultras che furono, accontentarsi della trasferta quando concessa o delle sole partite in casa perché non si vuol scendere a compromessi: si sta resistendo in attesa di tempi migliori o si sta sopravvivendo per accanimento terapeutico e prima o poi si dovrà trovare il coraggio di dire basta?
Pensare che il mondo ultras possa tornare quello di vent’anni fa è pura utopia. È cambiata la società, è cambiato il calcio e, come tutti sappiamo, purtroppo sono cambiate le leggi che ci riguardano. In generale non è il momento più florido del mondo ultras, ma ci sono tifoserie che comunque stanno vivendo momenti di alti livelli, soprattutto tifoserie storiche del mondo ultras. Non crediamo sia giusto uniformare il giudizio o sostenere che, in questo momento, esiste un solo modo di vivere il nostro mondo. Ci sono tifoserie che hanno scelto di non sottoscrivere la tessera e restano compatte al loro interno in questa scelta; ci sono tifoserie che l’hanno sottoscritta e si comportano esattamente come prima. Altre vanno alla ricerca del nemico come trent’anni fa e altre preferiscono mantenere un basso profilo anche in conseguenza delle problematiche legate alla repressione. È tutto lecito, perché alla fine il nostro è un modo di vivere, non un’etichetta che ci si appiccica addosso. E la vita ti porta a fare delle scelte che nel nostro mondo riguardano solo te e i tuoi compari di curva. Lunga vita agli ultras, comunque vada.
Intervista raccolta da Matteo Falcone.