Quante persone hanno cliccato su questo articolo soltanto per il titolo? Sarebbe curioso saperlo. Sarebbe la giusta cartina al tornasole di una sempre più triste e radicata regola editoriale: parla di ciò che non vedi, spara su chi è sempre malvisto. Fai visite e vendi copie. Del resto fregatene.
Senza stadio, senza tradizione, senza tifosi
Se si giocasse contro una delle tante squadre della capitale romena questa partita avrebbe ben altro fascino. Invece, di pieno concerto con le regole di un calcio moderno che vuole sempre più club apolidi e senza storia, l’Astra Giurgiu è stata costretta a migrare di sessanta chilometri dalla sua sede naturale (ed è stata persino una fortuna, considerata l’ipotesi Cluj che a un certo punto pareva quasi certa. Un po’ come se il Siracusa giocasse a Tortona). Sebbene anche quest’ultima affermazione sia vera solo in parte, essendo il club la “prosecuzione” di quell’Astra Ploiesti acquistata da Ioan Niculae (uno tra gli uomini più ricchi di Romania) e trasferita nel 2012 a Giurgiu, piccolo centro posto al confine con la Bulgaria dove il sodalizio non ha mai fatto breccia nel cuore di possibili tifosi. Eppure giocare il match allo Stadionul Marin Anastasovici avrebbe avuto il suo fascino, oltre che un mero senso logico. Esattamente come accaduto nei preliminari, contro il West Ham. Peccato che la Uefa si sia messa di traverso, non ritenendo a norma la curva dello stadio. Cose che accadono, quando di mezzo ci sono i Paesi dell’Est. Cose curiose, se si pensa che lo stesso organo continentale giudica uno stadio come l’Olimpico a cinque stelle. Nonostante la presenza di numerose barriere architettoniche e molteplici falle strutturali che ormai da anni attanagliano l’impianto di Viale dei Gladiatori (basterebbe pensare all’acqua piovana che filtra ovunque). Ergo: meglio uno stadio immenso semivuoto che un piccolo impianto gremito e chiassoso. Ecco il calcio che tanto piace in quest’epoca grigia.
Ovviamente non si dovrebbe parlare di ciò che non si conosce. Ed è per questo (ma innanzitutto per la curiosità di sapere contro quale “comunità” si stia effettivamente giocando) che il giorno prima del match mi concedo una gitarella proprio a Giurgiu, che come tutta la Romania può vantare legami importanti con la storia e la cultura italiana. La città infatti fu fondata da mercanti genovesi, che in origine le diedero il nome di San Giorgio, in onore al santo patrono del capoluogo ligure mentre a livello nazionale può vantare un primato: quello di esser stata la prima città ad avere una linea ferroviaria collegata a Bucarest. Oggi Giurgiu è la classica cittadina post-comunista. Con i palazzoni, un paio di piazze giganti e tante case abusive costruite sulla strada che conduce al porto sul Danubio. Proprio al confine con la Bulgaria. Una linea di demarcazione segnata dal fiume e congiunta dal Ponte dell’Amicizia, una delle opere più importanti per i due paesi che ne fruiscono terminata a metà degli anni ’50.
Se l’aspetto storico e antropologico è un qualcosa da cui non si deve mai trascendere visitando un qualsiasi posto, per noi calciofili subito dopo viene lo stadio. Proprio quello stadio negato di cui parlavo qualche riga prima. Un impianto che appare moderno, forte dell’opera di rinnovamento posta in essere tra il 2012 e il 2014, persino migliore di buona parte delle nostre strutture calcistiche. Sarebbe stato uno spettacolo vedere il contingente romanista “stiparsi” nella “gabbia” costruita appositamente per gli ospiti e forse anche per la squadra avrebbe costituito uno stimolo in più giocare una partita inutile in un ambiente più raccolto. Ma tant’è, come sempre ci si deve adeguare, totalizzando un computo del girone che parla di una partita giocata nella sede naturale del club avversario ma con una curva chiusa (Plzen) e altre due giocate negli stadi nazionali per indisponibilità di quelli dei club (Austria Vienna e, per l’appunto, Astra). Complessivamente non bene per chi è amante di stadi, tifoserie e ambiente calcistico retrò. Con questa conclusione posso riprendere il pullman alla volta di Bucarest, “ammirando” la strada piana e spesso impregnata di mercatini ambulanti che lentamente si inoltra nella periferia della capitale.
È stato bellissimo viaggiare insieme
È proprio la mia ostinazione nel raggiungere l’Arena Nationala a piedi che mi dà l’opportunità di vedere alcuni aspetti di Bucarest che sfuggono a molti forestieri, limitati dentro al perimetro del centro storico e totalmente disinteressati a conoscere in toto la conformazione di una città così particolare. Bucarest non quella che si può definire una bella città, va detto. Eppure conserva un fascino tutto suo. Basti pensare alle file di case lussuose che, di tanto in tanto, vengono spezzate dai palazzoni in pieno stile sovietico e dalle strutture diroccate, che fioccano qua e là, smorzandosi sui numerosi Boulevard voluti da Ceaușescu. Solo all’indomani, recandomi allo stadio del Rapid Bucarest, avrò l’occasione di spingermi anche oltre la Gara de Nord, tra gli immensi palazzi che custodiscono migliaia di famiglie e nascondono, nei loro anfratti, gli angolo più sinistri e a tratti lugubri della città.
Per questo la pomposa modernità dell’Arena Nationala stride fortemente con gran parte del paesaggio che la circonda. Fa freddo. La colonnina di mercurio è scesa di molto sotto lo zero quando l’orologio segna ancora le 19. Per noi “terroni d’Europa” è un colpo difficile da assimilare e persino maglie termiche, guanti e sciarpe respingono a fatica le bordate di gelo. I dati ufficiali parlano di 800 biglietti venduti a Roma (a occhio nudo direi qualcosa in meno) e già dalla sera che precede la partita per le strade del centro sono ben riconoscibili le tante comitive di italiani.
Non è una settimana qualunque. La vittoria nel derby è stata subito smorzata da una tragica notizia: la morte di Giorgetto, storica colonna del tifo romanista. La cosa ha colpito tutto l’ambiente e, lo dico francamente, se qualcuno stasera aveva aspettative di un tifo spumeggiante e spensierato si sbagliava di grosso. Impossibile chiedere a ragazzi e ragazze che hanno condiviso viaggi, gioie ed emozioni con lui di essere quelli di sempre. Impossibile pretendere sorrisi, abbracci, battute. Si è fatta una scelta diversa. Si è deciso di far guidare la Curva Sud proprio a Giorgetto. E idealmente lui lo ha fatto dal cielo, con la solita goliardia e l’originalità di sempre. Rispolverando vecchi cavalli di battaglia e nuove “hit”. Ironia della sorte quella di giocare contro la squadra dell’assonante Giurgiu, sicuramente se ne sarà fatto beffa anche lui. Una sorte che ha deciso per il più struggente e doloroso dei finali. Quasi come se fosse un obbligo far calare il sipario di una vita ultras all’indomani della partita che ogni ultras aspetta per tutto l’anno.
Vero o falso l’importante è scriverlo
Un peccato che queste sensazioni non siano condivise e carpite anche da chi dovrebbe raccontare il mondo dello sport. Perché lo sport è anche e soprattutto questo, non dovremmo mai dimenticarcene. Eppure i soliti noti erano più impegnati a sottolineare il coro contro la Lazio partito durante il minuto di silenzio in ricordo di un’altra sciagura, quella della Chapecoense. “Vergogna internazionale”, “Follia ultrà”. Quasi non si aspettasse altro. Senza certificarsi, innanzitutto, se il coro fosse partito realmente dal settore ospiti o da altri punti dello stadio (cosa non impossibile, considerata l’ingente presenza di tifosi romanisti del luogo, mischiati tra i supporter provenienti da Giurgiu e quelli, in maggioranza, neutri). L’importante è gettare nel fuoco della legna. Che arda quanto prima e accenda il veleno dello scalpore e dello sdegno nei confronti del tifo organizzato. La domanda che io mi faccio, a posteriori, è: ma è davvero importante se il coro sia venuto dal settore ospiti, dalle tribune, dagli ultras o da una famiglia? Posto che si tratta sicuramente di un comportamento sciocco, perché non si riesce ad entrare nell’ottica che la responsabilità è un qualcosa di individuale? Inoltre, perché non si sottolinea come l’intero contingente romanista abbia subissato di fischi questi cori partiti fuori luogo? Ma il ruolo dell’informazione mainstream è quello di comprendere come si svolgano i fatti o scrivere “a capocchia” la prima cosa utili ad aizzare i maniaci del web e i moralisti da quattro soldi che spadroneggiano e dettano legge nel Belpaese? Oppure l’unico obiettivo di determinate testate sportive è quello di criminalizzare qualsiasi contesto si avvicini al mondo del tifo e non fare mai e poi mai lo sforzo in più di capire e analizzare ciò di cui si sta parlando (capisco che richiede tempo e attenzione, ma sarebbe doveroso)?
Forse a rispondere palesemente a questi quesiti ci hanno pensato i commenti e gli articoli usciti relativamente agli episodi accaduti a metà primo tempo. Quando gli steward, con fare assai prepotente, hanno cominciato a guadagnare lentamente centimetri pressando i tifosi del settore ospiti verso l’altro cordone. Alla volontà degli stessi di recuperare gli striscioni rimasti ormai incustoditi, gli uomini (i giganti, è meglio dire) in pettorina gialla hanno risposto con ingiustificata aggressività, provocando qualche minuto di tensione e (peccato che nessuno lo abbia riportato) alcuni feriti tra i tifosi: percossi, attinti da spunti e bersagliati da spray al peperoncino proprio dagli steward. Del resto l’arrivo della polizia locale è sembrato più volto ad allontanare questi “omoni” che ad agire nei confronti dei tifosi. Strano no? Chi gira sovente gli stadi, e ha visitato con una certa frequenza quelli dell’Est, sa bene che spesso e volentieri la sicurezza privata è affidata a personaggi quanto meno discutibili, che godono di una certa libertà nel compiere atti violenti e intimidatori nei confronti del pubblico ospite (nella fattispecie, come detto nel precedente articolo di Gianvittorio De Gennaro, gli stessi steward di Astra Giurgiu-Roma si resero protagonisti, due anni or sono durante un caldissimo Romania-Ungheria, di pestaggi indiscriminati nei confronti dei tifosi di casa).
Se vogliamo anche il furtivo ingresso in campo di un tifoso romeno, con tanto di furto di una pezza poi recuperata dagli steward, fa parte dell’ambiente retrò degli stadi dell’Est (inutile fare morali, succedeva anche da noi fino a qualche anno fa). Certo, qua si dovrebbe entrare nell’eterna disputa sulla giustezza di “grattare” una pezza mentre la tifoseria che ne è in possesso è impegnata ad arginare l’attacco degli steward. Ma è un discorso in cui, avendo seguito il match da un altro settore, non mi permetto di metter bocca. Limitandomi a riportare l’accaduto, per dovere di cronaca.
La firma
Nemmeno una riga su tutto questo. Tante (forse troppe e sproporzionate) sul tifo della Roma. Ho letto un commento su Facebook. Non do quasi mai peso ai commenti di Facebook. Ma questo riassume il tutto: “La firma. Occorre firmare gli articoli. La firma per un giornalista è la sua faccia. E nella vita, nel bene o nel male, bisogna sempre metterci la faccia. Anche perché l’occhiello del pezzo riporta una cosa specifica: “500 ultrà romanisti hanno intonato cori contro i cugini biancocelesti”. Si parla espressamente di 500 ultrà romanisti. Perché continuare a mettere in croce una tifoseria che è già sotto il fuoco di fila, quando tutti sappiamo che, in circostanze drammatiche come quelle che hanno coinvolto i giocatori del Chape, gli ultrà, di qualunque squadra, sono i primi a mobilitarsi? Ma soprattutto perché enfatizzare questo gesto, che può essere definito vile o vergognoso proprio nella settimana del caso Lulic-Rudiger. Cazzo, e lo dico da giornalista, ricordiamo cos’era questo mestiere. Ricordiamo che non dovremmo essere al servizio di nessuno, eccetto della verità. Abbiamo dimenticato cos’è la verità, per questo è un mestiere morto”.
Amen.
Simone Meloni