Ne avevamo già parlato in «“Ultras” di Netflix: o tutto o niente» ma in tempi di gradinate ancora tristemente vuote, in attesa che passi questa emergenza Coronavirus, di tempo da perdere ne abbiamo purtroppo tanto. In diverse circostanze forse non avremmo concesso tutto questo credito a questo film. Magari sentendoci derubati del tempo per guardarlo, non ne avremmo speso altro a parlarne. D’altronde il film si presenta abbastanza bene (o male, più che altro) già dai trailer: quei pochi riflessi filmati bastano e avanzano per capire che non siamo di fronte al nuovo “C’era una volta in America” o a “Il Settimo sigillo” di Bergman; pure la prova degli attori, onestamente, è poca cosa: se si eccettua Aniello Arena che interpreta il protagonista Sandro, detto “il Mohicano”, e pochi altri, per il resto il livello di recitazione è sugli standard dei porno anni ‘80. Surreali sono anche alcune scene, ivi compreso l’urlo di battaglia del gruppo, “Augh!”, chiaramente funzionale al nome del gruppo che è “Apache”, ma che fa crollare il registro verso la comicità. Inversamente ai contenuti che sono poveri nei significati, alto è il livello del significante e la reinvenzione grafica dello stile degli ultras. Ci sono diverse sottili allusioni all’universo stadio partenopeo, nello stile dello striscione che richiama vagamente quello dei “Fedayn” ai murales e ad alcuni cori che parimenti ricalcano molto da vicino quelli realmente esistenti.

Apertura con scene di scontri reali, un’idea
che ricorda molto da vicino “L’odio” di
Kassovitz

Le curiosità maggiori che mi hanno attirato a questo film sono due, una è la prima prova su lungometraggio di Francesco Lettieri che avevo visto già all’opera in tantissimi videoclip musicali (ha diretto video di Calcutta, Carl Brave, Motta e tanti altri grossi nomi dell’indie) e l’ho sempre trovato un regista di grande talento e di sicuro interesse. E pure alle prese con i tempi meno suggestivi e iconografici di un film, ha secondo me fatto un grandissimo lavoro dal punto di vista della regia. Se si premesse il tasto “mute” sul telecomando, non credo nessuna abbia da obiettare sulla bellezza visiva di questo lavoro, tanto nelle inquadrature quanto nei tempi di ripresa.

L’altra mia curiosità riguardava la colonna sonora a cura di Liberato, pseudonimo dietro il quale si cela un non meglio precisato artista napoletano, che secondo altri è un più ampio progetto a suo modo situazionista in cui concorrono più menti di varia formazione. “Nove Maggio” per me è stata una folgorazione, tra l’altro anche lo stupendo videoclip che ha contribuito al suo successo, era firmato proprio da Lettieri e null’affatto subliminali erano i rimandi all’immaginario calcistico, stradaiolo o più prettamente ultras. Da lì in poi però, ho risentito un po’ troppo del trito marketing del mistero attorno all’identità del performer ma dietro al quale, almeno a mio modo di vedere, si occultava un decadimento qualitativo sempre più evidente. Questa colonna sonora aveva per me tutto il sapore della prova del nove. Bello il prologo dove “L’estate sta finendo” dei Righiera (già tema del tormentone ultras “Un giorno all’improvviso”) accompagna immagini di repertorio di reali scontri ultras napoletani mischiate a scene di scontri recitati dagli attori del film: meccanismo molto simile all’apertura di “L’Odio” di Mathieu Kassovitz con gli scontri nelle banlieue con un più epico aak “Burnin and lootin” di Bob Marley. Nonostante la preziosa compresenza nella tracklist di nomi come Massive Attack o della potente e inequivocabile voce di Speranza, sono arrivato ai titoli di coda senza che niente si insinuasse in maniera persistente nelle mie orecchie e nella mia mente. Delusione.

Veniamo al film vero e proprio, senza girarci troppo attorno: detto dei personaggi dal punto di vista “attoriale”, la storia è non dico oscena, come sembrerebbe a dar retta all’ultras medio, ma senza dubbio banalotta. Sono passati quasi trent’anni da “Ultrà” di Ricky Tognazzi e mentre la recitazione è addirittura peggiorata, non è che la sceneggiatura abbia fatto molti passi in avanti in termini di aderenza al reale o inventiva. Il canovaccio è pressoché identico, siamo quasi al limite del plagio, eluso giusto grazie a qualche riammodernamento come l’abbigliamento o le nuove misure restrittive in termini di stadio, vedasi i divieti di trasferta o l’obbligo di firma per i “daspati” che certo esisteva anche allora, ma era forse molto meno percepito, specie per gli estranei al settore.

Trent’anni dopo “Ultrà” ma
pochi passi avanti

Lo stesso abbigliamento è usato impropriamente al solo fine di caratterizzare la divisione fra vecchia e nuova guardia: secondo la lettura degli autori, i ragazzi più giovani vestono all’ultima moda, sfoggiando diversi dei brand attualmente più in voga in Curva, mentre i vecchi quando non indossano qualche t-shirt consunta e bisunta del gruppo, sembrano aver attinto alle donazioni della Caritas. Il dress code in verità è cambiato in maniera molto più omogenea allo stadio dal punto di vista intergenerazionale. Tanti “vecchi” trovano che l’eccessiva attenzione al lato esteriore possa portare al rischio di trascurare l’essenza dell’essere ultras, cionondimeno si sono allineati semplicemente sostituendo il vecchio bomber arancione e gli anfibi con le polo o le camicie. Ammesso e non concesso che sia una reale sostituzione e non un ritorno, considerando che taluni marchi e capi d’abbigliamento, attraverso le sottoculture contigue, si indossano allo stadio da tempo immemore. Oltretutto economicamente, di solito, gli adulti hanno un potere d’acquisto che i ragazzi non hanno e possono permettersi un guardaroba di sicuro più ampio o ricercato. Vecchio/sciatto e giovane/modaiolo sono riduzioni un po’ forzate per rimarcare le distanze e le differenze fra i due gruppi contrapposti all’interno del film. Oltretutto ci sono alcuni paradossi concettuali o forzature, probabilmente dettate da necessità narrative ma che ai conoscitori del mondo del tifo non piaceranno granché: il vecchio gruppo presenta diverse caratteristiche tipicamente anni ’90/tardi ’80, mentre il gruppo dei giovani dovrebbe, a rigor di logica, rifarsi ai dettami stilistici e ideologici dell’ondata casual post-2000, ma fra striscione, sede e quant’altro, si muove in un immaginario comunque anch’esso tipico degli anni ’90.

Polo, camicie, marchi: la differenza fra giovani e vecchi è anche stilistica

Nella storia di “Ultras” la divisione ovviamente non è solo estetica ma anche filosofica. Il nucleo storico del gruppo sembra essersi ormai adagiato sugli allori del passato, incapace di interpretare le pulsioni dei più giovani che, da parte loro, approfittando del vuoto di potere per il gran numero di diffidati fra i vecchi, spingono verso una radicalizzazione della violenza. Una radicalizzazione che può considerarsi come deriva solo nella misura in cui ciò si decide e si realizza fuori dalle dinamiche del gruppo, al di sopra di ciò che si decide in riunione, all’oscuro e senza rispetto di chi allo stadio non può esserci e non può far valere la propria posizione. Mi sembra tutt’altro che una bestialità questa, sarebbe anzi un buon motivo di riflessione per chi questo film lo guarda da militante, anzi è paradossale che certi spunti non nascano come auto-critiche all’interno del movimento ultras stesso: purtroppo questa non è fantascienza e le curve o i gruppi spaccati al proprio interno sono all’ordine del giorno, il più delle volte esattamente sulla scorta di questa divergenza di interpretazione della realtà attuale. Chiaramente il punto di vista può tranquillamente essere capovolto e le colpe delle crepe strutturali nei gruppi rigirate a chi, come la “vecchia guardia”, spesso si ostina a pensare un collettivo in maniera fin troppo egoistica, incapace di rinnovarsi accogliendo in maniera costruttiva le istanze dei giovani.

Intelligenti pauca: alla fine è fiction, sempre bene ricordarlo.

Al di là di questo sprazzo di lucidità analitica, è forse più corretto dire che “Ultras” di ultras non ha granché se non appunto un vagheggiamento pop, alla stregua dei già citati videoclip di Liberato, restando molto ma molto in superficie di una sottocultura vecchia di cinquant’anni, che a sua volta ha fatto da incubatrice a tante, se non tutte le altre sottoculture giovanili passate per lo Stivale, e che forse proprio per questo meritava un po’ più di giustizia. D’altro canto però è presuntuoso dal lato utente, e sarebbe stato altrettanto pretenzioso per il regista pensare che una storia così lunga e una realtà così poliedrica si possano racchiudere nel lasso di tempo, nella forma e nei tempi del film. La fedeltà rappresentativa è un compito a cui può adempiere forse solo il documentario, questa signori è fiction, suvvia, per cui prendetela come tale e non statene a fare una questione di lesa maestà. In uno slancio di sincerità bisogna ammettere che a noi ultras non ci è mai andato bene niente, nessuno è stato mai all’altezza di raccontarci, arroghiamo solo a noi stessi tale possibilità credendo che bastino allo scopo auto-narrazioni mitomani o comunicati sgrammaticati che meriterebbero cariche violente dei nostri vecchi prof. di italiano in blocco.

Legittimo che gli ultras napoletani abbiano preso le distanze da questo prodotto a suon di striscioni e scritte sui muri, alla stessa maniera è stato proprio il regista, prima ancora di far partire il primissimo fotogramma, a sottolineare che il film è opera di finzione e non ha nulla a che spartire con fatti realmente accaduti, tantomeno con gli stessi gruppi ultras napoletani che sono da ritenersi estranei in tutto. A scanso di equivoci meglio puntualizzare anche l’ovvio, ma per chi ha un minimo di capacità intellettive non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno. Oltretutto si sarebbe potuta scegliere qualsiasi altra città come sfondo e a parte la bellezza della location non sarebbe cambiato granché nell’economia della storia, che è semplicemente quella di un uomo al bivio, che non riesce ad emanciparsi dalle passioni che hanno contraddistinto tutta la sua vita ma che, al contempo, continuano a condizionarlo fortemente. Certo, per la gioia di chi in certa misura vi si sente coinvolto, sarebbe stato meglio se avessero optato per una qualsiasi altra “passione”, ma tant’è: altri argomenti non hanno evidentemente la forza “polarizzante” o la capacità di attrarre l’attenzione morbosa degli spettatori, ragion per cui Lettieri ha fatto la scelta più furba e ruffiana. Fosse stata la storia chessò, di un musicista che in assenza di sbocchi lavorativi abbandona le serate con gli amici in locali improponibili in cambio di un rimborso spese per iscriversi a “Scienze Infermieristiche”, l’impatto mediatico sarebbe stato di gran lunga inferiore.

Il film più che di ultras parla di un uomo ad un bivio della propria vita

Al netto dei tentativi di slegare il film da ogni evento reale, sdegnate sono state le parole di Antonella Leardi, la mamma di Ciro Esposito, che ha individuato più di un riferimento alla triste vicenda personale di suo figlio. Se a tutte le altre critiche, comprese quelle degli ultras, Lettieri non ha mai inteso replicare, non è riuscito invece a restare indifferente di fronte alle parole della Leardi, alle quali ha risposto con un lungo post sulla sua pagina personale: il personaggio di Sasà (un ragazzo morto in passato negli scontri) che nel film non compare mai se non su un murales in due inquadrature, rappresenta il martire ultras, quello che ogni tifoseria commemora. A Napoli abbiamo Ciro e Sergio, la Lazio ha Gabriele. Ogni tifoseria, dalla serie A all’eccellenza ha il suo morto innocente e il Sasà di Ultras rappresenta genericamente tutti ma nessuno in particolare

Nello stesso messaggio inoltre, a quanti hanno addebitato a lui la solita “Gomorrizzazione” della città, il regista ha ribattuto che: La Napoli di Ultras non è mai degradata, c’è sempre il mare, i vicoli del centro sono pieni di turisti. (…) Nel film non c’è uno spacciatore, non c’è una pistola, non c’è un furto. C’è la violenza, sì, ma ci sono anche l’amore e l’ironia, c’è l’umanità

La Napoli del film, fra rappresentazione “glam” e accuse di “gomorrizzazione”

Non avendo gli elementi cognitivi per confermare o smentire la bontà della rappresentazione di Napoli, che comunque è uno dei tanti oggetti della contestazione degli ultras locali nei suoi confronti, per quanto concerne il mondo del tifo si può dire con buona certezza che una pari premura ad evitare gli affollati luoghi comuni non è stata usata: la violenza degli ultras del film è cieca, mazze, catene, persino coltelli, non c’è insomma la minima traccia di un codice morale, l’unico fine è sopraffare l’avversario, interno o esterno che sia, magari “caricandosi” con qualche pista di cocaina. Senza nascondersi dietro un dito, possiamo pure ammettere che certe dinamiche non siano del tutto aliene agli ultras, ma senza una parallela valorizzazione dei suoi lati positivi, diventano una “macchiettizzazione”, un cliché ingiusto e piccolo-borghese. Non vi è traccia alcuna dell’aggregazione, quella positiva, che fa spesso del gruppo ultras il fulcro del mutuo soccorso verso i suoi appartenenti in difficoltà economica o psicologica. Assente ingiustificato anche l’istinto solidaristico di cui, solo per restare in questi giorni di emergenza Coronavirus, se ne sono avute innumerevoli riprove. Non vi è l’amore attivo per la propria città. Annichilita la creatività. Insomma nulla di nuovo sul fronte cinematografico, nulla a cui non siamo ormai tristemente abituati, nulla di cui scandalizzarci, ragion per cui non c’è nemmeno tutto questo bisogno di stracciarsi le vesti: regia a parte, è un film né migliore e né peggiore del desolante panorama italiano, un film che di certo non varrà a Lettieri e i suoi il prossimo premio Oscar, ma che si lascia comunque guardare senza troppe pretese in questi lunghi e noiosi pomeriggi rinchiusi a forza in casa e se vi addormentate sul divano o dovete andare in bagno, non dovrete nemmeno preoccuparvi di tornare indietro per riascoltare i dialoghi. Infine, chi di boicottarlo se n’è fatto un punto d’onore può perseguire i suoi fini senza troppi patemi, alla fine non si perde granché.

Matteo Falcone