È capitato a tutti noi, indipendentemente da età, sesso, luogo di origine. Pensare a come saremmo stati tra 5, 10 anni. A volte anche 20. Di più no, sennò la vertigine aumenta e può diventare incontrollabile.
A 15 anni pensare ai 25 o ai 35 era qualcosa di quasi impossibile. La tua fantasia doveva andare oltre la boa del limite immaginabile.
A 20 era più facile vederci di lì a qualche anno, ma già i 40 richiedevano un ulteriore supplemento tariffario al nostro viaggio al limite dell’inconcepibile.
E così a qualsiasi età. E il giochino va avanti, di tanto in tanto.
A 14 anni entrai in curva. Quasi simultaneamente cominciai a scattare, con destinazione Supertifo. Un tragitto ingrato fatto di rullini, stampe costosissime, francobolli e speranze di pubblicazione.
A 14 anni mai mi sarei immaginato di fare oggi le stesse cose. È ovvio, la curva me l’hanno tolta. Anzi, hanno fatto prima: mi hanno tolto direttamente la squadra. Almeno non se ne parla più.
Ma le foto no. Ci voleva un onanismo mentale notevole, quando ritiravo fiero i miei scatti dallo studio fotografico nel 1994, a pensare al digitale, agli smartphone, ai social. Seh, figurati!
Oggi, superata la boa dei 35 e andando molto, troppo velocemente verso i 40, confesso che proiettarmi tra 10, 20 anni, mette più paura. C’è meno fantasia e troppo, ineluttabile realismo. E poi sbaglierei comunque, come sbagliai tanti anni fa.
Anzi. È più facile, a causa delle montagne russe della vita, riguardare indietro, ai trascorsi, alle gioie, ai momenti che ti hanno fatto crescere.
La domanda non è più “come sarò”, ma “come ho fatto a diventare quel che sono oggi”, e non è detto che tale interrogativo si tinga necessariamente di negativo.
La curva è stata una cosa; il percorso nel giornalismo, e più specificamente, nelle nostre tifocronache, è stato un viaggio parallelo. Forse in un universo parallelo. Meno intenso rispetto a quei dannati gradoni, ma più stabile.
Tutto scorre, panta rei e madre de dios. Passano gli amori, i posti dove viviamo, passano purtroppo anche alcune delle persone più care a cui siamo legati. Diminuiscono le risate e l’allegria, crescono i dubbi e i rimpianti.
Ma quando sei a bordo campo, o a bordo pista, o anche in tribuna stampa – perché, che non lo sai? Noi ci siamo anche evoluti (o devoluti) nel frattempo – le dinamiche sono simili anche se il contorno cambia.
Gli spettatori sono di meno, ma la pioggia battente te la becchi lo stesso.
I cori degli ultrà sono un copia e incolla in formato multimediale e multinazionale, ma per te non è mai tutto identico tra una partita e l’altra, tra un campo e l’altro.
Le offese a bordo campo da chi non vuole essere fotografato te le incassi sempre, ma poi ti ritrovi a usare nuove parole per difendere tutti indistintamente.
I fumogeni e le torce sono vietati, ma l’accensione di quell’artifizio per te è un capodanno.
La tessera e i nominativi hanno cancellato il romanticismo, eppure ammiri chi ci prova ancora.
I Social Media hanno invertito idee e teorie, ma ti ritrovi sempre ad ammirare chi resta in piedi a cantare al freddo, in pochi, contro tutti.
Ti chiedi, certo, chi te lo fa fare, qual è la molla che ti spinge a diventare scrittore, fotografo, amante, avvocato, vagabondo mentre tutto il mondo che hai costruito intorno a te e che ti ha costruito sta sfumando lentamente.
Ti chiedi se il gioco vale la candela, se non è meglio mollare tutto in nome di realtà più convenienti o clausure mistiche.
Ti chiedi in nome e per chi spendi i tuoi soldi, sacrifichi i sabati, le domeniche, i lunedì, i martedì e ormai anche tutti i giorni della settimana, gli affetti, le passioni personali.
Ti chiedi quanto hai ancora i piedi piantati nel presente mentre il quadro del futuro è a tinte fosche e quello del passato ha colori troppo accecanti per reggere il confronto.
Forse siamo ancora come quegli irriducibili cinesi che, anche nel pieno terrore della repressione causata dalla rivoluzione culturale, in gran segreto continuavano ad allevare i loro grilli in minuscole gabbie per sentirne il canto. Lo chiamavano “il piccolo gioco”, faceva parte di una tradizione millenaria. Ai tempi di Mao, venire sorpresi con un grillo celato nelle tasche poteva significare perdere tutto, anche la vita. Perché anche allevare un piccolo grillo metteva paura. Perché anche allevare un piccolo grillo poteva causare la repressione più spietata.
L’ultima domanda, allora, si ricongiunge con l’inizio, chiudendo un cerchio ideale. Io, quindi, a 40, 50, 60 anni, ammesso e concesso di avere la fortuna di arrivarci e bene? Ancora a fare questa vita?
Qualcuno di noi ai 50 ci è già arrivato, e continua orgoglioso.
Ultraquarantenni, per ora, numerosi e di belle speranze.
Andremo avanti, magari. E allora cosa saremo? Dei pionieri precursori o gli ultimi guardiani di un tempo che non c’è più?
È troppo amaro chiudere con un punto interrogativo.
Di sicuro, quel che facciamo, non è figlio di frustrazione, anomalie psichiche, repressione mentale o sociopatia.
Facciamo quel che facciamo perché siamo dei testimoni.
Siamo testimoni e figli del nostro tempo.
E, come disse un noto storico, “siamo più figli dei nostri tempi che dei nostri padri”.
Stefano Severi.