La vera sorpresa è accorgersi che qualcuno si sorprenda. Un fallimento – soprattutto quando si presenta in proporzioni tanto grandi da assumere margini epocali – non avviene certo casualmente. È soltanto il punto finale di una parabola discendente colma di errori e intrisa di lassismo, incompetenza e ingiustificata superbia.

È troppo semplice oggi scagliarsi contro Giampiero Ventura (tecnico inadeguato, sia chiaro, come inadeguato è però chi lo ha scelto) o prodursi in retorici eloqui che vorrebbero indicare i troppi stranieri nei nostri campionati e nei nostri vivai come unica ragione di una debacle fragorosa. Come se nei settori giovanili di Spagna e Germania (che ad oggi, ahinoi, rappresentano il top nel mondo del calcio anche in prospettiva futura) fossero tutti autoctoni.

Certo, è fuor di dubbio che l’inserire nelle nostre rose un numero elevato di forze provenienti da fuori, le quali troppo spesso apportano una valore aggiunto pari a zero (anzi, spesso favoriscono il livellamento verso il basso), non aiuti la salvaguardia del calcio nazionale, ma è altrettanto vero che fare un uso populistico e speculativo di questo conduce soltanto a continuare su questa falsariga di gioco al rimpiattino. Incompetenti contro contestatori in malafede. Con i grandi esclusi che continuano a essere quelli che lavorano da anni bene e sottotraccia. Ma forse non hanno i giusti santi in paradiso.

Se poi parliamo esclusivamente di vivai, il problema da noi è un altro: l’importazione di ragazzi “forestieri” per spendere di meno nella loro formazione, per rimpinguare le tasche di quei procuratori che ormai rappresentano davvero uno dei mali del calcio e per realizzare facili plusvalenze. Oppure lo scarto sistematico del talento quando non è “corredato” da un fisico in grado di incidere sui risultati già nelle prime fasi agonistiche.

Perché? Avete idea dei soldi che girano nel calcio giovanile e quante società vivano (e pure bene) grazie alla vittoria dei campionati agonistici? Questa corsa al soldo ovviamente azzera anche talenti di prospettiva. Questo affannarsi a rincorrere la vittoria in ogni modo e in ogni condizione porta alla sconfitta certa nel futuro immediato, quando ragazzi e squadre si fanno maggiorenni e sono chiamati a foraggiare la piramide calcistica dalla Terza Categoria alla Serie A.

Se poi ce la vogliamo prendere con gli oriundi facciamo pure, ma teniamo presente che in tre rose su quattro che hanno conquistato la Coppa del Mondo c’era almeno un giocatore naturalizzato. Nel 1934 Allemandi, Borel, Demaria, Guarisi e Guaita. Nel 1938 Andreolo. Nel 2006 Camoranesi. Senza menzionare poi i vari Altafini e Sivori che in oltre cent’anni di calcio italiano hanno vestito la maglia azzurra. Segnale di debolezza? Può essere. Ma è davvero da populisti addurre tale harakiri alla loro presenza.

Come detto gli insuccessi partono da lontano. Se andiamo ad analizzare la strada della Nazionale dopo il 2002 (a mio avviso ultima rosa di livello davvero eccellente) ci imbattiamo in un suo lento declino. Che guarda caso ha marciato di pari passo con l’invecchiamento di quei giocatori “vecchia scuola”, dotati di un certo carisma, come Del Piero, Buffon, Cannavaro, Gattuso, Nesta, Totti, Baggio e via dicendo. Il 2006 ci ha portato una Coppa del Mondo, ma a rivederla ora è stata più una restituzione di sfortune e insuccessi immeritati nei tre lustri precedenti che una vittoria dettata da un percorso netto e a spron battuto nella fattispecie. Nel calcio però serve anche questo.

Nel frattempo anche i club hanno smesso di essere tutto ciò che erano stati nel recente passato. Quante squadre si sono qualificate per la Coppa Uefa (o l’Europa League) senza neanche giocarla? Anche tra i grandi club, chi ha saputo vedere al di là del mero guadagno offerto dalla Champions League andando a rafforzare una tradizione di successi perdurata almeno fino all’inizio degli anni 2000? Ci sono stati casi sporadici, legati solo a determinate squadre e in determinate situazioni economiche. L’Italia ha di fatto smesso di essere un’amalgama corretta e gradualmente livellata. Passando dall’essere modello a voler copiare a tutti i costi modelli altrui. Ora ne paghiamo lo scotto.

E neanche i più retorici e patetici nazionalismi marcati Mamma Rai, neanche i commenti più scontati firmati Walter Zenga possono lavare questa vera e propria vergogna sportiva. Un collasso preannunciato che in tanti hanno provato a lenire parlando di arbitraggi scandalosi e gioco duro attuato dalla Svezia. Come se tutto ad un tratto il calcio fosse diventato uno sport senza contatto. Come se non fosse normale, logico e persino giustificato che una squadra meno tecnica e più fisica giochi tutte le sue chance in questa maniera. Scuse, scuse e ancora scuse. Solo questo sono risultate determinate chiacchiere da bar.

Chiacchiere da bar da una parte e dall’altra. Dabbenaggini dal lato degli strenui e interessati difensori istituzionali, attacchi spesso sconclusionati e volti a raccogliere quattro like sui social provenienti da alcuni pulpiti.

Mi si perdoni se sono costretto a chiamarlo in causa, ma posso sapere, ad esempio, in base a cosa tale Sandro Pochesci può fare morali e impartire lezioni al prossimo (utilizzando peraltro linguaggi e slang che faticano a comprendere al di fuori del Grande Raccordo Anulare)? Lui, dipendente di una società che sinora ha lasciato macerie laddove è transitata (vogliamo chiedere informazioni a Fondi, ad esempio?), trasgredendo qualsiasi regola di base nel rispetto delle tradizioni calcistiche?

Quando sono fallite le Parmalat di turno e quando nel nostro pallone hanno cominciato a girare sempre meno soldi (ma soprattutto quando gli stessi hanno cominciato ad essere ripartiti in malo modo) bisognava aumentare il lavoro di crescita tecnica, sopperendo alla retromarcia economica con la ricchezza delle conoscenze. E invece si è preferito adagiarsi sugli allori. Credendo che, in fondo sì siamo l’Italia, tutto ci è dovuto”. Peccato che il mondo – come prevedibile – non si sia fermato ad aspettarci. E la grande occasione di riempire i nostri centri federali di talenti e utilizzare le nostre scuole calcio per quello che tale dicitura significa (scuole calcio=posti dove si insegna calcio) è stata gettata alle ortiche da una tipica cecità italiana. Producendo danni che ci porteremo dietro almeno per un altro decennio.

L’Italia non parteciperà ai mondiali esattamente come nel 1958. Il Mondiale del Maracanazo, la sconfitta in finale dei padroni di casa del Brasile contro l’Uruguay che indusse un’intera popolazione a cadere in una depressione collettiva. Sessant’anni dopo la solfa si ripete e – vivessimo in un Paese che sa fare un minimo di autocritica – troppe dovrebbero essere le teste a cadere per non far mai più ritorno sullo scranno del potere. Successivamente però una domanda mi sorgerebbe: chi li rimpiazzerebbe?

I Tommasi? Gli Albertini? Oppure i soliti “vecchioni” che ciclicamente escono dalla porta per rientrare dalla finestra? Se nei secondi le controindicazioni sono talmente palesi da non meritare neanche approfondimenti, nei primi si rischia seriamente di ingigantire quel modus operandi caratterizzato da una “leggerezza intellettuale” e da un “moralismo sportivo” che hanno un pochino distorto la strada sia delle nuove generazioni di calciatori e calciofili e sia quelle di addetti ai lavori validi e meritevoli di credito. In Italia, oltre ai discorsi triti e ritriti su quanto si debba essere belli, buoni ed educati sugli spalti e sul terreno di gioco, c’è bisogno di riforme vere e ponderate. E non di scelte fatte per azzittire il popolino e continuare, dietro le quinte, a riempirsi la pancia a spese del movimento sportivo. Necessitiamo di personaggi che il pallone ce l’hanno nelle vene e lo sanno declinare in tutte le sue accezioni. Anche con un po’ di sana cattiveria e magari con qualche giacca tirata a lucido in meno.

Ridurre le squadre nei campionati è senza dubbio una soluzione da attuare, ma come si può pretendere che un movimento calcistico sia florido se ogni anno – soltanto tra i professionisti – falliscono decine di società? Marchi storici, addetti ai lavori che divengono disoccupati e tifosi annichiliti con un colpo di spugna. Costretti, quando le cose vanno bene, a ripartire dal dilettantismo. Se la Nazionale è la massima espressione del calcio in un Paese bisognerebbe ritenersi fortunati nell’aver disputato Mondiali ed Europei senza troppi problemi fino a oggi.

Siamo andati avanti (e continueremo ad andare avanti) per troppi decenni con i Carraro, i Tavecchio, i Lotito, i Macalli, i Matarrese di turno. Ora ne paghiamo le spese. Ma non andrebbe neanche scritto per quanto è palese e chiaro. È un po’ come quando nel paesello c’è quel tizio abituato a rubacchiare per vivere. Per anni tutti lo sanno ma lo lasciano fare, poi arriva il giorno che ruba le galline sbagliate e tutti si indignano. Del resto abbiamo sempre detto che il calcio è lo specchio del Paese? E allora cosa ci potevamo aspettare? Basterebbe vedere il trend del nostro pallone in questi ultimi anni per realizzare con facilità che la serata di ieri altro non è che l’approdo finale di uno sistematico lavoro di smantellamento.

Comunque sono abbastanza certo che la soluzione “Gattopardo” sarà la più gettonata. Tutto cambierà per rimanere com’è. Del resto se il buongiorno si vede dal mattino sono tutti ancora là. Più baldanzosi che mai.

Ma in questo scenario vogliamo forse omettere il pubblico, gli stadi e il rapporto in generale col mondo del tifo in questi ultimi quindici anni? Stolto e miope chi non comprende il legame tra tutte queste componenti.

Una decina di anni fa ci avevano prospettato una nuova alba per gli stadi italiani. Ci hanno imposto tessere, biglietti nominativi, prezzi esorbitanti, barriere, orari impossibili e partite sempre meno interessanti. Tutto per riportare “le famiglie allo stadio”, ci hanno raccontato. E siccome questi sono temi che noi abbiamo sempre affrontato in maniera approfondita, non ci sarebbe neanche bisogno di spiegare quanto l’allontanamento dei tifosi dalle gradinate e dal calcio in generale sia uno dei massimi risultati ottenuti dai cervelloni che per tutto questo tempo si sono avvicendati nella stanza dei bottoni. Tanto che ieri mattina ci saremmo anche aspettati un bel titolone, su un giornale nazionale, per accollare agli ultras la mancata qualificazione. Sarebbero stati capaci.

E invece hanno puntato su un qualcosa di impossibile nei giorni precedenti: la presunta bolgia che il pubblico di San Siro avrebbe dovuto creare. Il pubblico della Nazionale, storicamente mai stato rumoroso, figuriamoci dopo anni in cui chiunque ha osato frequentare gli spalti è stato additato con ogni genere di epiteto. Scalmanato, ignorante, violento, camorrista e chi più ne ha più ne metta. Però, all’occorrenza, lunedì sera a tutti sarebbero piaciute le due curve del Meazza con gli ultras. Magari anche con i tamburi e i fumogeni che per tanti anni sono stati demonizzati e vietati. E magari pure con un paio di megafoni.

E invece no, pensa tu. Il ruolo dei leoni lo hanno fatto i “freddi” scandinavi. Non ultras magari, ma calorosi per tutti i 180′. Erano 1.800 nello sperduto terzo anello (chissà cosa avranno pensato circa l’ospitalità italiana, dopo che ai supporter azzurri a Stoccolma era stato destinato uno spicchietto adiacente al campo) e hanno fatto il possibile per farsi sentire. Poco da imputargli. Tanta voce – soprattutto nei momenti di difficoltà della propria nazionale – tanto colore e tanta voglia di divertirsi, ritmati – loro sì – dall’incessante suono del tamburo. La stessa voglia di divertirsi che al pubblico italiano hanno insegnato essere un comportamento che va contro il fair play. Persino un fumogeno giallo accesso nel finale per festeggiare la qualificazione.

Di fronte a loro 70.000 manichini impassibili. Di cosa vogliamo parlare? Del vostro ideale di pubblico che ha fallito in ogni suo punto e in ogni sua forma?

Nota a margine: dopo diversi anni ho rivisto all’esterno dello stadio una quantità impressionante di bagarini e venditori abusivi vari. Ovviamente il tutto di fronte alle centinaia di agenti schierati per paura di non si sa quali incidenti, vista la tranquillità della tifoseria ospite e l’inesistenza di quella italiana, almeno nelle partite casalinghe (diversa la storia fuori casa, dove comunque va dato atto al movimento Ultras Italia di aver creato un discreto zoccolo duro sempre presente).

Ecco, per tutte queste ragioni non si continui a credere alla favola degli episodi sporadici. C’è chi pensava di aver toccato il fondo nel 2010 in Sudafrica, quando si riuscì a non passare un girone che tra le avversarie vedeva la Nuova Zelanda. Si è riusciti a far peggio. E siccome al peggio non c’è mai fine chissà cosa dovremo aspettarci nel futuro prossimo.

Ho smesso da tempo di credere che l’Italia, in qualsiasi campo della vita, sia capace di lavorare con programmazione, umiltà e abnegazione. Per farlo ci sarebbe bisogno di un radicale cambio dai vertici alla base. Troppo complicato per gli interessi e i nepotismi che ci sono costantemente in ballo.

Era ovvio che neanche il nostro proverbiale “stellone” avrebbe potuti salvarci vita natural durante. Così come era ovvio che in un Paese dove è ormai vietato sognare, anche per tanti bambini divenisse proibito vivere quello che un po’ tutte le nostre generazioni hanno vissuto: l’estate davanti alla televisione, con il calcio improvvisamente divenuto interessante anche per chi non ne conosce le regole basilari e le esultanze sfrenate ai gol o le lacrime alle dolorose eliminazioni ai calci di rigore.

Infine: avevamo poche cose certe. E tra queste c’era senza dubbio la Nazionale di calcio. Nessuno si è mai interessato alle qualificazioni, ad esempio, perché ritenute semplice formalità. D’ora in avanti cade anche questo mito. Un primato davvero poco edificante.

L’avete fatto grosso il danno.

Simone Meloni