C’è un malato sul letto di un ospedale. Tutti gli girano attorno guardandolo come una cavia da laboratorio. Ognuno vuol mettere mano per sentire la sua temperatura corporea e, al momento giusto, affondare la lancia nel costato per capire se nelle sue vene scorra sangue. C’è un primario cinico, calcolatore e spietato. Che il malato vuole tenerlo in vita, riempiendolo di medicinali stordenti e finendolo piano piano. Con piccole scosse di elettroshock e sevizie di ogni tipo. Questo primario è tutelato e opera a pieni voti e in piena sincronia con il regolamento ospedaliero.

Se si vuol analizzare la vigilia del Derby della Capitale non si può che prendere a termine di paragone una corsia di un qualunque nosocomio. Non necessariamente italiano. Ma forzatamente inospitale e subdolo. Senza cadere nella retorica e nel vittimismo. Ma rasentando il realismo più spicciolo e asetticamente obiettivo: sono i tifosi di Roma e, in questo caso, i tifosi della Roma, vittime sacrificali di un accanimento terapeutico senza precedenti nel mondo del calcio italiano? Se la risposta è contraria si prega di enumerare ragioni e concetti che ne perorino la causa.

Succede che la società, cosciente dell’assenza da parte della Curva Sud a quella che rischia di essere una delle più importanti stracittadine degli ultimi anni (sportivamente parlando), opta per una rifinitura a porte aperte. Non in un luogo qualunque, ma presso lo stadio Tre Fontane. Da poco rimesso a nuovo e custode di un passato che ha visto tanti ragazzini marinare la scuola tra gli anni sessanta e i primi ottanta per assistere agli allenamenti dei giallorossi. Un’icona inconfondibile e indimenticabile per molti padri di quei ragazzi che oggi rivendicano la propria passione e il proprio orgoglio di portare una sciarpa al collo e sventolare una bandiera. Magari appoggiati a una balaustra o in piedi su un ballatoio. Senza esser sanzionati. Perché, farò pure opera di retorica, una passione non può essere multata. Anzi, la passione del derby di Roma ha permesso alle due squadre di essere note in tutto il mondo. Due club che difficilmente si sarebbero fatti conoscere per i risultati sul terreno di gioco.

Ci hanno provato fino all’ultimo gli uomini di Spalletti. “Rientrate, almeno al derby”. Giusto, da parte loro. Comprensibile. Giocare in un acquario, che stavolta vedrà la preponderanza dei tifosi avversari (preponderanza sempre nei canoni dei 30.000 tagliandi miseramente staccati complessivamente) non deve essere il massimo. Ma la protesta continuerà. Facendo male, molto male, al cuore di chi è abituato a vivere questa sfida già dalla settimana prima e trova spesso in quei novanta minuti la coronazione di una stagione o una delusione profondissima e difficile da smaltire. Almeno fino al derby successivo.

Succede così che l’appuntamento del Tre Fontane diventi subito un evento. Al quale partecipare senza remore e distinzione. Ci debbono essere tutti i romanisti. A far festa e sostenere con la voce alta i propri giocatori. Ma c’è un “ma”. Nessuno ha fatto i conti con l’oste. Un oste che dall’estate del 2015 associa le due parole “tifoso romanista” a epiteti ben più gravosi nella lingua italiana. Ma soprattutto un oste che continua ad ammettere in maniera linda la sua incapacità (voluta?) nel gestire eventi anche di media/bassa portata. Sebbene si tratti della città più grande del Paese. Nonché della sua Capitale. Le tavole sono quasi imbandite quando la Roma fa sapere che:

Si è svolto nel tardo pomeriggio,un tavolo tecnico convocato dalla questura, in cui sono state sollevate una serie di criticità per l’allenamento di domani al Tre Fontane:
– Attività concomitanti quali Rugby e Luna park
– Affluenza prevista superiore alla capienza della tribuna (1500 in attesa dell’agibilità della seconda tribuna)
– Pre referendum, forze dell’ordine già dislocate in prossimità dei seggi
– Rischio paralisi del quadrante

A fronte di tutto ciò ci troviamo a dover accogliere l’invito della questura e ad annullare l’iniziativa.

In ordine, dunque, si afferma che Roma non è in grado di garantire il regolare svolgimento di un allenamento a porte aperte dove avrebbero partecipato al massimo qualche migliaio di spettatori con enfasi e toni festosi. Senza alcuna tifoseria avversaria e soprattutto senza alcun motivo di creare acredini o disordini. E forse questo è il messaggio più grave di tutta la faccenda. Nel 2016 le istituzioni capitoline ammettono tutta la propria impotenza di fronte a una sgambata pomeridiana di una squadra di calcio. È la stessa città che vorrebbe far fronte ad emergenze ben più gravi e critiche da contenere?

Oppure si tratta semplicemente di un’ulteriore museruola ai tifosi che, in una situazione simile, avrebbero dimostrato per l’ennesima volta quanto il folle marchingegno messo in atto all’Olimpico sia inutile e dannoso?

La presenza di un Luna Park è veramente così ostativa per far affluire dei tifosi in un impianto da poco rimesso in piedi, seppure manchevole dell’agibilità per una tribuna? Quanti agenti sarebbero serviti per prestare servizio in loco? Anche e soprattutto tenuto conto del carattere ludico della giornata, alla quale avrebbero partecipato proprio quelle numerose famiglie che ormai da anni ci vengono propinate come antidoto alla violenza degli ultras? Forse avrebbe dato fastidio, invece, che le stesse si sarebbero mischiate proprio con gli ultras. Accompagnandone i cori e sostenendone il colore e il calore per quella che resta una passione popolare. Che dire, poi, sul “rischio paralisi del quadrante”? 1.500/2.500 persone rischiano di mandare in tilt un’area immensa come quella dell’Eur in un’orario tranquillo come quello delle 15 di sabato? Ci sarebbe da preoccuparsi se così fosse. Roma è già una città afflitta dal traffico giornaliero eppure a nessuno (giustamente) è mai balenata in mente l’idea di far sopprimere manifestazioni di quartiere o eventi locali che di tanto in tanto costringono a deviazioni e ingorghi. Con questi criteri in nessuna città del mondo si dovrebbero svolgere elezioni ed eventi sportivi assieme o altri eventi estranei a partite di calcio. Viene in mente, su tutte, Londra. Col suo tanto decantato modello inglese. Bene, sappiate che con quel modello si riescono a gio ocare decine di gare insieme in ogni categoria, lasciando persino spazio ad altre manifestazioni che ogni fine settimana si svolgono in città.

Una scelta che inoltre cozza persino con le dichiarazioni rilasciate stamani dal Capo Gabinetto della Questura di Roma Roberto Massucci. “La Capitale d’Italia ospita grandi iniziative come Giubilei straordinari e può affrontare qualsiasi evento” ha detto Massucci. Eppure non sembra affatto così. O meglio, la capacità e le forze per organizzare un evento mondiale come il Giubileo ci sono, quelle per far svolgere regolarmente un allenamento a porte aperte no. Ognuno tragga le proprio conclusioni. Di certo troppo spesso si fa abuso del termine “terzo mondo” paragonandolo alla Città Eterna. Ma mai come in questo caso calzerebbe a pennello. Esplicative anche le parole dell’ex Prefetto Achille Serra (celebre per aver istallato la scala gialla al centro delle curve, una sorta di antesignana delle attuali barriere), il quale si è scagliato senza mezzi termini contro l’attuale gestione dello stadio Olimpico: “Allo stadio non succede nulla, le barriere vanno tolte”, sottolineando come il referendum “ci sia anche in altre città eppure si disputino partite altrettanto importanti”. Dichiarazioni che forse fanno luce anche su come tutta la vicenda sia vista all’interno delle istituzioni stesse.

La politica cosa dice in tutto ciò? È normale che la città sia sempre più schiava e vittima di decisioni emergenziali e cervellotiche? Ci sarebbe bisogno di un intervento forte e chiaro del Comune (a tal merito più che opportuna la richiesta di MyRoma alla sindaca Raggi), in maniera tale da togliersi da una situazione di impasse. I cittadini hanno ancora il diritto di esercitare i propri diritti e assistere in tranquillità a un evento sportivo pubblico e gratuito oppure debbono essere marchiati come mucche da pascolo e, all’occorrenza, messi nei recinti per arginarne l’uscita? Si può sapere qual è il motivo scatenante di tanto livore nei confronti del pubblico romanista?

Basterebbero queste decisioni a spiegare il perché di una protesta. Il perché dei pochi biglietti venduti in vista di domenica. Il clima di terrore ha prima tramortito e ora sta uccidendo definitivamente un qualcosa da sempre insito nel tessuto sociale romano.

L’ultima carta che potrebbe giocarsi la società è l’apertura dei cancelli di Trigoria, permettendo ai tifosi di assistere alla fase di rifinitura. Ma bisogna usare il condizionale, il clima venuto a crearsi è abbastanza palese e anche dalle parti di Piazzale Dino Viola, dopo il peccato originale di esser intervenuti tardivamente sulla questione, si rischia di finire nel terreno minato di un braccio di ferro che ormai stringe tutta l’entità sportiva della Capitale e che vede in netta minoranza chiunque osi confrontarsi con la “stanza dei bottoni”. Un vero e proprio vuoto di potere. O un potere sin troppo accentrato in talune mani. Basti pensare anche alle dichiarazioni degli ultimi tempi rilasciate da Malagò sulla questione “barriere”. Di sicuro tutte le componenti istituzionali (dal club al Coni, passando per il Comune) debbono dimostrare polso e forza di volontà nel sovvertire la realtà corrente.

L’unica certezza che rimane è che questa situazione non può protrarsi in eterno. Il pubblico di fede romanista si sente sotto scacco e continuamente chiamato a dar dimostrazione di se, neanche fosse a scuola. In un momento storico in cui essere tifosi di calcio ed essere tifosi della Roma fa rima sempre più con essere dei soggetti pericolosi per la società civile.

Simone Meloni