“Papà, mi porti in mezzo ai fumogeni?”. Comincia così la giornata del derby. Quello delle divisioni, quello dei divieti e della polizia a cavallo, beffardamente annunciata come innovazione suprema del ventunesimo secolo da chi, forse, è rimasto a concetti, idee e modus operandi più consoni al medioevo.
C’è tanta gente di fronte a Campo Testaccio, l’antico fortino difeso a spada tratta dal Fornaretto Amadeo Amadei, quello stadio costruito sul modello di Goodison Park che, come un’antica favola, si è tramandato magicamente di generazione in generazione, pure avendo vissuto solamente undici anni ed essendo stato tristemente demolito nel 1940. Ci dicono che Campo Testaccio è stato quanto di più romanista sia esistito per ospitare le partite del sodalizio giallorosso. E ci crediamo. Perché ubicato in una zona, in un anfratto, che sa di popolare in ogni sua sfaccettatura, anche se negli ultimi anni è cambiata tanto e repentinamente.
Ci sono le signore affacciate alla finestra, con i bambini e con le bandiere giallorosse. Aspettano che il corteo parta. Nessuno, forse neanche il più ottimista, avrebbe pensato a una simile risposta da parte delle persone. Tanta gente comune, altro che tifosi violenti, irrispettosi della legalità e delle più basilari regole del vivere comune, come nei giorni precedenti avevano volgarmente vomitato i virtuosi pulpiti dei Luca Di Bartolomei, o dei Claudio Lotito. E come faranno, anzi hanno già iniziato, in questa settimana, i soldati dell’ingiusto, che stigmatizzeranno i fumogeni, le torce e il fiume di gente non autorizzata che ha camminato pacificamente per le vie del quartiere. Perchè questa è la democrazia del 2016.
La stessa che ha costretto tanti a operare una scelta coraggiosa, profondamente simbolica nell’era del consumismo e del clientelismo sfrenato, come quella di disertare le gradinate nonostante i tanti soldi spesi. Ditelo a chi parla di prostituzione, droga e minacce allo Stato. Raccontategli di chi c’era ieri a Testaccio e ricordategli delle file disumane contro il Real Madrid, dove poteva scapparci il morto, ma dove proprio quello Stato “minacciato” parlò di tutela necessaria nei confronti dei cittadini e perfetto mantenimento dell’ordine pubblico..
Ditelo a chi stamattina si è affannato ad anteporre e tentare di galvanizzare uno dei pochi momenti aggregativi svoltosi nella città della disgregazione ponderata, le solite storielle utili a generare la macchina del fango necessaria per giustificare chi ha speso milioni di danaro pubblico per presidiare uno stadio con 22.000 spettatori, ad esempio, e farlo passare come un successo.
“Infiltrazioni politiche, guerriglia con i rom, giornata non per le famiglie, reporter minacciati mentre facevano il proprio lavoro, ultras ubriachi e molesti” si legge sull’edizione romana del Corriere della Sera. Stereotipi che proprio non si riesce a sconfiggere, tanto meno ad analizzare, per quanto fanno comodo per essere piazzati in determinate situazioni e dar loro un aspetto totalmente travisante. Chi per anni ha fotografato, sbattuto in prima pagina i tifosi come mostri, con tanto di nomi, cognomi, indirizzi, senza rispettare un minimo di deontologia professionale, come può pretendere il rispetto degli stessi? Quando si scrivono articoli senza aver assistito ai fatti, caricandoli di falsità e significati vigliacchi, come si può essere a posto con la coscienza?
“A piazza Santa Maria Liberatrice un gruppo di estrema destra, vestito di nero, si unisce marciando al corteo dei tifosi”. Chissà che con la vicinanza della chiesa non si trattasse di uno stuolo di Cistercensi o Pallottini, invaghiti anche loro dalla bellezza popolana e sacrale del corteo? Chissà come si è capito che costoro fossero tutti di un certo orientamento politico? Evidentemente in pochi minuti si è svolto un censimento, da cui i presenti sono rimasti all’oscuro. Anche perché, sui tremila marcianti, volendo, si poteva avere un ottimo campione circa il pensiero politico della Capitale. Del resto, e sembrerà strano a qualcuno, chi ha indossato la sciarpa e sventolato la bandiera, non era là per fare tribuna politica. Magari, foste edotti in materia, aveste letto un libricino di antropologia, pure l’inserto parrocchiale, ma anche semplicemente messo piede in una curva per una volta, scoprireste con facilità che là in mezzo c’erano fascisti, comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani. Forse anche guelfi, ghibellini, giacobini, carolingi e merovingi. Peccato che a nessuno fregasse nulla, dato che l’obiettivo comune era l’esaltazione del tifo per la Roma e la tutela della Curva Sud.
Chi si è messo in mezzo al corteo, magari venendo da fuori città, macinando chilometri e girando mezz’ora per cercare un posto dietro la Piramide Cestia, ieri non aveva altri pensieri. Nessuna di quelle fesserie cui fanno riferimento dei sicari inviati subdolamente da talune redazioni per sminuire la giornata.
Si è parlato di assalto al campo rom con i blindati della polizia costretti a presenziare fino a tarda notte. A parte la netta discrepanza tra il concetto di abusivismo e il principio legalitario cui certa carta stampata fa riferimento, per foraggiare le scelte prefettizie e descrivere il mondo delle curve e dei tifosi in generale come la classica feccia che ristagna in zone franche; a detta di lor signori, quello che lascia alquanto basiti è l’approfondimento nullo e il totale stravolgimento di una situazione di tensione circostanziata rispetto alla grandezza dell’evento, e soprattutto creata da presenze esterne arginate dai tifosi stessi. Ci si aspetterebbe da tale Maria Rosaria Spadaccino, estensore dell’articolo, una maggiore veemenza, in virtù della giustizia e dell’uguaglianza che tanto invoca nel suo articolo e sui suoi profili social, una reazione scandalizzata sulle motivazioni che hanno portato 3.000 persone in quel luogo, ma evidentemente sul suo profilo Facebook la signora Spadaccini era troppo impegnata ad augurare ai presenti di “essere chiusi sottoterra dove dovreste essere. Poi vengo personalmente a mettere un piede sopra”. Frase che denota tutta la sua tolleranza verso il genere umano, oltre che la capacità di fare cronaca super partes e al di là dei propri pregiudizi. Il problema è che scrivendo per una testata come il Corriere della Sera, ha la forte possibilità di muovere l’opinione pubblica.
E allora ricominciamo a parlare di quella folla umana, con bandieroni, striscioni e pirotecnica, che si è mossa da Via Zabaglia in direzione Ex Mattatoio. C’erano tutti. Urlavano. Cantavano i cori che quest’anno non hanno riecheggiato nel tempio naturale di questo popolo, la Curva Sud. Ogni passo in avanti c’era la consapevolezza di essere uniti da una passione, da un ideale e da una volontà, quella di tornare a tifare la propria squadra nel modo più naturale possibile. Non ci sono divisioni in questo pomeriggio testaccino, perché l’anima di Roma è così.
Partire da Campo Testaccio, attraversare le strade con i fumi giallorossi che si levano al cielo, è una delle cose più romaniste che siano state fatte negli ultimi anni. Oltre a una dimostrazione di come, per sconfiggere la cultura del tifo, non bastino due barriere e una campagna spaventosamente infamante portata avanti con fare dittatoriale e in spregio, questo sì, a qualsiasi regola di rispetto nel rapporto istituzioni/cittadini. Regole che semplicemente non esistono più, è messo nero su bianco che chi osa contestare, dimostrare il proprio dissenso, verso qualsiasi decisione piovuta dall’alto, merita una damnatio memoriae.
Sapete cosa vuol dire togliere il derby a un tifoso di Roma? Vuol dire semplicemente togliergli il calcio. Il momento più alto dello sport nella sua città. Non ci era riuscito nessuno a svuotare l’Olimpico in occasione di una stracittadina. Nemmeno la scala gialla di Achille Serra, gli striscioni vietati del post Arkan, le coreografie palesemente combattute dalla Questura o le centinaia di diffide piovute senza senso e con un’oculatezza degna dei migliori anni del governo Pol Pot. Ci sono riusciti Alfano, Massucci, D’Angelo e Gabrielli. Hanno fatto sì che 3.000 persone si riversassero tra il Circo Massimo e il Tevere, con fare pacifico, festoso, ma incazzato e deciso.
Loro. Quelli che per far ritornare i ragazzi allo stadio hanno posto come condizione, tra le tante, il divieto di slogan contro le istituzioni. Dimenticando di mettere, a questo punto, alle entrate direttamente agenti segreti provenienti dalla Stasi o dall’Ovra. Ma non c’è da temere, già in mattinata hanno annunciato il vaglio delle immagini relative alla giornata di ieri. Perché, non sia mai, il pugno duro è da usare assolutamente verso chi ti ha sbattuto in faccia la realtà dei fatti: tutte le decisioni prese sul tifo da un anno a questa parte sono state palesemente sbagliate, in grado, talmente hanno fatto scalpore, di mettere a repentaglio le carriere di chi, sui supporter, pensava di costruirsi il proprio futuro.
È vero che la televisione fu una delle prime morti del tifo. È vero che le pay tv erano, e restano, uno dei principali mali del pallone, e non tanto per il fatto di svuotare gli stadi, che personalmente ritengo vero in parte, ma per contaminare con la loro sete di business, l’anima di questo sport. È altrettanto vero che il culmine di questo pomeriggio, con la gara proiettata sul maxi schermo nella grande area dell’Ex Mattatoio, deve essere visto nel suo valore rappresentativo, e non meramente, e anche banalmente, oltre che erroneamente, come la resa incondizionata del tifoso che, d’ora in avanti, potrà sfogare il suo estro e il suo modo d’essere, solo davanti a uno schermo al plasma. Testaccio deve essere un punto da cui ripartire e dare linfa per lo sprint finale di una battaglia che, ci lascino dire, ha significati epocali, in un’era dove l’appiattimento sociale deve farla da padrone ovunque e dove è diventato a dir poco difficile pensare di poter recriminare unitariamente per qualcosa. Anche se a qualcuno parrà stupido mobilitare migliaia di persone per tornare a cantare quattro cori per ventidue smutandati, sarebbe bello se si aprissero le menti, capendo come una protesta del genere assuma un valore antropologicamente fondamentale.
Mentre dei bimbi si arrampicavano su un appiglio, per vedere le azioni della partita, ed esultare ai quattro gol della Roma, mentre mamme di famiglia fraternizzavano con i famigerati ultras e, persino mentre qualche giornalista, perché miei cari, nascosti, ma a Roma ancora ce ne sono e son degni di espletare questa attività, seguiva i cori della Sud, qualche chilometro più in là, seguendo il corso del Tevere, solerti bersaglieri a cavallo facevano esercitazioni per emulare il passaggio del Piave. Per evitare Caporetto, e portare ai propri generali la testimonianza di una vittoria, da mettere nero su bianco il giorno dopo, nel magnificente comunicato che attesta l’impeccabile controllo del Foro Italico.
L’odore delle ultime torce chiude il pomeriggio, dopo il triplice fischio di Banti. Una giornata che in tanti ricorderanno, ma nella quale resta il rammarico di non aver potuto esser parte integrante di una vittoria pesante, che con i tifosi nelle due curve sarebbe certamente passata agli annali della storia romanista. Ma così non sarà. Il popolo ha deciso, per ora. Ognuno prende la strada di casa, col sorriso sulle labbra, sognante e soddisfatto di aver rispolverato il ricordo dei propri nonni. Che magari a Campo Testaccio avevano assistito allo storico 5-0 sulla Juventus, da cui Mario Bonnard trasse la trama per l’omonimo film. E i quali, forse, per intere ore hanno ammantato i nipoti con storie relative a quegli anni.
A vegliare su questa passione popolare resta la storia di una comunità. Un’identità che per essere smantellata avrà bisogno di colpi ben più forti, ma che per resistere e sferrare l’attacco decisivo, non può ignorare l’ignominia che arriva dall’esterno. Lo stadio Olimpico e la Curva Sud restano le case naturali dei tifosi della Roma. È là che dovrà tornare a pulsare il cuore che ieri ha invaso una parte di Roma. Perché le gesta del passato restino legate a un futuro in cui ai figli e ai nipoti si possa ancora parlare di ciò che fu, con la speranza che essi costruiscano il ciò che sarà, sempre mantenendo inalterato quello spirito popolare. Quello che ieri si è riflesso nelle erbacce malinconiche ma ancora fiere di Campo Testaccio.
Simone Meloni.