Cosa c’è di meglio che sfruttare i primi giorni d’aprile, forieri di bel tempo, e raggiungere Poznań prendendo un bislacco aereo Rimini-Praga e, successivamente, un pullman che dalla capitale ceca mi porta direttamente nella città polacca? La nottata in Riviera rinverdisce i fasti della mia tarda adolescenza, mentre le circa sei ore nel torpedone mi danno l’opportunità di dormire, cadendo in un sonno profondo e altrettanto riposante. Il viaggio è ancora una volta parte integrante della partita. Il lasso di tempo in cui vivere una storia parallela e sul quale costruire racconti e aneddoti. Basti pensare che solo per raggiungere Rimini decido di tagliare in due l’Italia con l’anacronistico regionale Roma-Ancona e poi con un altro convoglio che dalle Marche mi porta in Romagna. Qualcuno storcerà il naso, magari abituato a viaggi fulminei e scintillanti. Io francamente continuo ad andar fiero del mio modus vivendi, che per quanto lento e laborioso mi restituisce un mondo circostante più vero.

E poi queste sono in generale le partite che più mi stimolano. Lontane dai grandi circuiti calcistici, invise a tutto coloro i quali vorrebbero veder giocare solo Paris Saint Germain e Manchester City. Gare vere per chi le gioca, autentiche per chi le segue da tifoso. La Fiorentina in Europa, inoltre, non è cosa che accade tutti gli anni. E il fatto che i viola abbiano raggiunto i quarti di una competizione internazionale ha ovviamente scosso l’ambiente. Discorso simile – se non uguale – per i supporter del Lech. Inoltre è l’occasione per vedere a confronto due modelli: quello, “famigerato”, polacco che tanto sta riscuotendo successo negli ultimi anni, e la tradizione italiana. Gli ingredienti ci sono tutti. Non mi resta che partire zaino in spalla. Armato di pazienza e fantasia. Ma quelle non mi sono mai mancate!

Con il mio pullman in ritardo biblico, raggiungo Poznań a notte fonda. Un giorno prima del match. La città sembra già ampiamente tra le braccia di Morfeo, così non mi rimane che andare a dormire e riservare all’indomani un giro turistico approfondito. Che, per inciso, risulterà un vera e propria delusione, come avrò modo di spiegare.

Poznań è la quinta città della Polonia, nonché uno dei centri più importanti e strategici del Paese. Capoluogo – dal 1999 – del Voivoidato (parola che discende dallo slavo e indica un’entità statale federale) della Grande Polonia, è posta sulla strada fra Varsavia e Berlino, cosa che ovviamente ne incentiva la rilevanza e ne fa uno dei centri culturali più importanti della zona. La mia delusione nel visitarla sarà dovuta agli ingenti lavori di ristrutturazione che stanno riguardano il suo cuore: Stary Rynek, la Piazza del Mercato. Quella che normalmente risulta essere un capolavoro rinascimentale, gotico e liberty tra edifici, chiese e fontane mozzafiato, in questa occasione si presenta come un grande cantiere in divenire. Il comune ha deciso per la sua rimodulazione, e ovviamente a farne le spese sono stato anche io! Un vero peccato, oltretutto, non poter assistere al classico spettacolo di mezzogiorno, quando nella Torre del Municipio si apre una porticina e appaiono due capretti che, azionati dal meccanismo dell’orologio, si scontrano per dodici volte.

A questi capretti è ovviamente legata una leggenda: completata la costruzione dell’orologio fu deciso di mostrarlo alle autorità cittadine. Avrebbe dovuto esserci una festa, ma per una distrazione del cuoco, la carne che doveva essere consumata in quell’occasione si bruciò. Il cuoco rubò due capretti per cuocerli allo spiedo. Essi, però, scapparono, rifugiandosi sulla torre del Municipio dove gli ospiti li videro scontrarsi sulla cornice. In quel momento le autorità ordinarono di aggiungere all’orologio il suddetto meccanismo.

A prescindere dal folklore, Poznań resta un posto intriso di storia. Degnamente incastonato in un Paese che ha visto passare dominazioni e popoli e che dalla caduta del Muro di Berlino ha senza dubbio conosciuto una nuova rinascita, anche sotto il punto di vista del turismo. Adagiata sul fiume Warta (da cui prende il nome la seconda squadra cittadina) ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo del Regno Polacco, ospitando dinastie come quelle dei Piast e degli Jagelloni (questi nomi vi dicono qualcosa, amici calciofili?) e conoscendo la decadenza solo con l’avvento del cosiddetto Diluvio, che in Polonia ben descrive l’occupazione del regno polacco-lituano da parte di russi e svedesi avvenuta nel 1655. Passando successivamente dal dominio Prussiano all’annessione al Ducato di Varsavia, la città conobbe un periodo alquanto turbolento durante le due guerre mondiali, quando la Polonia dapprima tornò a instaurare il suo regno e poi, in occasione del secondo conflitto, venne notoriamente annessa dalla Germania nazista. Poznań rappresentava uno dei centri con più concentrazione ebraica, tanto che nel 1946 un censimento stabilì che almeno la metà dei cittadini non avevano fatto ritorno a casa dopo le deportazioni ebraiche. La Seconda Guerra Mondiale consegnò la Nazione in mani sovietiche, con Poznań ancora una volta protagonista di insorgenze e rivolte, come quella del 1956. Nel giudicare gli ultras e i movimento sottoculturali di oggi è fondamentale rivedere la storia di ieri. Non per giustificarli, chiaramente, ma per capirne la natura e non fermarsi al solito, classico, giudizio marziale degli occidentali.

Che poi a camminare per le sue strade non si direbbe dell’intreccio umano, bellico, storico e antropologico che vi è passato. Così come, da non conoscitore della realtà locale, appare persino strano credere che la tifoseria del Lech sia una delle più calde e ostili del Paese. Tutto è tranquillissimo, le viuzze si riempiono di tanto in tanto di turisti, pochi a dire il vero, mentre di rado i locals fanno capolino tornando dal lavoro o cercando un posto dove mangiare. Qualcuno entra nelle piccole botteghe che producono pierogi (i tipici ravioli polacchi) e per pochi zloty si sazia facilmente. Così come un costo irrisorio hanno i rogale marcińskie, cornetti storicamente prodotti qui e presi d’assalto a ogni ora del giorno e della notte. Attraversando la Warta (che con i suoi 808 km si fa quasi fatica a credere un affluente, dell’Oder per la precisione) giungo fino alla Cattedrale di San Pietro e Paolo, la più antica del Paese, imbattendomi in vari murales degli ultras del Lech e anche – ne ignoro il motivo – in stampini con lo stemma sociale della Juventus (per giunta quello nuovo).

In una delle stradine adiacenti alla piazza centrale incrocio diversi supporter viola, evidentemente da poco arrivati in città. Il clima, come detto, è alquanto disteso. Le due squadre si sono già incontrate nel 2015, in Europa League, allorquando non si verificarono problemi di sorta. Da queste parti il tifo organizzato ha compiuto dei grandi passi in avanti negli ultimi vent’anni. I primordiali ricordi legati al celebre coltello piovuto in testa a Dino Baggio nell’ottobre del 1998, in occasione di un Wisla Cracovia-Parma, risultano forse un po’ sfocati rispetto all’evoluzione del tifo polacco. Certo: è rimasta forte quella commistione tra hooligans e ultras (a tal proposito, nel 1999 proprio i viola ebbero a che fare con quelli del Widzew Łódź, in un tipico confronto est europeo), sebbene la seconda componente abbia preso ormai più piede rispetto a un tempo. Si sono sviluppate anime e teste in grado di realizzare striscioni e coreografie e la pirotecnica – almeno durante le gare nazionali – rimane al centro dello spettacolo. Anche se ci sono tanti “ma”, come vedremo più in avanti. E non è esattamente tutto oro quel che luccica.

La storia di un club calcistico è spesso e volentieri legata a simboli, nomi e araldica di una Nazione. Da italiani credo ci risulti difficile comprenderlo perché siamo abituati al nostro campanile e al nostro regionalismo, che giocoforza si riverbera sul calcio. Basti pensare che da noi un nome come Pro Italia (Galatina) o Pro Patria è un’eccezione, mentre più o meno la regola è il riferimento alla propria città o alla propria area di appartenenza (Fiorentina, Reggiana, Sassari Torres). Quando, invece, consultiamo i nomi del calcio polacco, come in questa occasione, non possiamo fare a meno di imbatterci in prefissi che variano dalle più disparate dinastie che hanno regnato nel Paese (Jagiellonia Białystok, Piast Gliwice), a quelli che richiamano gli ordini lavorativi di appartenenza o da cui i club sono stati fondati (cosa molto est europea) o, come in questa occasione, ai veri e propri padri della Patria.

Secondo leggenda, infatti, Lech, Čech e Rus sono i protagonisti della fondazione di Lechia (Polonia), Cechia (Repubblica Ceca) e Rutenia (Russia, Bielorussia e Ucraina). Pur esistendo varie versioni – soprattutto in base all’area geografica di appartenenza – quella più nota narra che i tre fratelli andarono insieme a caccia, ma ognuno seguì una preda differente, prendendo quindi direzioni diverse: Rus andò verso est, Čech si diresse a ovest per stabilirsi sul monte Říp salendo dalle colline boeme, mentre Lech viaggiò verso nord finché non incontrò un’aquila bianca a guardia del proprio nido. Colpito da questa apparizione, decise di stabilirsi in quel luogo. Egli chiamò il suo insediamento (gród) Gniezno (antico polacco per “nido”) e adottò l’aquila bianca come stemma, rimasto simbolo della Polonia fino ai nostri giorni. Sta di fatto che la prima menzione di Lech avvenne proprio a Poznań nel 1295, all’interno di Cronaca della Grande Polonia.

Va da sé che anche in base a ciò, l’interpretazione di un club calcistico (e non solo) sia prettamente legata a sentimenti nazionalistici o, in passato, indipendentistici. Poi sfociati sempre più nell’estremismo politico destrorso, ormai arcinoto. Un estremismo che, tuttavia, appare palese figlio di una reazione agli anni di sottomissione politica e decisionale a Mosca. E, più in generale, a un conservatorismo che è caratteristico di queste zone e che mi spingo nel dire vada ricercato un po’ nella paura di vedere la propria terra ancora una volta invasa e vilipesa, e un po’ in un processo evolutivo antropologico lontano dalle nostre logiche. E che, sottolineo, non sempre ha i suoi lati positivi. Rimane difficile giudicare un mondo per noi così diverso e confinarlo nel solo concetto di becero o ignorante solo perché alcuni crismi non soddisfano la ricerca di politicamente corretto ormai totalmente instillata nelle nostre menti e nel nostro vivere quotidiano. Certo, lo dico senza peli sulla lingua, da non amante della politica allo stadio non condivido la maggior parte degli atteggiamenti di queste piazze, ma cerco di capirli (che non vuol dire giustificarli).

Mentre tento di mettere in ordine tutte queste riflessioni sparse mi imbatto nel campo del Warta Poznań, il Dębińska Road, che è proprio adiacente alla sua sede (il Warta è una polisportiva). Uno stadio davvero vecchio stampo, con soli 6.000 posti e un settore ospiti che sembra più una cella di Rebibbia. La sua non fruibilità per la massima divisione costringe i biancoverdi, purtroppo, a giocare le gare casalinghe a Grodzisk Wielkopolski, cinquanta km a sud ovest da Poznań. Questo club, ovviamente, è quello meno tifato in città, malgrado vanti due titoli nazionali (conquistati all’inizio del secolo scorso) e parecchi campionati di massima divisione.

Sarebbe il momento di incamminarmi verso lo stadio, ma prima c’è un piccolo siparietto che si consuma nel mio hotel: passando per prendere lo zaino con l’attrezzatura trovo l’armadietto scassinato e il computer ormai finito in mani straniere. Mi consolo constatando che la fotocamera è ancora al suo posto e il servizio è salvo; dopo i primi improperi penso che tutto sommato, in tanti anni, non ho perso neanche una memory card e che queste cose accadono a chi gira. Inoltre mi addosso ovviamente la colpa: quando si perde qualcosa evidentemente non si è prestata la giusta attenzione. Il mio reclamo alla reception è – come prevedibile – del tutto inutile. Pazienza, scendendo in strada compro una birra e mi piazzo alla fermata del tram scolandomela in men che non si dica!

Sulla banchina decine di ragazzi e ragazze con la sciarpa biancoblu aspettano il tram, che ovviamente caricherà tutti risultando a dir poco pieno e asfissiante. Ma chi è questo Lech Poznań che gran parte della città segue e buona parte della Polonia odia? Kolejowy Klub Sportowy Lech Poznań è il nome per esteso. Una nomenclatura che, dunque, ci dice anche altro rispetto a quanto scritto sopra. Kolejowy in polacco significa ferrovia. E il soprannome con cui il club e i suoi tifosi sono conosciuti è kolejorz, in dialetto locale ferrovieri. Questo perché dal 1933 (undici anni dopo la fondazione) al 1994 la società è stata di proprietà delle Ferrovie dello Stato polacche. Un lascito importante nell’immaginario collettivo, un nome che tutt’oggi campeggia nel bel mezzo della curva.

Quando il tram termina la sua corsa, di fronte a me si staglia imponente lo Stadion Miejski (Stadio Municipale), con la sua forma avveniristica e la luce blu che viene irrorata sulla copertura. Un impianto inaugurato nel 2010, che è andato a sostituire il vecchio e glorioso stadio ideato nel 1968 e inaugurato nel 1980, teatro degli anni d’oro del Lech: quando tra gli ’80 e i ’90 i biancoblu vinsero cinque titoli nazionali e cinque coppe di Polonia, oltre a una costante partecipazione alle kermesse europee. Da quest’altra parte “della cortina” si fa sempre fatica a credere che a Est ci siano strutture e servizi migliori dei nostri, eppure vi do questa notizia: facciamocene una ragione, perché questi Paesi un tempo considerati “arretrati” ormai ci danno cento punti di distacco in quanto a impianti, trasporti e organizzazione. E lo dice una persona che non è propriamente amante della modernità, ma che in alcune sfaccettature del vivere comune la pretende per senso di civiltà (mezzi pubblici su tutto!).

Da qualche ora ha cominciato a piovere in maniera blanda ma insistente. A dir poco fastidiosa. Fatico un po’ nel trovare il mio accredito ma alla fine imbocco la strada giusta e in men che non si dica ho il pass al collo e posso fiondarmi in campo. Manca poco meno di un’ora al fischio d’inizio di questo Quarto di Finale della Conference League, ma lo stadio è quasi tutto pieno e già sta intonando i propri cori. A prescindere dai gusti, è comunque impressionante il fatto che tutte le tribune seguano le richieste dei megafoni/altoparlanti posizionati al centro del cuore del tifo locale: la Kocioł (il calderone, in polacco). Viene eseguita anche una sciarpata, ovviamente da tutto lo stadio. Le sciarpe si levano quasi in maniera chirurgica, senza che uno spazio venga lasciato sguarnito.

Poznań, Łódź e Varsavia oltre a essere tre fra le città più importanti della Polonia, sono anche i principali centri dove il tifo organizzato si è sviluppato, virando lentamente dai soli atteggiamenti hooligans alla commistione col modello italiano. Peraltro attorno a queste tre realtà si sviluppano varie storie di tifo, tensioni sociali e violenza. La rivalità principale del Paese è probabilmente proprio quella tra Lech Poznań e Legia Varsavia. Un odio che parte da lontano, vertendo sulla visione del club della Capitale come accentratore del potere e manipolatore del sistema calcistico. Emblematica resta la finale di coppa nazionale disputata a Częstochowa nel 1980, quando gravissimi disordini si registrarono prima e dopo il match, con le autorità incapaci di gestire le migliaia di fan giunti nella Città Santa e pronti, successivamente, a insabbiare il numero di feriti e morti (dati non ufficiali parlano almeno di due decessi). Tumulti che, ovviamente, vanno inseriti in un periodo storico a dir poco delicato per la Polonia. Nello stesso anno, dopo feroci e lunghi scioperi presso i cantieri navali di Danzica, nasce Solidarność, un sindacato di matrice cattolica e anticomunista che avrà un ruolo chiave sia in varie rivolte contro il governo centrale che nell’indebolimento del sistema comunista, fino a partorire la classe dirigente polacca una volta caduto il Muro di Berlino. Questo per sottolineare ancora come questa porzione di Europa sia da sempre una vera e propria caldera sociale, in cui nulla avviene per caso e le tensioni sono sempre dietro l’angolo.

Tornando al tifo organizzato, dicevamo dunque dell’importanza di Poznań nel suo sviluppo. Ma anche delle ingenti differenze che esistono con le nostre curve. E qui si traccia un solco che divide ammiratori e detrattori. Dalle lotte nei boschi – vera e propria mania est europea – alle coreografie studiate con il compasso, passando per un modo di vivere la partita sicuramente più “soft” rispetto a quello a cui siamo abituati in Italia. Sì, perché se il tifo che viene organizzato dalle curve assume un’imponenza notevole, viene plasmato dal suono concentrico dei tamburi e dai battimani portentosi, difficilmente vedremo le tribune sbraitare contro una decisione arbitrale o le curve abbassare sensibilmente i decibel perché emotivamente coinvolte dal calcio giocato e da un’azione che può volgere al gol fatto o subito. Attenzione: con questo non sto dando etichette, ma sto sottolineando aspetti divergenti dall’italica quotidianità. Aspetti che, personalmente, mi fanno ancora propendere per il nostro stile. Con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni. Inoltre, come dicevo in precedenza, non è tutto oro ciò che luccica: in forma ovviamente minore, ma ad esempio anche in Polonia vengono vietate alcune trasferte e chiusi alcuni settori (spesso avviene proprio nei derby cittadini), così come ci sono stadi (Breslavia lo do per certo) dove è totalmente vietato l’utilizzo delle bandiere. E in questo caso, ancor meno di quanto avviene da noi, non esiste un movimento pensante e con una base ribelle in grado di porre all’attenzione tutti questi abusi. La sensazione è che si accetti e si vada avanti. Quindi sì, quando si vede la maestosità di scenografie, torciate e tifo si rimane sicuramente esterrefatti, ma poi occorre scavare per farsi un’idea almeno più approfondita.

Anche in fatto di violenza e scontri il discorso è molto più complesso rispetto alla semplice immagine di “cattivi” che queste tifoserie si sono costruite. Il rifugiarsi nei boschi, l’organizzare vere e proprie lotte è il riflesso di due fondamentali ragioni: la prima è lo sfuggire dall’eventuale morsa repressiva, cosa che – permettetemi – se da un lato può essere furba, dall’altro fa ulteriormente perdere peso a quell’aspetto ribelle con cui il movimento ultras è nato. Dall’altra c’è la vocazione alle arti marziali a cui tutti i gruppi del Paese sono soggetti. A queste latitudini può capitare spesso e volentieri di trovare palestre con il marchio del gruppo, dove ci si allena con il fine propedeutico allo scontro. Personalmente è un altro aspetto che trovo preconfezionato, ben distante da quello con cui siamo sempre cresciuti. Dal mondo ultras dove tutti “se la giocano” con l’avversario, a prescindere dalle caratteristiche fisiche, perché conta anche la testa. Mi rimarrà per sempre impresso un Genoa-Fiorentina in cui un ragazzetto alquanto noto nell’ambiente genoano, alto poco più di un metro e sessanta, mise in seria difficoltà alcuni appartenente al reparto celere. Dubito seriamente che qua potrebbe avvenire un qualcosa di simile. Anche perché vi sfido a trovare un tifoso alto un metro e sessanta e un poliziotto non statuario nella sua fisicità (sic!).

Sta di fatto che, seppur in maniera ridotta, non manca qualche turbolenza per la strada. L’esempio è dato dall’assalto dei supporter del Widzew Łódź proprio a quelli del Lech Poznań nel 2018, con questi ultimi di ritorno dalla trasferta di Stettino. Uno scontro cruento, in cui i kolajerz persero ben sette striscioni.

Sapete perché ci ho tenuto tanto a fare le considerazioni di cui sopra? Perché quando il contingente ultras viola fa il proprio ingresso allo stadio, a partita iniziata da qualche minuto, la comparazione viene spontanea. Nel nuovo corso della Fiesole spiccano tante facce giovani e qualcuno più grande che sembra aggirarsi attorno ai quaranta abbondanti. Gente apparentemente “normale” – che tuttavia anche oggi si è presentata senza lasciare nulla al caso, pronta per un match che in origine era da bollino rosso -, che non ha pompato il proprio essere sull’immagine e sull’apparire. Eppure gente che da qualche anno a questa parte fa i fatti. Dentro e fuori gli stadi. In trasferte come queste, salvo qualche rara eccezione, ci vedi praticamente solo gli ultras, quindi ti puoi fare un’idea abbastanza chiara sulla salute di una curva. E quella dei gigliati mi è apparsa davvero ottima, figlia di un lavoro che parte da lontano e che come prospettiva ha avuto quella di non far scomparire un certo modo di essere ultras ma di rinverdirlo e farlo crescere con le nuove generazioni, restituendo a Firenze vigore e lustro.

I fiorentini espongono tuti i loro classici striscioni e, coadiuvati da qualche bandierina, alcuni fumogeni e tanta voce, cercano in ogni modo di farsi spazio nella bolgia dello stadio. Il settore ospiti, confinato abbastanza in alto e lontano dal campo, non aiuta, ma la prestazione è più che ottima. Con la squadra di Italiano che in campo surclassa gli avversari con un netto 1-4, i supporter toscani chiudono la serata con una bella e fitta sciarpata. Ecco, nella loro performance ci ho rivisto molto dello stile italiano. Ho visto quei silenzi che precedono un gol tipici del nostro pathos e quella semplicità – senza pose – di seguire i ragazzi della balaustra e dar voce alle proprie corde vocali. L’esperienza europea era forse ciò che mancava ai viola per salire un ulteriore scalino del loro percorso. In quest’annata si sono dimostrati totalmente all’altezza, non piangendosi mai addosso ma agendo da ultras e prendendosi ogni responsabilità. Con il fine ultimo di sostenere sempre e comunque la maglia gigliata.

La Kocioł, inutile ripeterlo, si rende protagonista di una prestazione canora ai limiti della perfezione. Il momento in cui tutto lo stadio presta le spalle al campo, saltando e cantando, è da brividi. Un momento talmente iconico che al di fuori dei confini nazionali è conosciuto semplicemente come Poznań, dando l’idea di quanto ormai queste realtà facciano scuola in alcune curve. Da menzionare tra le fila casalinghe la presenza dei gemellati del Cracovia e di quelli dell’Ostrowiec Świętokrzyski (squadra militante in terza divisione). Nulla da segnalare sotto l’aspetto pirotecnico, ma in questo caso credo influisca la pessima nomea che i club polacchi si sono fatti presso la Uefa e, quindi, il serio rischio di squalifica del campo o chiusura dei settori. Perché poi, non ci giriamo attorno, anche la maggiore federazione continentale su queste cose si muove a proprio piacimento, senza un giudizio uniforme.

A fine partita le squadre vanno a prendersi i rispettivi applausi, con il coro fiorentino “Torneremo a esser campioni, come nel ’56” che prende quota coinvolgendo anche i calciatori, i quali sognano di riportare nel capoluogo toscano un trofeo che manca da oltre vent’anni. Io ricordo le cavalcate viola nella Coppa delle Coppe 1996/1997 e quella nella Coppa Uefa 2007/2008, entrambe fine malamente in semifinale contro Barcellona e Glasgow Rangers. Due ferite che sono ancora scolpite nel cuore di quelle generazioni e che da un lato spaventano i più giovani, ma dall’altro gli fanno sognare una rivincita.

La pioggia non ha smesso un attimo di cadere e una volta all’esterno la prendo tutta, non potendo salire sui tram inizialmente congestionati. Quando finalmente riesco a prendere il mezzo mi imbatto in tantissimi ragazzi che, da quel poco che riesco a comprendere, si divertono a sdrammatizzare la sconfitta intonando diversi cori contro il Legia Varsavia, prossima avversaria in campionato. Sono le urla conclusive di questa serata, con la stanchezza che inizia a farsi sentire e la consapevolezza di poter usufruire soltanto di poche ore di sonno. Prima di prendere il pullman per Berlino e da lì il definitivo aereo per Roma.

Capisco di dover, prima o poi, fare ritorno da queste parti per approfondirne di più la storia e l’excursus delle tifoserie. Ma non per chissà quale parafilia – anzi, come sottolineato, non sono propriamente un massimo estimatore – ma per semplice bagaglio culturale. Perché in fondo dove per millenni sono transitati popoli, civiltà e storie, si deve sempre insistere. Di contro ci sarà ancora modo di girare l’Europa al seguito di club italiani, cosa che (l’ho imparato solo ultimamente) è come se ti lasciasse sempre un continuo confronto tra casa e ciò che la circonda. Utile anch’esso ad aprirti la mente. Ma ora la notte è fonda, sorseggio l’ultima birra nella hall di questo albergo che senza troppi complimenti mi ha “divorato” il computer. Vado a dormire scoprendo che un ragazzo nella mia stanza è uno storico seguace della viola e, più in generale, del movimento ultras italiano. Le chiacchiere rompono il silenzio, perché con questo argomento comune non c’è stanchezza che tenga!

Simone Meloni