A giudicare dallo stato in cui versa il glorioso Omladinski Stadion, posto in una conca ben visibile dalla cima del quartiere Karaburma, l’OFK Belgrado non se la deve passare propriamente bene. Alle porte di una città schiva ma viva, difficilmente affabile ma con un centro storico sempre in evoluzione e ricco di eventi, sembra di tornare indietro di qualche decade. Dall’alto si scorge anche il letto del Danubio, che a Belgrado passa esternamente, infilzato nel suo corso dalla Sava, che vi confluisce ampliandone ulteriormente la portata. Mano mano che ci si avvicina all’ingresso dello stadio le scritte aumentano, quasi a volerti guidare verso la casa dei romantici. Tutta la Capitale della Serbia è un insieme impressionante di scritte e murales che, in ogni suo angolo, rivendicano la forte impronta nazionalista del Paese, inneggiano alla riannessione del Kosovo e sfidano apertamente i nemici giurati: Nato, Unione Europea e USA. Siamo in quella che è la caldera d’Europa per antonomasia e solo con una mente aperta si può arrivare qui in punta di piedi, senza voglia di giudicare o sentirsi migliori ma con il solo intento di capire e guardare anche dall’altra parte della barricata.

Il calcio marcia di pari passo con gli estremismi – e spesso funge da grancassa per talune istanze -, ma è anche un luogo che rispecchia il culto per lo sport di un’area che da sempre nelle più disparate discipline si cimenta con successo e passione. Superficialmente quando si pensa a Belgrado si vedono solo due squadre: il Partizan e la Zvezda. Eppure sono solo la punta dell’iceberg (ovviamente una punta corposa, immensa, con il seguito più numeroso del Paese) di un sottobosco calcistico fatto da tante realtà longeve e storiche. Molte delle quali vantano un attaccamento fedele e antico da parte dei suoi supporter. La Omladinski Fudbalski Klub Beograd (in italiano Club Calcistico giovanile di Belgrado) rientra appieno in questa descrizione, potendo vantare una storia importante e anche vincente nei vecchi campionati della Jugoslavia unita. E a chi un po’ mastica queste nozioni, risulta quasi scioccante imbattersi tra le rovine del suo stadio. Sebbene siano rovine che parlano: narrano i disastri finanziari che il club ha dovuto attraversare negli ultimi anni. Un naufragio che è costato all’OFK il declassamento dalla Superliga alla terza divisione, da cui solo lo scorso anno è riuscito a risalire tornando in Prva Liga (la nostra Serie B).

Ma andiamo con ordine. L’Ofka (come viene affettuosamente chiamato dai suoi tifosi) riscuote da sempre una certa considerazione in tutto il mondo balcanico grazie al suo passato glorioso. Parliamo, infatti, di un club che già negli anni trenta primeggiava nel campionato del Regno di Jugoslavia con ben cinque titoli e altrettante coppe nazionali (addirittura la rosa della Nazionale arrivata terza ai Mondiali del 1930 in Uruguay, era composta per due terzi da giocatori dei Beogradski Plavi, i Blu di Belgrado). Successi che nel dopoguerra verranno suggellati da un club in grado di incantare per il suo gioco, tanto da guadagnandosi l’appellativo di Romantičari sa Karaburme (i Romantici di Karaburma). In questi primi anni di vita del club spicca senza dubbio la figura di Milutin Ivković, capitano e uomo di rappresentanza dell’allora BSK. Un personaggio che oltre a scrivere importanti pagine calcistiche, verrà ricordato anche per la sua militanza nel comitato di liberazione nazionale nonché nel locale Partito Comunista (dove creerà anche il giornale Mladost). Verrà arrestato dalla Gestapo e giustiziato nel Campo di concentramento di Banjica (alle porte di Belgrado) nel 1943.

Fondato appunto come BSK (Beogradski sport klub) nel 1911 presso la taverna Ginevra e avvinghiato nei colori blu scuro e azzurro come voluto da Mile Nedić, fondatore e centravanti dell’epoca, in omaggio al college Châtlain di Ginevra dove aveva studiato, il sodalizio – come prassi in questa zona d’Europa – ha cambiato vari nomi prima di assumere quello attuale. Dopo le due Guerre Mondiali il generale Tito (che peraltro divenne presidente onorario) pretese che la stragrande maggioranza delle società considerate “collaboratrici dei borghesi” (tra cui figurava anche il BSK) venissero sciolte, assumendo denominazioni come Proleter (Proletario), Napredak (Progresso), Mladost (Gioventù), Dinamo, Partizan, Metalac (Metalmeccanico). Proprio quest’ultimo fu il nome assegnato al BSK che, tuttavia, cinque anni più tardi tornò alle origini per divenire definitivamente OFK Belgrado nel 1957, dopo la fusione con lo Šumadija. Anni in cui il club frequentava costantemente il palcoscenico europeo, raggiungendo la semifinale di Coppa delle Coppe nel 1962/1963 (persa contro il Tottenham che poi vincerà la kermesse) e i quarti di finale della Coppa Uefa nel 1972/1973 (sconfitti dal Twente). Tra le avversarie più celebri affrontate all’epoca si ricordano sicuramente Bayern, Juventus, Feyenoord, Napoli, Panathinaikos. Alla fine degli anni ’70 per l’OFK inizia il declino che lo porterà a varie retrocessioni e da cui – di fatto – si riprenderà solo a inizio anni duemila sotto la presidenza di Zvezdan Terzić, ambiguo personaggio che in seguito diventerà presidente della Federcalcio Serba e alto dirigente della Stella Rossa (periodo in cui proprio un match contro l’OFK verrà indagato per combine, portando alla retrocessione dei Plavi). In questo periodo la squadra riprende a partecipare con una certa costanza alle coppe europee e anche ad una finale di Coppa di Serbia e Montenegro, nel 2006, venendo però sconfitta dalla Stella Rossa.

Nel 2011 viene celebrato il centenario, avvalorato anche da un momento in cui il settore giovanile è tornato a risplendere, sfornando numerosi talenti che poi faranno carriera nei più importanti campionati continentali. Tra i gioiellini cresciuti a Karaburma sicuramente ricorderemo tutti Aleksander Kolarov, ex Inter, Roma, Lazio e Manchester City, ma anche Branislav Ivanović, pilastro difensivo del Chelsea per nove anni . Nel 2013 arriva anche un’altra semifinale di coppa nazionale, che nel frattempo è divenuta comprensiva solo di squadre serbe dopo la dichiarazione di indipendenza del Montenegro (2006). Si tratta del canto del cigno. Le casse del club cominciano ad avere importanti problemi e la presunta combine di cui sopra porta al declassamento in seconda divisione nel 2015, dopo 19 anni. I rapporti tra società e tifosi sono a dir poco burrascosi, con questi ultimi che decidono di boicottare le gare. Ma non è ancora finita. L’anno successivo, per la prima volta nella sua storia, l’OFK conosce una dolorosa retrocessione nella Srpska liga Beograd, la terza divisione del calcio serbo. Un’onta che sembra inarrestabile e che porta il club a un passo dal fallimento. Il glorioso stadio Omladinski – inaugurato nel 1957 con una capienza di 8.000 spettatori e ampliato fino a 28.000 posti qualche anno dopo – cade sempre più nel degrado e in tanti paventano la possibilità che il suo abbandono sia “voluto” dal comune e da alcune organizzazioni di quartiere, che magari vorrebbero al suo posto una più redditizia costruzione di palazzi e centri commerciali.

A questo punto – come spesso avviene – sono i tifosi a ergersi a guardiani della propria squadra, nonché a difensori di ciò che ne rimane. Nasce l’associazione Klub prijatelja OFK Beograda (amici dell’OFK Belgrado) che sin da subito si pone l’obiettivo di contrastare presidenze truffaldine e rilanciare l’immagine e l’economia del club, proprio nel periodo in cui sullo scranno presidenziale sedeva tale Vuksanović, un “imprenditore” serbo/americano giunto a Karaburma con grandi promesse ma che già a metà stagione aveva lasciato la squadra senza stipendi e stritolata da un debito complessivo di quasi tre milioni di Euro (oltre a quello quasi decennale con il comune per l’affitto dello stadio). Un’impresa ardua, che passa dalla basilare manutenzione di uno stadio ormai cadente e si rinvigorisce in una raccolta fondi che lentamente si espande a macchia d’olio, trovando il supporto anche ben oltre i confini nazionali. Non manca la solidarietà degli altri sodalizi cittadini, tanto che nella curva del Partizan verrà esposto uno striscione a tema. Malgrado la rivalità tra le due squadre affondi le radici alle origini del football nazionale.

Ovviamente a dare manforte a questa associazione ci sono anche e soprattutto gli ultras, che a queste latitudini rispondono al nome di Plava Unija (Unione Blu). Gruppo attivo dal 1994 e sicuramente tra i più conosciuti e rispettati nel panorama balcanico che va oltre le classiche, grandi, tifoserie. Un nome scelto non casualmente, ma con la vera e propria volontà di unire tutte le componenti allora esistenti. La storia del tifo della Belgrado Blu, infatti, nasce nel 1984 con i Blue Thunders che nel 1990 cambiano il nome in Sokolovi (falchi), sotto la spinta del sempre più crescente nazionalismo all’interno della Federazione. Nel 1993 il gruppo viene sciolto e dopo un anno interlocutorio nascono, per l’appunto, i Plava Unija, con l’intento di rendere grande e forte la storica tifoseria belgradese. Siamo in un periodo a dir poco delicato per una Jugoslavia che scricchiola e da lì a poco vedrà l’accendersi di conflitti cruenti, nonché la sua dissoluzione. Anche all’interno della tifoseria non manca l’ala più dura e intransigente, che ovviamente crea sovente problemi con le forze dell’ordine, essendo dichiaratamente contro il governo e ciò che resta del regime comunista. Il club attraversa un pessimo periodo calcistico e tra il 1994 e il 1998 si vede relegato in seconda divisione. Una condizione che anziché scoraggiare gli ultras li forgia. Sono gli anni in cui nasce lo slogan Jedan tim, Jedan grad, jedan ime: Beograd (una squadra, una città, un nome: Belgrado) e il gruppo cerca spesso lo scontro con le altre entità curvaiole serbe. Ma anche in cui si sperimentano originali forme di sostegno, come presentarsi allo stadio tutti in tuta blu per rimarcare l’estrazione proletaria della tifoseria. Celebre resta lo striscione esposto in una gara contro l’FK Milicionar (squadra appartenente all’epoca al Ministero dell’Interno): Golom protiv režima (un gol contro il regime). Atteggiamenti che ovviamente portano a un incremento della repressione da parte delle forze dell’ordine.

La crisi del 1999, i bombardamenti della NATO, le infinte (e probabilmente mai placabili) tensioni interne a quest’area geografica e gli stravolgimenti geopolitici li conosciamo un po’ tutti. Proprio in questo alveolo sono incanalati molti dei modi d’essere delle curve autoctone e proprio per questo nell’avvicinarsi occorre forzosamente fare opera di obiettività, senza farsi coinvolgere da pregiudizi o, comunque, da ovvie situazioni non condivisibili per il nostro modus vivendi. Come detto è sufficiente camminare per le strade di Belgrado per accorgersi quanto il conflitto sociale sia acuto e ben lontano dal sopirsi. Nell’osservare alcuni palazzi bombardati ventiquattro anni fa e lasciati volutamente diroccati nel pieno centro della città – con un solo cartellone, a coprirne una porzione, che invoglia ad arruolarsi nell’esercito nazionale – si ha quantomeno coscienza di come Belgrado resti la Capitale effettiva di quella terra da sempre scomoda, a suo modo ribelle e spietata, che è la Serbia. Fa sempre strano passeggiare avanti e indietro per Knez Mihailova, affacciarsi dalla Fortezza sul letto della Sava, trascorrere una giornata spensierata sulle spiaggette di Ada Cingalija o camminare per i localini agghindati di Skadarlija e poi camminare qualche metro più in là ed imbattersi in rivendicazioni senza peli sulla lingua. Ma è in fondo la grande forza (e anche il grande fascino) di questa città. Un posto che, malgrado sia godibile e meritevole di una visita, non ha mai deciso di aprirsi all’esterno per rendersi più appetibile. I serbi sanno che molti europei pensano a Belgrado come la città “dei bombardamenti” o “della guerra” (credenze ovviamente ottuse, rese ancor più stupide dalla non voglia di informarsi, Belgrado è ben altro rispetto a ciò. Parliamo di una grande città a livello museale e attrattivo, nonché cruciale per il passaggio delle culture e degli avvenimenti storici che l’hanno vista protagonista) ma sembra che la cosa non gli dispiaccia per niente. Del resto qua i locali del centro sono stracolmi quasi esclusivamente di gente del posto, che davanti a decine di gustosi ćevapi inzuppati nell’ajvar e bagnati dalle birre nazionali Jelen o Nikšićko, si divertono per pochi Dinari e restano lontani anni luce da quel turismo di massa che troppo spesso ha divorato molte città poste dall’altra parte dell’Adriatico.

Il tasto di “chi è Belgrado e chi la popola” va toccato giocoforza anche per capire quello che investe il calcio. Sia giocato che “tifato”. Per molti a queste latitudini ci si limita a mostrar muscoli e farsi vedere cattivi. Manca tuttavia un distinguo fondamentale rispetto ad altre forme di vita da stadio disseminate a Est. Nell’ex Jugoslavia per anni – e ancora oggi parzialmente a giudicare da alcune pezze scritte in italiano – siamo stati presi a modello e ricopiati. E tutt’ora quando ci si trova di fronte a una curva serba, croata, bosniaca, slovena o macedone si riconoscono i tratti distintivi che hanno reso il Belpaese La Mecca del tifo. Poi è chiaro che qui si mischia ancora forte e spesso preponderante l’elemento dell’hooliganismo, così come personalmente non amo e non condivido i conclamati rapporti che tutti i gruppi hanno con il proprio club o il fatto che gli stessi – chi più grande, chi più piccolo – siano dotati di un negozio e spesso e volentieri si occupino in prima persona addirittura della vendita dei biglietti. Sono cose che aborro in Italia (dove, non ci crederete, ma il fenomeno è enormemente inferiore rispetto a qui), chiaro che non possa che fare altrettanto pure oltre i confini nazionali. Non mi faccio certo abbindolare dal fascinoso e coinvolgente modo di tifare o dalla libertà di poter accendere un arsenale all’interno del settore. Per giudicare e farsi un’idea bisogna anche conoscere e capire l’anima di chi sta dietro a certi movimenti. I Balcani sono un mondo che in generale guardo con sincera passione e spiccata curiosità, perché specchio di mille sfaccettature e contraddizioni. Ma che spesso non condivido. Certamente non si possono scrivere dieci righe neanche su una partita della Serie B Serba se non si ha una minima infarinatura storico/culturale sull’area.

A Karaburma – 55.000 anime – ci arrivo a piedi, camminando quasi per cinque chilometri dal centro città. Il mio non è autolesionismo, ma voglia di vedere il tessuto cittadino cambiare metro dopo metro. Camminando – o al massimo andando in bici – si carpisce l’essenza di un posto. La domenica pomeriggio di fine agosto è una vera e propria condanna a morte da queste parti. Belgrado è stretta da una cappa di calore incredibile e nessuno sembra aver voglia di stare per strada. Solo dei folli che seguono una squadra caracollata in seconda divisione – e ovviamente me – possono evitare la frescura di Ada Cingalija preferendo le gradinate. Gli stradoni che si sovrappongono e gli autobus snodabili per un qualche chilometro delineano la periferia belgradese davanti ai miei occhi. Fin quando non arrivo nei pressi dello stadio e quindi ai piedi di quella collina che gli ottomani definivano popolarmente Anello Nero, quasi a volerne sottolineare l’inaccessibilità. Si tratta in realtà di un promontorio sul Danubio, non a caso sempre in turco Kaya-burun significa promontorio roccioso. Se si pensa a quanto l’orgoglio serbo rivendichi le guerre combattute contro gli ottomani sul finire dell’ottocento e a come la retorica nazionalista dipinga gli stessi come il nemico giurato, fa strano accorgersi di quanto nella lingua parlata termini e riferimenti a essi siano a dir poco frequenti. Mi torna in mente il racconto di un amico serbo su una vecchia partita del Partizan vista dal vivo, con i Grobari che per buona parte del primo tempo intonarono una vecchia canzone riferita alla Battaglia sulla Drina, conflitto combattuto a inizio novecento contro l’impero austro-ungarico: queste sono le sfumature che ti fanno comprendere dove sei e rendono logiche cose che se lette e viste a duemila chilometri di distanza, seduto sul divano di casa, non lo sarebbero mai.

Salgo la stradina che porta agli ingressi dello stadio. Oltre ai murales, grazie alla mia maccheronica conoscenza del cirillico, riesco a individuare diverse scritte che richiamano il popolo dei Blues a seguire la squadra in trasferta contro lo Zemun, altro club cittadino storico caduto da qualche anno in disgrazia (attualmente in terza divisione), mischiati ai soliti messaggi politici. Ai lati comincio a vedere le sterminate tribune dell’Omladinski e ne rimango subito affascinato. Scendendo le scalette di un bar, finalmente, si passa vicino a quella che fino a qualche anno fa era la curva dei Plavi e si arriva direttamente all’ingresso delle tribune. Manca un’oretta al fischio d’inizio e oltre a un paio di cellulari della polizia c’è solo qualche decina di ragazzi impegnati a chiacchierare in quella che dev’essere la sede degli ultras. Cerco il modo di ritirare l’accredito – che ovviamente malgrado la mia richiesta non c’è – e alla fine devo entrare proprio nel covo del tifo organizzato per chiedere lumi e farmi indirizzare da un inserviente che mi mette in mano una pettorina abbozzando mezzo sorriso. Non dev’essere cosa normale avere un fotografo italiano a bordo campo da queste parti, penso mentre osservo incuriosito un vecchietto armato di bacinella, ghiaccio e bevande da vendere dentro lo stadio. Qua la frequentazione delle gradinate è a dir poco popolare. Il biglietto costa 300 Dinari (2,50 Euro), seppur non sembri esserci il pubblico delle grandi occasioni. Dopo aver immortalato i vari murales posso entrare.

La canicola è allucinante e nel tunnel che porta al terreno di gioco fortunatamente sono posizionate diverse fontanelle. Sembrano precisamente quelle del IV Miglio, club dell’omonimo quartiere romano dove ho militato senza successo da piccolo. I muri sono scrostati e noto da somma distanza come la grandissima tribuna centrale veda lontani anni luce i bei tempi che furono: seggiolini tolti, la scritta OFK Beograd che si legge a malapena e il tabellone alla mia sinistra fermo chissà da quanto tempo. A questo fascinoso quanto inquietante degrado fa da contraltare la tribuna centrale, che evidentemente è stata oggetto di restyling da parte dei volenterosi fan biancazzurri. Non mancano scritte del gruppo e, in particolar modo, rimango colpito da un murales che ritrae fraternamente assieme ultras dell’Ofkà e della Dinamo Mosca, uniti ormai da un forte e lungo gemellaggio. Rapporto che non può fare a meno di aprire il cassetto della mia mente dove è custodita la bandiera russa, che in questa terra – unica eccezione a quella nazionale – campeggia in diversi posti. Belgrado e Mosca, le città sorelle. Belgrado e il suo Hotel più prestigioso, che non a caso si chiama Moskva. Belgrado e la fratellanza col popolo russo. Rapporti che vanno contromano rispetto all’Europa, soprattutto a quella dell’est, dove la Russia è il nemico da contrastare. Nazionalismi, estremismi, retorica, sciovinismo e chi più ne ha più ne metta. Troppo facile dividere il mondo in buoni e cattivi. Soprattutto se i buoni pensiamo stiano sempre dalla stessa parte.

Tornando alla gara: dopo aver fatto diversi giri di campo per scattare foto alle bellezze di questo stadio e fantasticare sull’arrivo di fantomatici ospiti (che ovviamente oggi non ci saranno) decido di mettermi a sedere proprio nella disastrata tribuna dirimpetto a quella coperta. Mi siedo su uno dei seggiolini ricoperti da piante e sporcizia e mi faccio quattro grasse, sincere, risate pensando all’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive che vieta una trasferta perché lo sciacquone di qualche bagno del settore ospiti non funziona. Ecco, su una cosa li invidio: il non esser ancora ipocondriaci pure laddove non servirebbe!

A pochi minuti dal fischio d’inizio il contingente ultras fa il proprio ingresso nel settore esponendo le proprie pezze (al centro una in cirillico sui cui è riportata il nome del quartiere, Karaburma, mentre al lato spicca un vessillo su cui in italiano è scritto Vecchi Bastardi) e quando l’arbitro dà l’avvio alle ostilità i supporter di casa cominciano a macinare tifo. Un po’ come un diesel I Plavi ingranano minuto dopo minuto, offrendo davvero un gran bella prova canora, suggellata da una spettacolare fumogenata/torciata eseguita, peraltro, proprio nel momento in cui gli avversari stavano battendo un calcio di rigore. Considerazione: la coralità degli slavi non è e non sarà mai il massimo, parliamo di voci tendenzialmente baritonali e quindi meno delicate delle nostre. Di sicuro, però, con il sole in faccia e una temperatura davvero insopportabile i presenti non mollano un secondo. Parliamo di una partita che a livello calcistico si rivela davvero oscena (risultato finale 2-2) e dove peraltro non c’è neanche un avversario di fronte. Se, quindi, qualcuno pensava di trovare un ambiente scarico, sbagliava di grosso. Si vede che davanti non c’è un gruppo di sprovveduti ma una tifoseria navigata e ormai abituata a militare.

Ripeto: la differenza con alcune realtà tanto incensate nell’Est Europa (cechi, polacchi, russi) è evidente. La strada percorsa per arrivare a oggi, sebbene molto diversa dalla nostra. Non a caso, in tal senso, la considerazione che mi viene da fare è sulle amicizie che di tanto in tanto nascono tra gruppi di quest’area e nostre tifoserie. La lingua ultras è universale, vero. Determinate dinamiche sono parallele, verissimo. Ma ultras è anche e soprattutto identità ed è innegabile che l’identità, la cultura, di un italiano siano molto differenti da quelle di un serbo, croato, macedone, sloveno o montenegrino. Ho già evidenziato in precedenza quali siano le priorità “ideologiche” di questi gruppi. Molto differenti dalle nostre, basti pensare a come da noi nascono e si svolgano la maggior parte delle rivalità. Legate al campanile, allo sfottò sul dialetto, sul cibo o su un preciso momento di acredine tra due città. Qua, per forza di cose, è tutto più militarizzato e quadrato. Ma non potrebbe essere altrimenti, sono popoli usciti dal conflitto da poco più di venti anni e, per giunta, abituati allo scontro e alla guerra da sempre per difendere o espandere il proprio territorio. Credo che il divario sia abissale e difficilmente possa permettere una condivisione a tutto tondo senza che prima o poi se ne paghino le conseguenze.

Il pareggio ottenuto in extremis dall’OFK strappa comunque convinti applausi al suo pubblico. Il club rimane in vetta alla classifica, con l’ambiente che spera di tornare in massima divisione già da quest’anno. Sarebbe certamente un riscatto dopo anni passati nella melma dei campionati inferiori e con il timore sempre concreto di un fallimento e della sparizione di tutto quello che questo sodalizio rappresenta. L’ultimo giro di campo mi è utile a osservare lo stadio che si svuota e respirare un minimo dopo che il sole è tramontato. Passo di nuovi di fronte ai cellulari della polizia, che si stanno preparando per andar via lasciando di nuovo il centro sportivo totalmente in mano ai suoi “proprietari”. Sembra di essere in un paesino, ben al di fuori della metropoli più grande dell’ex Jugoslavia. E forse è anche questo che aiuta i tifosi biancazzurri a mantenere intatta la propria appartenenza. Guardo per l’ultima volta l’ingresso dello stadio, posta proprio a pochi passi dalla biglietteria. Se c’è una cosa che amo di questi posti è la semplicità. Anche nel fare un biglietto senza dover mostrare le analisi del sangue.

Eccomi riguadagnare la strada dell’uscita e salire quasi a casa sul primo bus diretto al centro. Il rosso del cielo ammanta Belgrado e da Piazza della Repubblica sembra quasi perdersi lontano. Mi fa sempre impressione pensare che questo sia lo stesso cielo che qua ha visto battaglie, morti, rinascite, odi, amori e storie al limite di qualsiasi parvenza di umanità. Belgrado e la Serbia sono luoghi amari, che di certo non ti accarezzano quando li conosci e non ti danno la sensazione di poterti abbracciare se prima non riesci un minimo a far breccia nei loro cuori. Ma non crediate, per questo, che un cuore non ce l’abbiano perché fareste uno degli errori più grandi e superficiali possibili. Io l’ho visto anche oggi allo stadio, altrimenti non si spiegherebbe una tifoseria in grado di rimanere aggrappata al proprio club ultracentenario proprio quando sta affondando e nessuno è pronto più a difenderlo. La diversità ci fa paura (e magari fa paura anche a loro, anzi sicuramente) e non ci fa ragionare lucidamente. Eppure ogni volta che vi entro in contatto ne esco a dir poco soddisfatto. Tanto che per le strade di Belgrado stasera mi porto incancellabile l’immagine di quelle malinconiche tribune decadenti e di una tifoseria che le ha identificate come la propria terra e non vuol saperne di lasciarle in mano al nemico.

Simone Meloni