Per diverse ragioni che non mi dilungo a spiegare per non tediare il lettore, ho sempre avuto la curiosità di mettere piede su suolo lusitano e osservare da vicino i suoi ultras.

Ho un’immagine del tifo portoghese tutto sommato accettabile rispetto ai vicini di casa spagnoli. Sensazione rafforzata dalla discreta tradizione che diversi gruppo possono vantare. Sia chiaro: non mi aspetto nulla di trascendentale, ma sono incuriosito. Anche solo per scoprire chi, dalle sponde dell’Oceano Atlantico, seguiva e segue con tanta attenzione il nostro movimento, già dai tempo delle inserzioni fiume su Supertifo.

Fatto il piano, scelto il percorso e organizzate le tappe, si parte ovviamente da Porto. Prima i Dragõese poi i cugini del Boavista. Giusto per non farsi mancare nulla.

La tifoseria biancoblu è senza dubbio tra le più famose anche nel nostro Paese. E nella gara d’andata, complessivamente, ha ben figurato all’Olimpico.

L’Estádio do Dragao ospita le partite interne del Porto dal 2003, quando andò a sostituire lo storico Estádio das Antas. È tradizionalmente considerato uno campo caldo, anche se tra il “mito” e la realtà intercorre sempre una distanza palpabile. Ed è raro il contrario, ma tra poco ci arriveremo.

Nella Capitale sono stati staccati oltre 2.500 biglietti. Un numero più che buono se si considera che la meta non è proprio tra le più agevoli – almeno economicamente – da raggiungere. Saranno in parecchi, infatti, a optare per le ormai consuete partenze da aeroporti spesso lontani centinaia di chilometri da Roma.

Porto è una città tranquilla e ospitale. Dove si mangia e si beve bene e a prezzi modici (cosa che ovviamente non può che rendermela simpatica dal primo momento) e in cui il calcio è vissuto in maniera a dir poco spasmodica. E si badi bene: se i draghi sono il secondo club più titolato del Paese – ma certamente il più celebre negli ultimi anni grazie ai molteplici successi europei – il Boavista vanta comunque un seguito sanguigno e appassionato, che rende questo club un fiero avamposto cittadino alla resistenza contro il “colosso” del caso.

Nelle strade, nei bar dove tutti si rifugiano per gustare baccalà fritto e ingollare litri di vinho tinto e nei parchi, ci sono sciarpe e maglie biancoblu. Sempre. Ma se ci si inoltra nella zona Boavista, subito l’accostamento cromatico cambia. E non sottovalutate tutto ciò: parliamo di un campionato in cui – a onor del vero – il livello delle gare è assai basso, l’interesse prettamente sportivo discutibile ma la media spettatori accettabile. Almeno se parliamo delle principali squadre e sempre tenendo conto che il Portogallo è un Paese piccolo e non densamente popolato, dove – dunque – non è affatto facile avere un seguito massiccio.

Va detto, inoltre, che anche se non è propriamente di Porto, c’è un “terzo incomodo” a mettersi di mezzo: è il Leixões di Matosinhos (comune praticamente inglobato nell’area urbana di Porto, dove il fiume Douro incontra l’Atlantico). Fondato del 1907 è un club storico, molto radicato nella sua zona, tanto da esser considerato la squadra dei pescatori. Un qualcosa che, seppur scemato rispetto al passato, ha sempre creato un certo attrito con le altre due squadre. Una fiera indipendenza, malgrado un ultimo decennio passato ad annaspare in seconda divisione.

Tornando alla gara del Do Dragao, sin dalla mattina la città comincia a riempirsi di gente con i colori biancoblu. È palese come il Porto attiri simpatizzanti anche al fuori dei confini urbani o addirittura della propria regione. Fatte le dovute proporzioni (ma neanche tanto visto i recenti e ripetuti successi europei) è un po’ la Juventus autoctona.

Per le strade le due tifoserie si mischiano senza alcun tipo di problema. Del resto, oltre lo scontro sportivo, non ci sono grandi motivi per andare oltre. Sì, è vero, il Colectivo ha un’ormai longeva amicizia con i ragazzi di Fieri Fossato. Ma già di suo la rivalità Roma/Samp è alquanto flebile, figuriamoci se c’è tempo per andare ad accendere focolai oltre i confini nazionali.

Il percorso che porta allo stadio è attentamente controllato dalla polizia, che però non sembra agire con fare asfissiante. Anche in questo differisce davvero molto dai “cugini” spagnoli, soliti caricare o provocare gratuitamente chiunque gli capiti davanti. Oltre a vietare tutto il vietabile agli ingressi.

Sugli spalti il tifo organizzato locale si divide in due tronconi: la curva alla mia destra è occupata dai Super Dragoes mentre uno spicchietto alla mia sinistra ospita i ragazzi del Colectivo. Di fronte ho tutto il contingente romanista.

Cerco di essere onesto nei giudizi: complessivamente il pubblico di casa merita più di una sufficienza. Tuttavia mi sembra tangibile una differenza sostanziale tra gli i due gruppi esistenti: più “club” i Super Dragoes, più ultras il Colectivo. È vero che le due realtà hanno a che fare con numeri diversi da gestire, ma è anche vero che alcune cose sono lampanti: in particolar modo quello che mi ha colpito in negativo della curva è stato vedere troppa gente attaccata alla balaustra, un buco nella parte centrale e poca partecipazione in alcuni momenti della sfida. E questo denota un certo modo di guidare il settore.

Per quanto concerne gli ultras giallorossi, sicuramente un numero così elevato – con una grande presenza di gitanti – non agevole il coordinamento del tifo, né la sua riuscita. Va detto però che, rispetto ad altri esodi, stavolta i supporter romanisti tengono botta, mettendo in piedi una buona performance, che conosce una stanca vera e propria solo durante i tempi supplementari, quando il Porto riesce a ribaltare il 2-1 dell’andata e conquistare l’accesso ai quarti di finale.

Esulta in maniera fragorosa il pubblico del Do Dragao, masticano amaro i tifosi giunti dall’Italia.

Mentre il cielo continua ad alternare violenti piovaschi a sprazzi di sereno – in pieno clima oceanico – le squadre vanno a raccogliere l’applauso delle rispettive tifoserie. È l’ultimo atto di questa serata calcistica e della mia prima tappa lusitana.

L’impressione è che il germoglio ultras sia da anni radicato a queste latitudini e che da vedere e raccontare ci sia abbastanza. Ma questo lo saprò dire al termine del mio piccolo tour.

Simone Meloni