Il mondo del pallone, come anche altri settori del Paese, sta vivendo un momento di crisi profonda, in cui la distanza tra il valore delle emozioni e quello delle azioni (in questo caso i fatturati) diventa sempre più ampia. Di seguito, un resoconto della situazione specificamente in salsa nostrana, dell’edizione di Firenze del “Corriere della Sera”.

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E’ possibile nel calcio italiano unire cuore e business? Riuscirà anche la serie A ad avere club moderni, con stadi di proprietà sempre pieni e fatturati in costante crescita come le principali leghe europee? Se dovessimo interpretare i segnali arrivati dalle ultime giornate di campionato e dai recenti scontri per la distribuzione dei diritti tv la risposta è scontata: no. Il mondo del pallone, infatti, come anche altri settori del Paese, sta vivendo un momento di crisi profonda, in cui la distanza tra il valore delle emozioni e quello delle azioni (in questo caso i fatturati) diventa sempre più ampia. Eppure sentimenti e solidità dei bilanci nel calcio dovrebbero camminare insieme: gli uni non escludono l’altra. Anzi. Per averne prova basta fare un giro su YouTube e digitare: «Liverpool saluto Gerrard» o «Leicester coro Ranieri». Invece, per fare qualche esempio, a Roma il tributo a un campione unico come Francesco Totti diventa l’occasione per fischiare sia il patron Pallotta e che l’allenatore Spalletti, comunque artefici di un secondo posto di tutto rispetto per i giallorossi; a Firenze il saluto in lacrime del capitano Gonzalo Rodriguez è il pretesto per alzare ancora di più il volume di una contestazione nei confronti dei fratelli Della Valle eccessiva nei toni (spesso gratuitamente offensivi) e nelle conseguenze; a Napoli il bel calcio di Sarri e i record battuti da Hamsik e compagni non evitano a De Laurentiis striscioni di protesta e tensioni con le curve.

Intanto la Juventus, dall’alto dei suoi oltre 400 milioni di fatturato (cifra addirittura superabile quest’anno in caso di triplete), sta lì e se la ride, lasciando agli altri qualche briciola. Mentre i tifosi di molte squadre italiane guardano con nostalgia al calcio degli anni Ottanta, quello delle partite tutte insieme alle 14.30, di Antognoni, Maradona e Platini (bei tempi, certo, di cui però resta giusto qualche filmato sul web), in Europa l’unico club italiano che riesce a tenere testa a potenze come Real Madrid, Bayern Monaco, Barcellona, Chelsea, Manchester, Psg è quello di proprietà della famiglia Agnelli. Che in dieci anni — al netto dell’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle curve, dalle conseguenze ancora incerte — è riuscito a darsi una struttura manageriale senza trascurare il fattore identitario (e quindi il cuore).

Il modello è chiaro, ogni società però deve seguire la sua strada, a seconda delle tradizioni e della capacità di attrarre pubblico, anche oltre quello che i burocrati chiamano «bacino d’utenza». Ma con un obiettivo comune: fare uscire dallo stallo il movimento del calcio italiano ed entrare nel business ancorato alle emozioni. I risultati sportivi, le gesta dei campioni, non nascono dal nulla: sono frutto delle scelte di una struttura manageriale attenta a tutti i fattori che possono dare valore al club. Dunque, in un contesto europeo che macina miliardi di euro di utili (16,9 nel 2015), i presidenti-padrone e i tifosi fermi allo «spendere, bisogna spendere» fanno lo stesso effetto di una macchina da scrivere nell’era digitale. Il giro d’affari nell’area Uefa, secondo uno studio di Deloitte, è cresciuto del 600 per cento dal 1996 a oggi e grazie soprattutto all’aumento degli introiti da stadi di proprietà (diritti tv e sponsor stanno diventando una voce secondaria nel calcio che conta).

Il nodo, dunque, sta lì: in Italia solo Juventus, Sassuolo, Udinese e Atalanta (che ha comprato l’Azzurri d’Italia ma deve ancora rimodernarlo) hanno uno stadio a bilancio. Roma e Fiorentina ci stanno provando, il resto è chiacchiericcio rissoso per la sopravvivenza con i soldi delle pay-tv. Se prendiamo in considerazione le prime tre società per fatturato di Inghilterra, Spagna, Germania, Francia e Italia — si legge ancora nello studio Deloitte — il nostro Paese si conferma quello che cresce meno alla voce ricavi: solo del 5,2 per cento nel periodo tra il 2010 e il 2015 e del 6,9 rispetto alla stagione precedente. L’Inghilterra, tanto per dire, ha fatto più 20,9 per cento nel quinquennio. Una ragione ci sarà…