Da sempre preferisco le situazioni non convenzionali. Pertanto trovo quasi normale rimetter piede a Rimini, dopo diversi anni, in pieno inverno. Per di più in una giornata fredda e piovosa. Proprio qui, dove tutti vengono ad assaporare la frenetica movida estiva e a godersi il sole sulle immense spiagge della Riviera.

Che poi – a dirla tutta – questa città vanta una storia talmente lunga e ricca di sfaccettature, che avrebbe anche altre centomila motivazioni per esser celebre, almeno in tutto il Belpaese. Basti pensare che la sua fondazione risale addirittura al 268 a.C. e che l’arteria principale, la Via Flaminia, rappresenta una delle strade consolari più importanti, costruite dall’impero romano per congiungere l’Urbe Eterna a questa zona del Nord Italia e favorire i numerosi traffici commerciali, di cui Rimini era, per l’appunto, importante crocevia.

Sarà l’incedere dell’età, sarà l’esser diventato intollerante a buona parte dell’umanità, ma guarderei con molto più fascino e trasporto il Ponte di Tiberio, rispetto al Lungomare affollato. Potrei tiare in ballo la piadina, ma non lo faccio perché rischierei di accendere il campanilismo sulla sua realizzazione, diversa in varie zone della Romagna. Dispute che accendono il mio cuore, sia chiaro, perché rappresentano quella parte tradizionale e folkloristica del nostro Paese, quella che “prenderebbe fuoco” facilmente pur di far valere la supremazia delle proprie tipicità culinarie rispetto a quelle del vicino.

L’occasione per tornare a queste latitudini è la sfida tra i padroni di casa e l’Ancona. Una “classica” della costa adriatica, contraddistinta da una rivalità ormai datata. Dopo diversi anni problematici, gli ultras riminesi sembrano aver rimesso su un bel movimento e la cosa attrae la mia curiosità, se non altro perché ho sempre nutrito un certo rispetto per una piazza dove portare avanti un discorso di tifo organizzato non dev’esser semplicissimo: compressa tra il tifo per gli squadroni della A, vicina agli arcirivali di Cesena – che per la Romagna rappresentano comunque un punto di riferimento a livello calcistico – e, non trascurabile, da sempre oggetto di “particolari” attenzioni da parte della questura locale.

Benché la pioggia non sia battente, le gocce scendono giù in maniera fitta. Finissime e penetranti. Venendo in treno da Milano ho seguito tutto l’evolversi di una perturbazione, che alla mia partenza era fatta solo di nuvoloni grigi, mentre con il passare dei chilometri si è fatta sempre più ostile, fino a diventare più di un semplice piovasco una volta superata Forlì. Il cielo plumbeo che si unisce al mare non lascia intendere nulla di positivo ed è abbastanza palese che anche durante i 90′ Giove Pluvio non ci degnerà di una tregua.

Le strade attorno al Romeo Neri sono presidiate in maniera massiccia dalla polizia, che attende l’arrivo dei settecento anconetani. Francamente non farò mai l’abitudine nel vedere stadi militarizzati e città paralizzate per una “patologia” autoritaria che va ben al di là della normale gestione dell’ordine pubblico. In questi casi forse conviene vedere il bicchiere mezzo pieno e pensare che – rispetto ad altre occasioni – le autorità non hanno inflitto nessun divieto di trasferta ai tifosi dorici, lasciando quantomeno vivo il confronto sulle gradinate. Senza il quale, va ricordato, la Serie C racimolerebbe davvero una manciata di presenti.

I baretti nei pressi della Curva Est traboccano di tifosi romagnoli che, sciarpa al collo e birre in mano, attendono di entrare nel proprio settore. Mi permetto un giudizio: non essendo un assiduo frequentatore della realtà riminese rimango ben impressionato dalla composizione della tifoseria: ragazzi, ma anche tanti “vecchi”. Tifosi da “cori”, ma anche gente che sembra saperla lunga. Magari non avranno mai riscosso il clamore del palcoscenico, lavorando sempre sottotraccia, ma gli ultras biancorossi sono sempre stati in grado di dire la loro, facendosi trovare sempre all’altezza nelle varie categorie disputate e restando a galla anche quando la mannaia repressiva poteva cancellarli definitivamente.

Il progetto Curva Est Rimini sembra esser nato sotto i migliori auspici e – non lo dico per ruffianeria – mi auguro che riesca a mantenere dritta la barra. Sapere viva una realtà storica della nostra provincia è un bene per tutti. È da queste parti che il movimento ultras nazionale ancora si sorregge e trova linfa. Ed è per partite come quelle di oggi che ci guardano con ammirazione e curiosità da fuori i confini nazionali.

Ma questa giornata racchiude anche un altro significato. Ricorre infatti un anno dalla morte di Gavino, figura importante nel tifo riminese, prematuramente scomparso, lasciando un vuoto enorme in tutta la comunità sportiva cittadina e non solo. Oltre a essere una assiduo frequentatore del Neri, infatti, Gavino era anche uno dei protagonisti della tifoseria di basket, che proprio negli ultimi anni è tornata in auge, riportando il calore nel palazzetto e accompagnando la rinascita della pallacanestro riminese. Questo senza dimenticare la sua partecipazione alla vita sportiva di Santarcangelo di Romagna, sua città di origine.

Per ricordarlo, gli ultras ricorrono al loro linguaggio, alle loro tradizioni, a quello che la curva ci ha sempre trasmesso sin da bambini, il suo modo di comunicare: striscione e torce (anche una gigantografia e fuochi d’artificio, a dirla tutta). Due parole che per chiunque abbia messo piede allo stadio per fare del tifo, rappresentano dei capisaldi, delle liturgie, due concetti base per entrare in contatto con il mondo esterno. E il fatto che durante questo momento anche gli anconetani interrompano il proprio tifo e applaudano, la dice lunga su quel filo che lega idealmente gli ultras di tutto il Paese. Roba talmente semplice che risulta difficile da spiegare a chi questo universo lo vede soltanto dal basso dei suoi preconcetti.

Oltre il ricordo c’è ovviamente anche una sfida del tifo, che tiene banco in maniera preponderante, offrendo diversi spunti di riflessione. Innanzitutto mi voglio complimentare con entrambe le tifoserie per aver scongiurato uno dei miei incubi: vedere curve ricoperte di ombrelli causa pioggia. La stragrande maggioranza dei presenti ha fatto spallucce di fronte all’acqua, anteponendo in maniera sfrontata il sostegno ai propri colori anche a scapito dell’acqua. Se è vero che i nostri impianti sono ormai fatiscenti e pretendere un riammodernamento con coperture annesse è quantomeno d’uopo, è altrettanto vero che spesso e volentieri ci troviamo di fronte a spettacoli raccapriccianti, con ragazzi che dovrebbero sbattersene degli agenti atmosferici in favore del tifo e che invece si spaventano per qualche goccia, rifugiandosi in rivoltanti mantelline multicolore o sotto gli anti-estetici ombrelli.

La Nord anconetana formato trasferta offre un’ottima prestazione. I marchigiani fanno il loro ingresso con il classico coro che dileggia “Romagna Mia” per poi sostenere la propria squadra con intensità e continuità. Sì, è vero, i numeri non saranno strabilianti come quelli portati a Cesena, ma posso dire una cosa? A volte settecento tifosi valgono quanto 1.500. A Rimini ci va il tifoso che se ne sbatte della pioggia e quello che non ha timore delle folate di vento in uno stadio completamente aperto. Ci va il tifoso più arcigno e genuino probabilmente. Vale per Ancona come per la maggior parte delle piazze, sia chiaro. Una “selezione naturale” che non può che giovare a noi che le curve le osserviamo da fuori. Qualità è sempre meglio di quantità. Unica “pecca” il non aver fatto la classica sciarpata, probabilmente a causa dell’andamento del match, che nel finale ha punito i marchigiani.

Anche la Curva Est si è prodigata in una bella performance. Tante manate, cori sempre in alto, diverse torce e una bella sciarpata. I meccanismi sembrano oleati, così come il percorso di crescita. Da segnalare la presenza dei gemellati novaresi. In campo ci pensa la squadra a premiare lo sforzo dei supporter romagnoli: Delcarro e Tanasa ribaltano l’inziale vantaggio anconetano, permettendo al Rimini di agganciare i dirimpettai in classifica a quota 28 punti.

Al triplice fischio le squadre vanno a raccogliere gli applausi delle rispettive curve, mentre dal cielo continua a scendere imperterrita la pioggia. Un bambino non vuol abbandonare la tribuna, eccitato di poter sventolare la propria bandiera biancorossa. Lo steward invita la mamma a farlo desistere, disegnando alla perfezione tempi meschini in cui è diventato difficile persino esultare per la propria squadra del cuore. Anche se sei un innocente bimbo e vuoi cullarti nel sogno nascosto dietro ai colori della città.

La cosa triste è che non ne rimango neanche sorpreso, ormai vedo una tale meccanicità in tutta questa glaciazione dei sentimenti che l’unica reazione contemplata è un conato di schifo.

Riminesi e anconetani si lanciano le ultime frecciatine. Gli ultimi cori a ricordare un’inimicizia mai tramontata. Per me è ora di raggiungere la stazione. Di riscaldarmi le mani sul primo convoglio utile per Bologna. Riprendendo la sensibilità dei miei arti e sistemando la fotocamera ancora inumidita.

Umida come il campo del Neri. Come gli striscioni dei tifosi. E come quella gigantografia di Gavino. Riscaldata però dal calore di una torcia. Che poi sarebbe il paradigma del cuore degli ultras.

Testo Simone Meloni

Foto Gilberto Poggi e Simone Meloni

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